Parlare di un avvenimento storico è sempre qualcosa di pericoloso, nel senso che è molto facile dia esca alla nostra pigrizia.
Un avvenimento storico si può considerare da due punti di vista: ci si può limitare a celebrarlo e commemorarlo, come fatto ormai lontano, staccato dal nostro essere nel presente, oppure si può cercare di individuare quali siano i suoi riflessi sulla nostra vita di oggi e soprattutto in cosa abbia modificato i nostri rapporti umani e in cosa sia suscettibile di modificarli ancora. Ed è molto facile, appunto, che la nostra pigrizia ci spinga a scegliere la prima via, indubbiamente più comoda e meno compromettente.
Così è anche della resistenza. Non nascondiamo che per un attimo neanche noi abbiamo saputo sottrarci alla tentazione di «celebrare» il 25 aprile: di ricordare qualche episodio della lotta partigiana, magari mettendone in risalto il valore morale del sacrificio e cavarcela nella maniera più spiccia e meno impegnativa. Ci siamo accorti che non sarebbe stato onesto e che, soprattutto, non sarebbe servito a nulla. Eccoci, dunque, a parlare, o meglio a cercare di parlare della resistenza come fatto vivo, come avvenimento che continua nel presente ed informa di sé la nostra vita di tutti i giorni.
Con la resistenza, per la prima volta nel nostro paese, le masse popolari da succubi delle decisioni altrui, divengono artefici del loro futuro. I soldati mandati a morire sui campi di battaglia di mezza Europa e d'Africa per una politica che essi non avevano deciso e per difendere interessi che non erano i loro, scoprono, per la prima volta, il valore determinante del loro numero e la forza che essi hanno d'imporre una svolta popolare alla storia italiana. E' tutto il popolo che, nella resistenza, conquista il proprio diritto alla sovranità e alla democrazia.
Al di sotto di questo, che è il principale, la resistenza, secondo noi, ha tre aspetti diversi: l'insurrezione nazionale contro l'invasore (il che spiega, ad esempio, la presenza fra le forze partigiane di formazioni regolari del vecchio esercito regio, inquadrate militarmente dai loro ufficiali; la lotta al fascismo, inteso non soltanto come sistema politico, ma come costume di vita; la lotta per la costruzione di un paese diverso, in cui giustizia sociale e democrazia aprissero prospettive nuove, di una vita a livello d'uomo (il clic spiega come nei LN potessero confluire forze politiche tanto distanti nei loro metodi e nella concezione della società da edificare, ma unite da una comune aspirazione di giustizia e di libertà).
Il primo aspetto della resistenza, quello della insurrezione contro l'invasore, si è veramente concluso il 25 aprile 1945 con la resa delle armate tedesche al CLNAI. Di esso non potremmo fare che una commemorazione, ricordando i lutti e i sacrifici che costò.
La lotta contro il fascismo, invece, non può dirsi affatto conclusa. E ciò non soltanto perchè il fascismo vive ancora in forme diverse in troppi paesi, verso la lotta di liberazione dei quali va e deve andare tutta la nostra solidarietà, ma anche e particolarmente perchè il fascismo è qualcosa dì più pericoloso di un semplice regime politico, di una forma di governo della quale non resta più traccia appena si sia riusciti a spazzarla via.
Perchè il fascismo è la codificazione dello sfruttamento di una classe su un'altra, è la esaltazione della forza e del sopruso, contro la libertà e la dignità dell'uomo ed è la distruzione di tutti quei valori che nella libertà e nella socialità trovano la loro espressione.
Per questo la resistenza al fascismo non è conclusa, ma continua e deve continuare ancor oggi. Continua non soltanto come lotta contro quei gruppi di potere che vollero ed imposero il fascismo e che ancor oggi determinano tanta parte della nostra vita, ma come ricerca di più veri valori umani, come difesa del significato della nostra esistenza.
