Calzaturieri Massarosa - Cantieri Picchiotti
E' il primo giorno, 10 marzo, di questa vertenza, per il rinnovo del contratto nazionale. Prevedo però che l'azione di agitazione sarà lunga e chissà quanto dolorosa.
Queste aziende, specialmente quelle della nostra zona, sono impostate, fin dal loro nascere, con tutta una mentalità paternalistica. E in questo clima sono state tirate avanti con ogni mezzo: dall'offerta di un buon sollievo economico ad una larga zona agricola, fino alla costrizione violenta ad una dipendenza assoluta con metodi di dirigenza a can mastino.
Nonostante un certo ammorbidimento in questi ultimi tempi, il clima di paura, di sospetto, del non volersi compromettere, comanda ancora fra i dipendenti.
Abbiamo cercato di trovare collaboratori al nostro giornale, ma non c'è stato niente da fare, per il momento. Sarà indifferenza, il solito menefreghismo di larghi ambienti operai, che aspettano sempre che facciano tutto gli altri, capaci soltanto di contare la paga della busta, imprecare perchè son pochi, ma poi non muovono un dito né fanno il più piccolo sacrificio perchè tutto vada un po' meglio per sé e per gli altri.
Ma molti non hanno voluto saperne di collaborare con noi per «non mettersi in vista», per «non avere delle grane» ecc. (è proprio divertente pensare che queste quattro pagine siano considerate un pericolo per i padroni e un compromettersi per i dipendenti!).
Stamani sono andato a vedere se i calzaturieri di Massarosa erano riusciti a fare lo sciopero. Vi doveva essere anche un comizio verso le 9.
Sono arrivato sulla piazza del Comune, ma oltre alla solita gente che gironzola sempre davanti alla casa comunale, non c'era nessuno.
Ho visto un gruppetto di uomini davanti al bar, sulla Sarzanese. Mi sono avvicinato e ho domandato come andavano le cose, vedevo bene che si trattava di sette o otto scioperanti.
Il comizio era mancato perchè la pioggia aveva disperso i pochi intervenuti e poi forse il luogo stesso, lontano dalle fabbriche, era stato scelto male.
Lo sciopero all'ÀPICE aveva ottenuto l'astensione totale degli operai e operaie. Erano entrati dentro i soliti «caporali» (chissà perchè i capi grossi e i capetti piccoli non sentono mai il dovere di solidalizzare con gli operai con i quali lavorano e dei quali dovrebbero avere la fiducia e il rispetto: basta una carichetta e subito si sentono in dovere di essere dalla parte del padrone, fino al punto che per i padroni è molto facile avere un buon numero di devoti servitori, basta aumentare il numero dei capi e dei capetti) e insieme ai caporali, è chiaro, sono entrati al lavoro gli impiegati, i quali, dato che lavorano col cervello e hanno studiato, si guardano bene dal mescolarsi con la plebe dei lavoratori del braccio, pronti però a conteggiare gli aumenti dei loro già buoni stipendi se quegli straccioni di lavoratori del braccio riescono, dopo chissà quali sacrifici, ad averla vinta con gli scioperi contro l'egoismo dei padroni, degli impiegati, dei caporali, ecc.
Francamente non credevo che il migliaio di operai e di operaie dell'APICE fossero capaci di questo serio impegno e di una misura così ammirevole di solidarietà.
Diversamente è andata al calzaturificio «Massarosa», più conosciuto con la vecchia denominazione «STAR».
Mi raccontava quel gruppetto di operai all'angolo del bar sulla Sarzanese, che stamani all'ingresso della fabbrica, all'ora di entrata, vi erano i rappresentanti dei sindacati a chiedere la solidarietà dello sciopero. La massa operaia stava lì, ondeggiando nell'incertezza, (quella terribile incertezza fra la paura del padrone e la vergogna e il dolore di essere un crumiro): si entra, non si entra... ma sull'ingresso è apparso il padrone e la paura della sua ombra ha vinto e chiotti chiotti sono entrati tutti al lavoro.
Il solito gruppetto, col quale ero entrato in confidenza, mi raccontava che, la sera avanti, il Principale aveva radunato i suoi dipendenti e aveva fatto un discorsetto, il solito discorsetto di raccomandazione a non scioperare perchè era un momento di grande lavoro, vi erano delle grosse consegne da fare, non era il caso di fare delle storie, ecc..
E' logico che al mattino è venuto a vedere chi aveva il coraggio di avergli fatto fare un discorso per niente. E la sua dignità padronale non è stata diminuita, ma anzi ha avuto modo dì affermarsi certamente con viva soddisfazione personale e dei suoi interessi.
E' stata però calpestata la dignità di centinaia dì esseri umani, umiliati dalla loro condizione di bisogno, resi incapaci di una libertà fondamentale, quella di cercare pacificamente di vendere un po' meglio la propria fatica e il proprio sudore, migliorando un contratto che salvaguardi, per alcuni anni, i loro interessi e la loro dignità di persone umane che si guadagnano onestamente la vita col proprio lavoro.
Non so se il gruppetto era bene informato: ma non mi interessano i particolari. Sta il fatto che quando la massa operaia di un'azienda diventa un gregge di pecore, vi è certamente della sopraffazione, dello sfruttamento, della prepotenza e quindi un vero e proprio stato di ingiustizia che deve essere denunziato e respinto. E questo per un dovere fondamentale di lotta contro il male morale e sociale e per l'affermazione del bene che oltre a tante cose, è anche fatto di libertà, di rispetto della dignità umana (anche se si tratta di povera gente), di parità di diritti e di doveri, di giustizia, insomma, e poi di amore cristiano verso il prossimo.
