Una mattinata di sole primaverile. A Viareggio mattinate come queste allagano di luce in darsena il bosco di alberi e reti delle barche, a specchio sul cristallo lucente dell'acqua.
Il gridìo allegro delle sirene qui è il canto degli uccelli al mattino. E riempie di festa mattutina questo inondare di luce violenta. Al momento giusto, timidamente, anch'io suono la mia piccola campana sul tetto della mia chiesetta: è quasi nascosta dai pini e è di tra il loro verde, come se saltasse di sui rami neri, che sbucano fuori i rintocchi a distendersi nel bosco degli alberi delle barche, assiepate tutt'intorno, quasi accovacciate sull'acqua, a dormire ancora, nonostante lo splendore del sole.
E' l'ora della Messa. E' l'ora del lavoro. E mi accompagna all'altare l'orchestrale di una musica vera. E' fatta di lavoro, di fatica, di speranza.
Riconosco ormai i diversi rumori. A volte sono come una fuga classica. I primi colpi di mazza. Ve ne rispondono altri più lontani, colmati di echi profondi. Il martellare secco dei calafati. Le lamiere battute a suono metallico. Si accende qualche motore dì peschereccio. E fanno coro, spesso, quelli dei grossi motoscafi in prova. E poi si alzano le voci delle seghe a nastro che cantano l'ultima pena del legno. E a un certo punto irrompe violento l'inno trionfale dei martelli pneumatici che ogni altro rumore raccoglie ed unisce in un a solo potente.
Io celebro la mia Messa, quasi solo nella mia chiesetta, piena soltanto di ombra raccolta per la porta socchiusa.
Ho soltanto a rispondermi il gridare dei portuali là fuori, il confuso urlio dei pescatori, qua di fianco, oltre la lama d'acqua dell'ingresso alla Darsena, che fanno il mercato del pesce azzurro arrivato allora allora dalla notte fresca del mare.
E mi rispondono gli operai nelle officine e nei cantieri e negli stabilimenti di cui mi arriva il fragore della loro fatica, o il suono della loro sirena e di cui so la dura storia di ogni giorno, legati a catena all'attrezzo di lavoro.
La mia chiesetta allora è come se fosse senza mura. E' vasta come la Darsena. Come tutta la zona di lavoro nella quale sto vivendo. E' aperta a tutto il mondo perchè è perfino senza confini e anche senza orizzonti.
La mia Chiesa è tutta la terra. E vi è un altare. E sopra vi si compie il sacrificio di Gesù, Dio fatto Uomo. E' per l'umanità intera. Io, povero uomo, sono questa umanità: li porto tutti con me gli uomini. Sono qui con me, quelli che sono là fuori, più lontano, agli estremi confini del mondo. Siamo una cosa sola ormai: su questo blocco di pietra è l'umanità intera e il suo Dio.
Io sono qui per dire «sì, a Dio» a nome di tutti. Lo faccio ogni mattina e dal più profondo della ragione del mio esistere. Dopo, tutto il resto, ogni cosa, fino al vivere o al morire, è secondo questa logica. E non può che essere così.
Sono uscito alle 10. A poco a poco, tutt'intorno ogni rumore di lavoro è cominciato a tacere e gli operai li vedevo passare in fretta per la strada.
Sciopero generale. Comizio in piazza grande. E' per protestare per la serrata di un Cantiere. E' una debolezza che si unisce per essere una forza. E' l'individuo che cerca fiducia nel numero. E' la speranza di far valere la sicurezza del proprio diritto. Sono fratelli che lasciano il loro lavoro per stringersi intorno ai fratelli che sono rimasti privati ingiustamente del loro lavoro.
Ora la mia chiesetta è in piazza grande, veramente senza muri, sotto la volta del cielo azzurro, con la gran lampada accesa del sole. I fedeli di questa mia chiesa sono tanti stamani, centinaia e cen-tinaia. Sono i fedeli della sofferenza, della fatica, della povertà, dell'oppressione, dello sfruttamento. Sono i fedeli di un Cristianesimo di cui parla così chiaramente il Vangelo. Sono i fedeli della «Chiesa dei poveri» di cui ha parlato Giovanni XXIII e il Concilio Ecumenico.
Sento che è un'unica Chiesa la mia chiesetta e questa chiesa dei poveri, senza muri, a cielo aperto, colmata di fedeli al lavoro per il pane quotidiano e un po' di dignità umana. Mi ci trovo bene mescolato fra questa folla di uomini, che ha tutta l'aria di essere gregge di pecore senza pastore, come diceva Gesù, una moltitudine sulla quale non può non essere la dolce bontà della Sua Misericordia, come su quella folla che lo aveva seguito in cerca di Parole vere e rimasta senza pane, nel deserto.