Continua nella resistenza all'egoismo di classe, nella ricerca di una vita più giusta e più dignitosa, nella ricerca di una struttura sociale in cui gli uomini siano veramente liberi e la solidarietà diventi la loro norma di condotta e la norma di condotta dello Stato nei loro confronti, continua nel rifiuto dello sfruttamento e della guerra, continua nell'aspirazione a sentirsi liberi e nella tendenza a scoprire i nostri stessi valori negli uomini che ci circondano, qualunque siano la loro razza e le loro credenze, continua nell'aiuto che diamo o che dovremmo dare ad altri uomini che lottano per liberarsi dal giogo dal quale noi ci siamo liberati.
Il terzo aspetto della resistenza, quello della lotta per un paese nuovo che sia davvero il paese di tutti noi, nel quale nessuno di noi debba sentirsi estraneo ai valori che sono propri degli altri, è forse più vivo del primo e si rinnova, si alimenta di giorno in giorno.
Il sacrificio di tanti che gettarono la loro vita nella lotta di liberazione non è stato inutile, ma deve ancora concludersi con il nostro impegno e con il sacrificio di cui noi saremo capaci. E si concluderà nella misura in cui sapremo rinunciare al nostro egoismo per conquistare la parte migliore di noi stessi.
La resistenza ci ha dato una costituzione che è la premessa indispensabile per uno stato democratico e giusto, ma resta ancora da attuarla nel suo sacrificio pratico. Posso avere un diritto, ma poco vale che mi sia riconosciuto se non ho i mezzi per attuarlo. A poco valgono i principi di democrazia e di uguaglianza che sono alla base della nostra costituzione, se poi non abbiamo la forza di tradurli in pratica, se non riusciamo a farli diventare effettivi nel lavoro, nella società, nei nostri rapporti con gli altri.
Quando, ad esempio, gli operai di Torino difendevano con la loro vita la FIAT, o quando gli operai di Firenze smantellavano pezzo per pezzo l'officina Galileo e nascondevano le macchine nelle campagne, nei fienili, nei cascinali per salvarle dai tedeschi, non lo facevano, evidentemente, per proteggere gli interessi degli industriali, per perpetuare la loro possibilità di accumulare profitti. Lo facevano perchè erano sicuri che, finita la guerra, quelle fabbriche, quelle macchine non sarebbero state più il luogo ed il mezzo della loro schiavitù, ma il luogo ed il mezzo della loro libertà, della riconquista della loro dignità umana. Essi sentivano la fabbrica come cosa loro, come sicurezza della loro vita, come garanzia dell'avvenire dei loro figli e soltanto perchè tali la difendevano a prezzo della vita. I cinquecento e più consigli di gestione, nei quali gli operai italiani sperimentarono fino al 1948 la loro capacità di guidare il proprio lavoro e ritrovarono la dignità di uomini liberi, artefici del proprio avvenire, non nacquero a caso.
Ed ecco che, allora, la resistenza continua. Continua per realizzare, attraverso salari equi, la libertà dal bisogno; continua per la fine delle discriminazioni sul luogo del lavoro; continua perchè la possibilità di guadagnarsi il pane divenga un diritto e non una buona grazia dell'imprenditore; continua perchè gli uomini, nella fabbrica e fuori della fabbrica, si distinguano per le loro capacità e non per la ricchezza che posseggono, o la classe sociale alla quale appartengono; continua per la conquista della dignità del lavoratore; continua per la realizzazione di un sistema di diritto allo studio, in cui le prospettive dei figli dei lavoratori e dei figli degli industriali dipendano soltanto dall'intelligenza e dalla volontà e non dal reddito dei loro padri.
Continua negli scioperi, nell'impegno di ognuno, nelle parole dette e nelle umiliazioni subite.
Ed ecco perchè il 25 aprile è ancora vivo in ciascuno di noi ed ecco perchè del 25 aprile non è giusto fare una commemorazione.
O.B. - S.R.
in Il Nostro Lavoro: Il NL - Anno 2 - N° 4 Viareggio - Aprile 1964, Aprile 1964
Luigi Sonnenfeld
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