E' da pochi giorni che è passato il Natale. E poi c'è stato capodanno e infine l'Epifania. Sono solennità religiose di fondamentale importanza nella Fede cristiana e dovrebbero significare e comportare ripensamento serio e consapevole dei problemi dell'esistenza umana, ordinati a un cercare di poter vedere un po' con chiarezza di luce serena i misteriosi «perchè» della nostra vita.
Ma ormai tutto galleggia in una impressionante superficie di stupidità, perchè anche le cose più serie sono condannate a essere soltanto occasione di sforzature artificiose, di piatto convenzionalismo, di interessi più o meno verniciati a festa ma che nascondono un triste opportunismo o, peggio ancora, un egoismo camuffato.
Mi riferisco al Natale, tempo di regali. Ma non è per risentirmi contro la mania assurda dei regali, tanto è una pazzia in aumento, come tante altre del nostro tempo, e non c'è niente da sperare da un'opera di persuasione.
E nemmeno vorrei parlare del pacco (panettone, spumante, ecc.) che ogni azienda che si rispetti «dona» ai propri dipendenti, anche se spesso può significare una certa intenzione di copertura sentimentale di molti problemi di rapporti umani fra dirigenza e maestranza spesso troppo dolorosi da poter sperare di risolverli o addolcirli con un panettone (ma di questo, ricordo che se ne parlò l'anno scorso in un articolo che suscitò tanto scalpore).
Ma il problema che il clima del regalo di Natale ci fa venire in mente fino a tirar su una vecchia e sempre viva sofferenza, è quello delle «regalie» che i dipendenti fanno in occasione delle Feste o in altre occasioni bene studiate, ai padroni, ai dirigenti, ai capi personale, ai capi reparto e forse, perchè no, agli impiegati di cui, al momento buono, si può avere bisogno.
E'un discorso duro, che può comportare di perdere amicizie e simpatie fra questi poveri operai o dipendenti di ufficio che per sfondare hanno bisogno del fagiano, del fiasco d'olio, di un paio di capponi, della cassetta di liquori, o quando è la stagione, di un canestrino di funghi morecci, con le foglie di castagno sopra. Ma non importa, anche se poi «il nostro lavoro» certi capi reparto o dirigenti lo guarderanno di traverso, mal sopportando che si vengano a guastare soddisfazioni personali, servilismi piacevoli alle vanità e all'egoismo, pranzetti simpatici di fagiano cucinato all'olio d'oliva innaffiato di vino di vigna e rallegrato dal cesto di frutta venuto dalla campagna... per un saper vendere le proprie grazie ai dipendenti con sistemazione di posti privilegiati e favori del genere.
Molto cammino, grazie al cielo, è stato fatto per una liberazione dall'ingiustizia e spesso dalla disonestà della raccomandazione da parte del personaggio influente, e ora ciò che conta è la prova d'arte e ottima referenza di buon mestiere, ma il regalo portato a casa, dato in mano alla signora, arrivato fumante sulla tavola, può ancora molto, moltissimo, disgraziatamente.
Può far compiere, per esempio, gravi ingiustizie. Creare favoritismi al di là o anche contro motivi di merito per onestà capacità. E può lasciare marcire di rabbia il disgraziato che non ha fagiani e fiaschi d'olio a disposizione o che ha un po' di dignità personale che non vuole umiliare, fino a ridursi a chiedere il riconoscimento del proprio diritto non alla giustizia, ma all'avidità orgogliosa e pretenziosa del superiore.
Non so se i casi di corruzione a base di regali sono molto frequenti nel mondo operaio o impiegatizio. Ma gli operai che si abbandonano a questa immoralità che è tradimento nascosto verso i loro fratelli di lavoro, che è discriminazione creata fra gli operai da loro stessi, che è egoismo indegno e segno di debolezza servile e di degradazione personale da ogni punto di vista e che è un voler creare dirigenti corrotti e ingiusti, intriganti e disonesti, questi operai del fagiano non sono pochi e la piaga è dolorosissima.
