IL NOSTRO LAVORO: Il NL - Anno 2 - N. 7 Viareggio - Luglio 1964

Trentasei pagine

immagine:  Trentasei pagine Nel mese di agosto e di settembre il giornale non uscirà. Riprenderà la pubblicazione nell'ottobre.
Non può quindi non venirci da fare come un bilancio consuntivo, arrivati a questo lungo intervallo di due mesi. E' come una conclusione per rivedere un po' tutto, studiare i diversi problemi e poi ricominciare e con criteri e sistemi migliorati.

Coscienza operaia
Abbiamo cominciato la pubblicazione nel novembre dell'anno scorso. Con questo sono nove mesi. Complessivamente trentasei pagine: non saranno, oggettivamente una grande cosa, è vero, ma, tutto considerato, non si può non ammettere che non siano, almeno per noi che abbiamo tanto faticato e penato, un motivo di una certa soddisfazione.
E penso che vogliano significare una gran cosa anche agli operai queste trentasei pagine.
Sono molti, veramente tanti gli operai che hanno capito l'importanza di un periodico mensile dedicato completamente ai loro problemi generali e aziendali.
E hanno visto e letto con interesse il giornale, e l'hanno aiutato concretamente con le loro offerte in modo da garantirgli quell'assoluta libertà e indipendenza da ogni influenza esterna.
Fin da ora però si deve dire con grande chiarezza che gli operai è necessario che partecipino assai di più alle riunioni di redazione o inviando notizie, riferendo problemi, comunicando ciò che avviene nelle loro aziende, perchè il giornale possa essere veramente il portavoce di problemi vivi e vissuti al di dentro dei cancelli degli stabilimenti.
Gioca molto fra gli operai, ancora, la paura del padrone, l'interesse personale, ma specialmente un menefreghismo assurdo, un lasciare andare l'acqua al mare, una indifferenza imperdonabile. Dopo è stupido lamentarsi della prepotenza del padrone, dell'ingiustizia dei capi, della rufianeria dei compagni di lavoro ecc.
Avere quattro pagine a disposizione, ogni mese, dova con libertà e assoluta franchezza - e nove numeri sono lì a testimoniarlo - possono venire affrontati tutti i problemi che affliggono il mondo del lavoro o che possono determinare la sua promozione in situazioni di maggiore giustizia, libertà, rispetto e valorizzazione umana e economica, è certamente occasione di cui gli operai dovrebbero approfittare ben volentieri, se sta loro a cuore la ricerca di un mondo del lavoro più giusto, più umano (e per molti penso che si possa aggiungere più cristiano) per sé e per i propri figli.
Bisogna che gli operai si muovano di più, che siano più attenti ai loro problemi, che s'impegnino di più. E specialmente quelli che hanno maggiore senso di responsabilità e più vivace sensibilità operaia. Diversamente si diffonderà sempre più quella mentalità borghese, individualistica e utilitaristica che abbracchirà sempre più la vita aziendale ad un andamento penalizzato fino alla sparizione perfino di un ombra di dignità umana.
E tutto questo si sa bene di chi fa il buon gioco.