Non sono io, là al centro, come nella mia chiesetta, a raccogliere la sofferenza di questa gente, a rispondere a questa sofferenza con parole di fiducia e speranza. Ma non importa. Penso e credo che il posto del sacerdote è, sì, all'altare e sul pulpito, ma è forse ancora di più mescolato fra la gente, a raccogliere tutto il problema di ciascuno e di tutti per essere portato a Dio.
Se io non prendo nelle mie mani il pane e il vino e non lo offro e non lo consacro, non diventa il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo, a salvezza del mondo.
Sono qui a raccogliere nelle mie mani (nel mio sacerdozio) questo problema di sofferenza umana, questa realtà di esistenza fatta di uomini schiacciati dall'ingiustizia, questa solidarietà saldata da una coscienza di nullità individuale, nella ricerca di valori fondamentali, nell'affermazione di diritti inalienabili... questo problema fatto di uomini vivi, di fratelli di Gesù Cristo, di Figli di Dio....
E' una Messa senza candele, senza paramenti sacri e non suona il campanello nei momenti importanti. E' una Messa invisibile sotto le apparenze più sconcertanti e sgomentanti.
Ma è così anche nella Messa che ho celebrato nella mia chiesetta stamani. Fu così - ma infinitamente di più - anche sul Calvario.
Sento su questa piazza colmata di sofferenza umana spaventosamente bisognosa di redenzione, la presenza invisibile, ma reale e concreta, del Sacrificio di Cristo.
E io ne sono il sacerdote.
Mi dispiace dal più profondo dell'anima di essere l'unico prete qui. Perchè sarebbe stato meraviglioso essere in tanti sacerdoti per una concelebrazioni stupenda o come quando il Vescovo fa la Messa pontificale nelle grandi solennità liturgiche.
Non sono io a parlare a questa folla come la domenica al Vangelo, ma non importa nemmeno questo. Io credo che ogni uomo, se lo vuole, può dire meravigliose verità. Stamani poi parlano in diversi, ma la lingua è una sola stamani, e quindi anche il cuore è uno solo. Vi è unità di motivi perchè è unica la sofferenza: è bellissimo vedere questa massa d'uomini che non fa differenze nell'applaudire, portano sul volto indurito dal lavoro i segni di un solo pensiero e di un unico sentimento.
Ora, in questo momento, li vedo e li sento tutti fratelli: dunque non può mancare il fratello mag-giore, Gesù Cristo, e non può mancare la dolce presenza del Padre di tutti, Dio.
D'accordo: può essere questo un sogno di visione religiosa a tutti i costi.
Ma chi deve e può vedere il Cristianesimo dovunque e la ricerca umana di Dio e Dio presente fra gli uomini, se non il sacerdote?
E se non vedessi Mistero religioso dovunque e se non servissi questo Mistero con il mio sacerdozio, che cosa ci starei a fare, come prete, al mondo?
Poi la lunga processione di centinaia e centinaia di uomini per le vie della città. Un momento del lungo e faticoso camminare dell'umanità a mendicare un po' di pace, un'ombra di giustizia, briciole di Amore.
Un giorno in questa umanità in cammino faticoso e penante, è venuto Dio e si è messo a cam-minare anche Lui portando la Sua Croce, cioè la Croce di tutti: è per essere forza, per sostenere la fatica, è perchè gli uomini non si sentano soli, è perchè il camminare non smarrisca la strada.
Mi sono trovato quasi in testa alla lunga processione e camminavo portando, insieme a tutti, la croce di quella umiliazione, di quella povertà umana, ma anche la croce dell'unica speranza per il destino umano sulla terra e per il Cielo.
Che non vi fossero immagini religiose e crocifissi di legno e lanternoni pittoreschi e stendardi variopinti e canti e inni e recitar di preghiere, non credo che abbia grande importanza. Vi era la realtà di un'umanità bisognosa di Dio, amata da Gesù Cristo, quella per cui è, in modo particolare, la Chiesa.
Peccato che i sacerdoti non vengano a queste processioni, ma preferiscano andare alle altre, quelle in cui, molte volte vi è tutto, meno che questa realtà di esistenza umana oppressa e schiacciata da tutta una sopraffazione che ha infinito bisogno di liberazione e di redenzione. Penso che sono queste le processioni dove si cammina la terribile strada della vita e dove Dio è venuto a camminare, mescolato con noi, perchè sa bene che da soli, nemmeno un passo saremmo capaci di fare.
don Sirio
in Il Nostro Lavoro: Il NL - Anno 2 - N. 5 Viareggio - Maggio 1964, Maggio 1964
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455