Fra ì dirigenti sono sicuramente pochi, forse pochissimi, quelli che «accettano» il regalo a casa, dai loro dipendenti, meno ancora certamente quelli che se l'aspettano o che lo pretendono, sempre meno quelli che se ne lasciano condizionare fino al punto che finché non arriva il fiasco d'olio, loro non si decidono; assolutamente non ve n'è quasi nessuno di quelli che non la perdonano a quegli operai che non si sono arresi ma tengono fieramente, duri e testardi, il cappone nel proprio pollaio per mangiarselo a Natale coi propri figlioli...
Mi perdonino i dirigenti e i capi e i padroni ecc., ma il problema esiste, e trattandosi di un mondo fatto a collettività come quello aziendale, anche un caso solo, cioè anche un solo dirigente «sensibile» al regalo, crea nell'azienda situazioni incresciose fra gli operai che poi sempre vengono a sapere, vedono cose strane, ingiuste, e quindi si accendono rancori, si creano fratture, cedimenti o irrigidimenti fino a problemi angosciosi di coscienza, disagi profondi e quindi umiliazioni avvilenti o reazioni terribili.
Il malcostume della raccomandazione, e tanto più l'immoralità delle «regalie», non dovrebbero esistere nel mondo operaio dove il criterio fondamentale di apprezzamento dovrebbe essere soltanto il lavoro, la norma direttiva dello andamento aziendale dovrebbe essere «il bene» dell'azienda collettivamente intesa e la legge che regola i rapporti dovrebbe essere il sereno e giusto rispetto della dignità umana dal principale ugualmente fino all'ultimo manovale o apprendista.
E' una specie di crumiraggio il regalo al dirigente. Un vendersi alla cupidigia di un altro. Un comprare disonestamente ciò a cui si riconosce di non avere legittimo diritto. Un corrompere le coscienze, spingendo all'ingiustizia. E' un tradimento fatto nel segreto verso chi è legato alla tua stessa catena e non ti accorgi che con le tue stesse mani rendi più ingiusto e quindi più cattivo il mondo in cui anche tu devi vivere, irrespirabile quell'aria che pure tu devi respirare.
Lo so, caro amico, che non pensavi a tutte queste cose quando sei andato a casa del dirigente con il pollo a cui tua moglie, con un sospiro di rimpianto, ha legato le zampe con un tricciolo, prima di metterlo nella borsa.
Hai pensato soltanto che per rimediare a quel problema, per sperare a quel posto, per ingraziarti il principale e tenerlo buono per qualunque evenienza,, quella era l'unica cosa da fare.
No, vi è qualche altra cosa assai migliore e assolutamente onesta e doverosa: esigere che i superiori facciano il loro dovere per rispetto della giustizia, che i loro criteri di giudizio e di apprezzamento verso i dipendenti siano oggettivi, sereni e quindi disinteressati, pretendere che non vi siano discriminazioni e differenze irragionevoli, e quindi assurde simpatie o antipatie e tanto meno preferenze a base di interessi e di egoismi personali...
La morale è la regola pratica che indica ciò che è male e ciò che è bene, capace di guidare, attraverso una coscienza ben illuminata, ogni comportamento della vita umana. Vi è quindi anche una moralità propria della vita aziendale, di fabbrica, di rapporti di lavoro ecc. Chiedo scusa se mi permetto scrivere di questa moralità: mi pare, anche se può essere duro il discorso e se a molti può dispiacere e scocciare, che cercare di affrontare certi problemi sia doveroso per questo nostro foglio che vuole essere sensibile, pronto e aperto ad ogni problema di giustizia e di rapporti umani fondati sul rispetto degli uni verso gli altri.
d. S.
in Il Nostro Lavoro: Il NL - Anno 2 - N. 1 Viareggio - Gennaio 1964, Gennaio 1964
Luigi Sonnenfeld
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