Utilità del giornale
Nessuno penso può non riconoscere l'immensa utilità di una pubblicazione a servizio degli operai E' però evidentemente l'utilità propria di un giornale e di un giornale che viene stampato e diffuso soltanto una volta al mese: non può fare certamente miracoli di soluzione di problemi. Ha però il suo valore il parlare chiaro, l'affrontare l'ingiustizia, il combattere la sopraffazione, il richia-mare all'onesta visione delle cose, il promuovere la solidarietà, il contribuire alla formazione di una sana e forte coscienza operaia. Ha la sua importanza il convergere, in un foglio mensile, dei problemi delle diverse aziende e diffonderne la conoscenza in seimila copie, che in un modo o in un altro, non possono, a lungo andare, non modificare o almeno non influenzare l'opinione pubblica.
Perchè ormai è evidente che ciò che avviene al di dentro dei cancelli dello stabilimento e fra le pareti dell'ufficio del dirigente, non è più un problema che nasce e si conclude nell'azienda, ma entra nel tessuto della vita sociale e diventa elemento di forza determinante dell'andamento non soltanto economico, ma anche umano, politico, morale di tutta la società.
Sono convinto che lavorare alla soluzione dei problemi umani nel mondo del lavoro, sia il contributo più importante che possa essere dato per la soluzione dei problemi di esistenza e di convivenza di un popolo e dei popoli fra loro. Mi viene in mente Papa Giovanni, questo appassionato della pace fra gli uomini, che prima ha scritto l'enciclica «Mater et Magistra» dove ha indicato le speranze e la possibilità di pace nel mondo del lavoro cercandovi una piena e perfetta giustizia e poi l'altra enciclica, «Pacem in terris» dove parla e cerca e invoca la pace fra tutti gli uomini.

Agli impiegati
E' ciò che abbiamo cercato di fare, con questo periodico, anche presso gli impiegati. So bene che non è facile spalancare le finestre degli uffici tecnici e amministrativi per farvi entrare una boccata d'aria aziendale e un po' di chiarezza di rapporti. D'inverno le finestre sono chiuse perchè non se ne vada il calduccio del riscaldamento. D'estate sono chiuse le persiane perchè il sole darebbe noia. E quindi ci è sempre qualcosa che impedisce che un po' di libertà del di fuori entri nel chiuso del mondo impiegatizio.
In generale il giornale non è piaciuto agli impiegati. Non me ne sorprendo anche se mi è motivo di grande sofferenza. Perchè è cosa spiacevole e assurda che gente che è così vincolata agli operai fino al punto che il loro lavoro dipende dal lavoro operaio, non senta una solidarietà, e non viva insieme gli stessi problemi. Dimenticando che questo distacco dal mondo operaio significa distacco dalla vita sociale del contesto umano nel quale il mondo operaio è inserito in misure tanto formidabili, questa non partecipazione dei problemi operai vuol dire isolamento e imborghesimento per un togliersi fuori da quei fondamentali doveri e responsabilità che sono il minimo richiesto per una dignitosa vita civile secondo il nostro tempo.
E' un lavoro di rottura con tutta una mentalità, un interesse personale, una comodità borghese ecc. che non può non essere affrontato da una pubblicazione per la quale uno dei motivi più fondamentali è il senso di solidarietà e di lealtà in tutto il mondo del lavoro.

Agli imprenditori
Sta il fatto - e questo colma il dispiacere - che noi non avremmo da lamentarci della non accoglienza da parte degli impiegati (salvo alcune coraggiose eccezioni) e gli impiegati non avrebbero da lamentarsi di certa durezza del nostro giornale verso di loro, se i padroni, i direttori, i dirigenti ecc avessero accolto con simpatia questo foglio mensile dalla «striscia rossa».
Ma, ahimé, questo non è successo e chissà quando potrà succedere. Per il momento le prospettive sono assai negative.
Chissà perchè la dirigenza imprenditoriale considera questo giornale come un nemico. Ogni volta che me ne capita l'esperienza, ne rimango sempre dolorosamente stupito. Come d'un qualcosa d'assurdo. E' un giornale di cui è responsabile un prete, che esce praticamente da una chiesa, che ha una impostazione schiettamente cristiana, guidato com'è dal Vangelo e dalla dottrina sociale della Chiesa... eppure è malvisto dai dirigenti. E' un problema molto serio, gravissimo. Anche qui si rende inevitabile una rottura di costume che ormai aveva come consacrato diritti e ipoteche anche là dove la libertà è tutto perchè è condizione della verità e della giustizia e della carità e quindi del Cristianesimo.