Se troveremo degli amici nelle aziende del massarosese che abbiano voglia di collaborare al «nostro lavoro», ci saranno tante cose interessanti da dire. Lo dicevo stamani al gruppetto di scioperanti all'angolo della piazza del Comune di Massarosa, davanti al bar.
Poi me ne sono venuto via, ma non riuscivo a non pensare con immensa sofferenza e con seria preoccupazione al problema che in una azienda gli oltre mille dipendenti sono compatti in sciopero, nell'altra, a due chilometri circa di distanza, oggi, i suoi oltre duecento operai sono andati a lavorare, sia pure forzatamente.
Forse sarà così anche domani. E se poi l'agitazione dura a lungo, cosa può succedere?
Non si può non essere oppressi da un'angoscia indicibile.
Alle 11 di stamani 17 marzo, dal Cantiere Picchiotti è iniziata una triste processione di operai, lungo le strade della città, fino alla Casa Comunale.
Il solito senso di umiliazione, quasi di segreta vergogna per questo andare per le strade a mostrare la propria miseria, a chiedere la carità di un interessamento della pubblica opinione e quindi dell'autorità a favore del pezzo di pane quotidiano.
Vedevo bene il disagio e l'impaccio di questi uomini, maestranze capaci, che hanno fatto la ricchezza di una azienda e che al primo venticello contrario ai grandi profitti, sono costretti ad andare per le strade a chiedere che il già magro guadagno non sia diminuito ancora per la riduzione di ore di lavoro e che siano impediti i licenziamenti minacciati.
Una folla di uomini aggruppati davanti al Comune a guardare alle finestre, lassù.
I portavoce di quella folla a raccomandare il problema al Sindaco, a chiedere una convocazione del Consiglio Comunale, tanto più che l'iniziativa della Direzione del Cantiere Picchiotti ha tutta l'aria di un'azione di rottura facilmente imitabile dalle dirigenze di altre aziende che, si sa, sono sempre pronte a scaricare sulle maestranze non solo le crisi di lavoro, ma anche i più piccoli accenni di non profitti immediati.
Davanti al Sindaco è stato fatto il discorso delle sette vacche grasse e delle sette magre: e è un discorso molto significativo di una mentalità di profitto incondizionato quando tutto va bene e di rifiuto di ogni sacrificio quando va meno bene. Poi il discorso che non sembra che vi sia crisi di lavoro da giustificare interventi così pesanti, dal momento che fino a pochi giorni fa vi è stato intenso lavoro di ore straordinarie. E' il primo provvedimento locale, in obbedienza al clima di disagio nel mondo operaio che sembra che la classe padronale vada cercando di realizzare per finalità politiche e quindi interessi economici.
E' un reagire immediato, dicevano, alla ultima tassazione sulle automobili e sulle imbarcazioni di lusso, facendone ricadere il peso sul già pesante bilancio familiare degli operai. Sta il fatto che qualsiasi problema economico e politico immediatamente va a finire nelle gambe degli operai perchè è il povero popolo che è sempre condannato a servire e a pagare...
Quante cose dicono gli operai, gli uomini che lavorano e faticano per il pane quotidiano: sono tutte cose vere, sacrosante, come sempre sono vere e semplici e schiette le cose dei poveri, ma sempre si ha l'impressione della loro fragilità davanti alle grandi ragioni economiche, alla forza del capitale, alla potenza della ricchezza, alla furbizia della dirigenza...
Gli operai sanno bene che vanno incontro a tempi duri e difficili e pesanti: in questa occasione di serena protesta operaia (piccola ma significativa indicazione di un problema generale all'inizio di svolgimento) abbiamo capito però ancora meglio il senso d'irresponsabilità della classe padronale. E' questa irresponsabilità fredda, calcolatrice e disumana del capitale e della potenza economica che ci fa p .ura. Perchè dare l'ordine di diminuire le ore lavorative si fa presto; mettere una lista di licenziati al cancello dell'azienda è facile; chiedere al governo il blocco dei salari, ci vuole poco, indicando il salario di chi lavora e produce la ricchezza per gli altri, come il grande responsabile della crisi e come l'unica soluzione della medesima, ecc. Tutto questo sembra problema facile e semplice se con tanta disinvoltura se ne trova la soluzione, ma non è problema semplice e facile che padri di famiglia non riescano a tirare avanti, costretti alla disperazione di un salario che diminuisce o sparisce del tutto e a un crescere dei prezzi fino a un costo della vita diventato impossibile.
Di chi sarà la responsabilità di questa disperazione?
Ci pensavo stamani, con la solita angoscia nell'anima, scendendo le scale della Casa Comunale insieme a quel gruppo di uomini che avevano raccontato le schiette e semplici ragioni dei lavoratori al Sindaco e mentre rientravo nella folla aggruppata sulla piazza, stretta intorno a chi raccontava la storia delle buone speranze. E continuava a scendere una pioggerella sottile, sottile, ma noiosa e fredda, da far rabbrividire.
d. S.
in Il Nostro Lavoro: Il NL - Anno 2 - N° 3 Viareggio - Marzo 1964, Marzo 1964
Luigi Sonnenfeld
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