Alcuni operai del CANTIERE NAVALE PICCHIOTTI sono venuti a sapere che in un cantiere navale di Anzio, di recente fondazione, cercavano operai.
Tutto considerato, le offerte erano allettanti: circa il doppio di guadagno con più l'offerta di un appartamento per chi volesse spostarsi con la famiglia.
Questi operai, di fronte a una prospettiva così vantaggiosa, si sono messi in trattative. Si dice che stavano già aspettando il contratto. Sta il fatto che una sera sono stati convocati uno alla volta presso la Direzione e logicamente hanno confermato la loro intenzione di più vantaggiosa sistemazione, data l'impossibilità di un qualsiasi miglioramento della loro difficile situazione, rimanendo ai salari del cantiere.
Al mattino seguente, invece del cartellino da timbrare, hanno trovato l'elenco dei loro nomi attaccato all'albo della Direzione: licenziati in tronco per aver cercato un lavoro in un cantiere in concorrenza.
E' stato licenziato anche un apprendista per il solo fatto di essere figlio di un tale operaio che è andato a fare il capo in un cantiere in concorrenza.
Le cose da dire sarebbero molte e assai incresciose per la verità, perchè certa mentalità che esaspera le proprie pretese fino a interventi così assurdi, è troppo insopportabile, in se stessa e nelle conseguenze che porta, buone soltanto a provocare amarezze, disgusti e abissi di risentimento e di protesta.
E' comprensibile che sia doloroso per una direzione di azienda vedere andarsene operai che da anni (anche dieci, dodici, quindici) hanno lavorato nel proprio cantiere, vi si sono specializzati fino a diventare maestranze preziose: vederle andarsene a metter su un cantiere che sia pure a 400 Km lontano sarà sempre una concorrenza. E' dover assistere all'impoverimento del proprio cantiere (perchè è finalmente dimostrabile, in questi nostri tempi in cui la mano d'opera qualificata scarseggia, che la ricchezza dell'azienda sono gli operai che vi lavorano) è dover assistere all'impoverimento del proprio cantiere e al crescere di un altro, quasi, come dire, col proprio sangue.
E' doloroso e terribile: ma non dovrebbe però sorprendere e tanto meno far arrabbiare l'industriale perchè in fondo chi gli dà di queste pugnalate alla schiena, non è l'operaio, ma un altro industriale e il mezzo usato è quello capitale di cui gli industriali hanno fatto il loro unico dio.
In questa lotta di capitali, di ricerca a tutti i costi di profitti sempre maggiori fino all'insaziabilità, gli operai dovrebbero sempre rimanere a servizio, come sfruttamento e nulla più.
Avendo scoperto e capito che il loro valore unicamente apprezzato è la loro capacità produttiva, vanno a venderla al miglior offerente.
Chi è che ha insegnato agli operai che il maggior profitto è la regola fondamentale e che il guadagno è l'unico valore che conta?
Siccome certo insegnamento è venuto sempre (ma specialmente viene ai nostri tempi con una forza di convincimento irresistibile) dal capitale, il capitale e chi lo ha in mano e l'amministra con criteri così tanto unicamente di classe, non deve sorprendersi e tanto meno inquietarsi e sdegnarsi se anche gli operai si sono messi su quella linea e sono rimasti contagiati da quella mentalità, fino a essere guidati da quello stesso criterio. Se tutto l'uomo è ormai soltanto visto dal mondo industriale soltanto sotto l'aspetto del maggiore profitto, non si vede bene come gli operai debbano considerarsi in modo diverso quando si tratta del loro problema economico.
Il lavoro ormai, disgraziatamente, è merce di scambio per guadagno. Anche gli operai cercano di vendere bene, meglio che possono, la loro merce, l'unica merce che hanno e cioè le loro capacità, il loro tempo, la fatica, il sudore, la loro esistenza.
Il fatto sentimentale di rapporti umani su un piano di considerazione da parte dell'industriale e di fedeltà da parte dell'operaio, era una cosa magnifica, bisognava però che non comportasse vantaggi economici e di gran benessere soltanto da una parte: bisognava - e ormai è tardi - che anche l'operaio fosse messo di più a partecipare dei successi economici dell'azienda. Mentre invece quell'operaio, dopo quindici anni di lavoro seriamente produttivo che ha fruttato profitti ecc., tira avanti ancora la sua economia familiare faticosamente come, o quasi, quindici anni fa.
E dovrebbe continuare fino a quella magra pensione di vecchiaia, per dovere di fedeltà. Se tenta di tirare la carretta da un'altra parte guadagnando di più, si cerca di punirlo, in qualche modo, sbattendolo via, come un traditore.
Questo non è rispetto verso la libertà d'impiego di se stesso secondo i propri criteri personali. E si tratta di una libertà fondamentale al di qua della quale si arriva a forme schiavistiche, militaristiche, dittatoriali, più o meno radicali, con facile disinvoltura.
E' giusto e è bello che l'operaio sia fedele alla propria azienda e la consideri come la sua seconda casa (vi passa più ore della sua giornata che nella propria famiglia) crediamo però che la ragione economica che unicamente regna nelle aziende fino a essere legge suprema del mondo industriale, non aiuti questa fedeltà, ma renda sempre più irrespirabile l'aria degli stabilimenti perchè li disumanizza fino al punto che il guadagno rimane l'unico motivo di rapporto fra dirigenza e maestranze e viceversa.
Dopo, che almeno si sia capaci e disposti serenamente ad accettare che anche gli operai finalmente facciano il loro interesse.
d. S.
in Il Nostro Lavoro: Il NL - Anno 1 - N. 1 - novembre 1963, Novembre 1963
Luigi Sonnenfeld
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