Speriamo bene
Nell'intervallo di questi due mesi bisognerà studiare un rinnovamento del giornale, una più larga partecipazione operaia, una più precisa diffusione.
E si rende necessario anche lo studiare una azione concreta perchè tutto non sia soltanto discorsi, sia pure scritti e stampati.
Faccio assegnamento, è chiaro, sulla simpatia degli operai e sulla collaborazione della redazione che sia pure ristretta è stata però seriamente impegnata, non soltanto nella stesura degli articoli, ma nel potenziare con buona volontà quei terreni comuni, che ci hanno unito, pur pro-venendo da posizioni ideali e reali anche molto diverse.
E faccio assegnamento, anche per il futuro, sugli amici vicini e lontani che molto hanno fatto per sostenere e incoraggiare con la loro simpatia e con l'integrare con la loro generosità le offerte raccolte presso gli operai quando queste non sono state sufficienti a coprire le spese. Spese che ad ogni numero di giornale vengono spietatamente a fare impressione con la loro gravità
Con le offerte degli operai e con quelle degli amici chiudiamo però con serenità l'amministrazione di questi nove numeri con un totale di spesa che ha superato assai il mezzo milione
E questa è soddisfazione non piccola, perchè vuol dire che gli operai e gli amici hanno potuto mantenere la libertà al giornale, salvandolo dalle urgenze economiche che spesso sono soffocamento di ogni libertà.





don Sirio

Lo sciopero

Quando si fa sciopero
una sola è sempre stata
la volontà
dei cavatori di Carrara.
Dal Ravaccione ai Campanili,
dal Canal Grande ai Betogli
dalle cave del Sagro
ai Fantiscritti,
i cavatori sanno
anche per mesi
guardare
le cave deserte
sotto il volo stupito
dei falchi.

Non è solo per il pane

Non è solo per il pane che si lavora,
perché il pane si può anche rubare
e si può rubare
anche qualcosa di più che il pane.
Ma si lavora
perché ognuno sia come una ruota
di vita nell'ingranaggio del mondo.
Si lavora perché ognuno capisca
dentro se stesso
il giorno e la notte
e la fatica delle stagioni,
la musica e l'amore
e le ragioni dell'Universo.
Si lavora
perché le nostre parole
abbiano un peso di verità,
nell'assemblea degli uomini.

Dal volume "I cavatori delle Alpi Apuane" Ed. La Nuova Europa


La crisi di Governo

27 giugno
Da poche ore il governo ha dato le dimissioni, per un contrasto sul finanziamento della scuola privata.
L'argomento non riguarderebbe il nostro giornale; vogliamo però dire che abbiamo l'impressione comune che l'ostacolo su cui è caduto il governo sia stato un pretesto. Su quel tema era sempre stato possibile trovare un compromesso. Secondo noi chi ha fatto cadere il governo difendeva ben altri interessi. E ci spieghiamo.
L'approvazione delle leggi agrarie è rimasta a mezzo e le disposizioni a favore dei mezzadri non potranno più entrare in vigore, per questa annata agricola.
Entro giugno il governo avrebbe presentato al parlamento la nuova legge urbanistica, destinata a stroncare quella che Papa Giovanni definì tanto efficacemente « usura fondiaria ».
La programmazione, che permette al governo di indirizzare verso fini conformi all'utilità di tutti le iniziative economiche, ponendo un freno alle distorsioni e alle speculazioni provocate dalla logica del massimo profitto, e deve assicurare la stabilità di occupazione e di reddito, subisce un grave ritardo.
Presentazione della legge urbanistica, approvazione della legge agraria, avvio della programmazione, erano tre cose che dovevano venir fatte in questi giorni, atti che favorivano la collettività colpendo gli interessi di pochi privilegiati. Con la caduta del governo certe speculazioni e certi privilegi hanno guadagnato diversi mesi. Se va bene. Perché se va male, è già pronto l'assalto delle destre alle istituzioni democratiche.


E. V.


Fronte del Marmo

Ma come stanno le cose?

Nel numero di Giugno de "Il nostro Lavoro" sotto il titolo "Il Fronte del Marmo", abbiamo esposto il nostro modesto parere sulla situazione economica dell'industria marmifera in ordine alla lotta che i lavoratori sostengono per il rinnovo del loro contratto nazionale.
Coscienti di aver esaminato il problema con obiettività, indirizzavamo anche agli industriali "seri" l'invito a dimostrare a fatti le loro sollecitazioni e le loro preoccupazioni per la sorte delle maestranze - costrette a sopportare gli enormi sacrifici derivanti dalla prolungata agitazione - affinché si escogitasse la maniera di riprendere le trattative così assurdamente interrotte ad opera della Confindustria.
Fino a questo momento però, nessun fatto nuovo è intervenuto nella vertenza ad avvicinare le parti, a rinnovare soprattutto la testarda posizione confindustriale che si rifiuta di dare regolare avvio alla trattativa, per cui, la dignitosa consapevolezza dei lavoratori del marmo non poteva esprimersi altrimenti che confermando l'ulteriore manifestazione di lotta con lo sciopero nei giorni 10, 11, 12 e 13 corrente mese.
Un fatto nuovo, veramente, c'è stato: si è trattato qua e là, di certi ridimensionamenti di personale di alcune aziende del Carrarese e della Versilia - certamente in contrasto con le affermazioni già riportate del Presidente dell'U.G.I.M.A. in materia di piena occupazione - e che tuttavia, restiamo fermamente convinti non aver niente a che fare con la situazione economica del settore, ma di essere piuttosto il risultato dell'operata automazione degli impianti produttivi.
Non siamo ancora riusciti a comprendere se questa nuova prodezza padronale sia più giustificata dalle imprescindibili ragioni economiche, piuttosto che da motivi strumentalistici della congiuntura. Secondo una certa logica imprenditoriale questo vuol essere un altro pezzo del mosaico dimostrativo della crisi(e non altro) per sollecitare interventi governativi a favore del settore.
Nonostante questo e i motivi di preoccupazione che sorgono da molte parti per l'andamento congiunturale in genere e dell'industria del marmo in particolare, abbiamo avuto la ventura di leggere sul quotidiano "La Nazione" dell'8/7 - notoriamente portavoce industriale - che le spedizioni di marmo da Carrara effettuate nell'arco di tempo che va da Gennaio a Maggio compreso, dell'anno in corso, ammontano a Tonnellate 154.662,9 con un aumento di 2.937 tonnellate rispetto allo stesso periodo dell'anno 1963.
Non ve n'era bisogno: ma ringraziamo "La Nazione" di aver portato il suo pensiero in appoggio alla nostra tesi.
Intanto il particolare interesse dei partiti al governo o all'opposizione provoca la crisi governativa. I prezzi sono in costante aumento, aggravando la situazione del bilancio familiare specialmente per i prestatori d'opera. Pare che ovunque sia terreno fecondo per l'affermazione della confusione e per il predominio di una parte sull'altra.
Se un insegnamento dobbiamo cogliere dalle attuali vicende economiche è che l'autonomia delle decisioni e dei comportamenti, quando si realizza soltanto sulla sollecitazione dell'interesse particolare e immediato e non si inserisce in una attenta valutazione dei bisogni e delle convenienze collettive, significa soltanto disordine, sperpero di risorse, inefficienza.
Quest'ultimo - ci perdoni la Confindustria - è il male che maggiormente affligge la classe imprenditoriale nostrana.




A. B.

La Dalmine e l’automazione

Avrà inventato la leva colui che doveva sollevare a braccia pesi superiori alle sue forze, così, avrà inventato le ruote colui che doveva trasportare a spalla. E da questa interminabile scia umana sorgono in continuazione nuovi «dritti» sempre pronti a saper sfruttare anche il genio altrui a proprio vantaggio e con minore spesa possibile, mentre dalla massa sempre in numero maggiore si cercano tutte le occasioni favorevoli, per sfuggire alla sopraffazione. Non c'è da rammaricarsi di questa lotta se l'intera umanità saprà elevarsi al di sopra della propria schiavitù, umanizzandosi veramente in for-ma democratica, in funzione delle proprie coscienti capacità produttive.
Ma poiché dal nulla, nulla si ha, e rimanendo indiscussa la necessità di avere forze produttive atte a sfruttare le risorse naturali, è auspicabile che come, con sorpresa, la leva ha fatto sollevare pesi superiori e la ruota trasportare maggiori merci, così si giunga a comprendere che col solo ingegno è possibile liberare l'umanità dall'attuale stato di schiavitù e sostituirla con «servomezzi meccanici».
L'uomo per grazia superiore può avere capacità di creare le sue macchine e di esse può disporre quale padrone, giudice, programmatore, obbligandole ad eseguire in forma incosciente i suoi ordini senza che queste siano sensibili ai gemiti e al soffrire, ma anzi godranno forse di un trattamento più riguardoso, perché esse vengono usate con cura, manutenzione, e sfruttamento razionale, ciò che invece non si ha per l'uomo.
Occorre acquisire una nuova mentalità per poter alleviare le fatiche umane e migliorare i pro-dotti sia qualitativamente che quantitativamente. Emancipare il personale coscienziosamente e tecni-camente.
In questo roseo avvenire di progresso su basi fraterne, potremmo avere la possibilità di intesa tra coloro che hanno e coloro che non hanno, tra popoli sottosviluppati e popoli progrediti, permettendoci così di sentirci esseri veramente superiori. Volendo, credo si possa eliminare o diminuire la fatica umana, lasciando pure notevole margine al capitalista, nell'avere una sicurezza funzionale maggiore che di per sé garantisca un aumento di produzione, oltre al permettere un'elevazione morale dell'individuo sulla scala umana e dare lustro e prestigio alle aziende che in questo campo per prime raggiungeranno i migliori successi.

* * *
Alcuni anni fa anche la Dalmine di Apuania spronava alcuni elementi, tra il suo ben qualificato personale, in una avvincente gara con gli altri complessi della «Grande famiglia» (Dalmine-Costavolpino-Torre Annunziata ecc.) a studiare e realizzare una forma di automazione atta a migliorare sia qualitativamente che quantitativamente la produzione.
Poi è stata sospesa. Perché? Mancavano forse i tecnici o la volontà dei dirigenti? Perché non si è continuato nella valorizzazione del personale ad essa adibito?
E pure quanto fu studiato e realizzato è tutt'ora funzionante e con esito soddisfacente nonostante gli anni trascorsi. Non si pensa che se si fosse continuato lo stabilimento di Apuania avrebbe raggiunto altri obiettivi e vanti? (e forse oggi sarebbe più facile combattere la concorrenza internazionale con la conquista dei mercati perché con uno stabilimento automatizzato la produzione sarebbe stata maggiore e migliore?) Non si pensa che ciò avrebbe permesso il rilevarsi di altri elementi e stimolato altri a rivelarsi? Perché si è cercato di soffocare gli stimoli della collaborazione? Forse è stato per non fare troppa concorrenza alle aziende private? Forse non si vedevano appagate le fantomatiche speculazioni? Può darsi che questa sia la ragione. Se ciò fosse, la risposta potrebbe essere... Alla Dalmine di Apuania il programma di automazione sarebbe proseguito solo se il problema avesse permesso di eliminare il personale come unità alle dipendenze. Ma poiché ciò può sembrare ancora impossibile, allora se l'individuo vuol guadagnare lo stipendio, se lo deve sudare.
Ciò mi sembra non vada a beneficio della società umana, e un tale ragionamento mi sembra privo di amore e di quella carità cristiana che ci dovrebbe spronare a alleviare le fatiche dell'uomo. Il problema dell'automazione è sempre aperto. Vogliamo riesaminarlo?




Francesco Baruffati

La cronachetta

Escavazione porto di Viareggio.
Un gruppo di dipendenti dei Lavori Pubblici dello Ufficio del Genio Civile per le Opere Marittime di Genova-Servizio escavazione porti - dall'avvenuto inquadramento nei ruoli, non percepisce l'aggiunta di famiglia e questo da circa 12-13 mesi.
Non si riesce a capire bene se di questo mancato pagamento di assegni familiari è da incolparsi il Ministero dei Lavori Pubblici o il Ministero del Tesoro o se dipende invece dall'Ufficio Provinciale del Tesoro di Genova.
Sta il fatto che per questo gruppo di operai dipendenti dello Stato, lo Stato è cattivo pagatore e cattivo pagatore nientemeno che degli assegni familiari...
Sarà interessato della cosa il Ministro dei Lavori Pubblici e del Tesoro.

Sette giorni di ispezione in un refettorio aziendale dove mangiano, ciò che hanno portato da casa, circa 25 operai: tre bracioline e due scatolette di Simmenthal da 240 grammi ciascuna.
Questa è tutta la carne apparsa, in sette giorni, fra i minestroni e le verdure (a parte naturalmente la mortadella di Bologna e il biroldo).

La pignola assistenza previdenziale. E' successo ad un operaio qualche tempo fa. Le cure termali raggiunto il 57° anno di età, non le concede più perchè al 60° il lavoratore va in pensione. ( La Previdenza rinnova la concessione ogni tre anni).


APICE:commissione interna

Nonostante la recente compattezza sindacale di tutti gli operai, durante gli Ultimi scioperi, la paura regna ancora sovrana nello stabilimento Apice di Massarosa.
A questo proposito ricominciano le tristi note di una famosa musica, suonata oramai da diversi strumenti: è che noi vogliamo risuonare questa volta col tamburo, per vedere se anche quelli più duri d'orecchi riescono a sentire l'antifona.
Vogliamo alludere alla Commissione Interna.
E' mai possibile che nessuno abbia più il coraggio di riparlarne?
E allora ne riparleremo noi.
Già in passato furono fatti alcuni tentativi, sempre troncati sul nascere dalle forze padronali e anche con modi non tanto democratici. Ma allora l'operaio non aveva ancora la forza necessaria a controbatterla, perché non sapeva ancora che la sua forza si doveva basare sulla compattezza.
Dopo queste due ultime prove di solidarietà, ci sembra però di poter sperare bene.
L'azienda, come è evidente, è costituita in maggioranza da mano d'opera femminile. Se per il settore maschile ci potremmo considerare abbastanza soddisfatti per il numero dei probabili aspiranti a far parte della commissione interna, non si è altrettanto soddisfatti per quello femminile. Occorre quindi un particolare incitamento nei loro riguardi. Anche perché i suoi problemi sono, per natura, più complessi e delicati, in confronto con i nostri.
La Commissione Interna serve per tutelare i diritti dei lavoratori, per liberare l'operaio dall'incu-bo di essere solo e indifeso e per tante altre cose ancora, di cui si potrà parlare in un'altra occasione.
Poi basta pensare che agli industriali non è mai piaciuta e spesso succede che quello che non piace a loro, voglia dire che va bene per noi.
Dunque, per prima cosa, per fare questa bene, detta commissione, occorre (come tutte le cose che debbono riuscire bene a tutti i costi) occorre tanta, ma tanta buona volontà.
Bisogna lasciare da parte il così detto «menefreghismo». Occorrono persone serie, coscienti (anche se non sono di grandi qualità) e con quel poco di coraggio di cui non si può fare a meno, ma che ogni essere umano che si rispetti ha certamente.
Cari amici, questo è ciò che dobbiamo fare per prima cosa, buttiamo la paura al di là dei cancelli e lavoriamo tranquilli e sicuri per un domani migliore.
Un'azienda senza Commissione Interna è una nave in balìa delle onde e dell'arbitrio degli ufficiali di bordo.




un operaio

Lettere agli industriali

Non so - è molto difficile essere presi in considerazione quando ci si occupa di problemi dei quali si vorrebbe che nessuno se ne occupasse - non so quanti di voi, imprenditori e direttori d'azienda, avete voglia di trovare i cinque minuti necessari per dare un'occhiata a questo giornale e quindi non mi aspetto di poter conoscere nemmeno cosa pensate di queste lettere aperte che ho cominciato a indirizzarvi su questo foglio mensile che, anche se è stampato per gli operai, entra nelle vostre aziende e quindi penso che, in un modo o in un altro, arrivi fino sul tavolo del vostro ufficio.
Sarebbe proprio spiacevole che, nonostante che siate mangiati dai gravi problemi aziendali, economici, non degnaste nemmeno di uno sguardo un giornale che tratta problemi che riguardano i vostri dipendenti, la vostra azienda e quindi voi stessi, in qualche modo.
Sarebbe spiacevole non soltanto per una mancanza di attenzione e quindi di riguardo verso il sacerdote che è il responsabile di questo giornale, ma perché vorrebbe dire che allora, nonostante tante vostre proteste e dichiarazioni di considerazione e di attenzione e di rispetto verso i vostri operai, dimostrereste che non vi interessano per niente i loro problemi, le loro idee, i loro discorsi, quello insomma che vorrebbero che il loro padrone sapesse e che vi dicono con questo giornale, dato che a voce e con le loro parole non riuscirebbero a dirvi, fra le pareti del vostro ufficio troppo tirato a lucido, con tutti quei padri e poltrone, ecc., come se fosse fatto apposta per intimorire la povera gente, o quando passate fra i reparti, spesso, un po' troppo, come un generale che passa e guarda e osserva la truppa preoccupato soltanto di scoprire se, per caso, vi sia un soldato a cui manchi un bottone alla giubba.
Conoscendo da vicino molti imprenditori e direttori d'azienda, mi sono accorto che nella quasi totalità, tenete molto - e non soltanto, credo, quando vi capita di parlare a un sacerdote - a essere considerati come «buoni» padri di famiglia. Ho sentito dirmi tante volte che, in fondo, che cosa volete se non il bene dei vostri operai? Per cosa vi sacrificate e vi tormentate notte e giorno, se non perché non venga a mancare il lavoro, se non perché vi dispiace che le famiglie vadano a finire sul lastrico? Vi sentite dei benefattori, gente che non fa che del bene agli altri, che ormai ha la passione della propria azienda perché la sente come la propria famiglia, ecc.
E può darsi (tanto questa mentalità paternalistica è radicata negli ambienti imprenditoriali che, visti dalla parte del padrone, non si distinguerebbero molto dai sistemi feudali) può darsi che ne siate così tanto convinti che ciò che state facendo è il massimo che un padrone può fare per i suoi dipendenti, fino a rimanere dolorosamente sorpresi quando vi arrivano scontentezze, risentimenti o, peggio ancora, dovete occuparvi di richieste, di miglioramenti ecc. e allora non potete non provare un disappunto, come dire: ma insomma, cosa vogliono questi straccioni, dal momento che sono io a dar loro di non morire di fame?
Vorrei dirvi che questa è mentalità ingiusta e bastano idee come queste perchè non siate più come dei buoni padri di famiglia, nella vostra azienda, ma gente che prospera e fa i suoi interessi sfruttando situazioni pietose di bisogno, condizioni disumane che costringono al lavoro come se fosse forzato.
Buoni padri della famiglia aziendale, ma spesso questo titolo è puramente onorifico e serve soltanto a solleticare assai l'orgoglio e l'amor proprio, forse di più del titolo di cavaliere o di commendatore.
Forse non occorre che spieghi che non sono d'accordo con il sistema paternalistico per molte ragioni, ma specialmente per l'impedire che fa che i dipendenti abbiano la loro personalità e il rispet-to dovuto non perché il padrone è buono, ma perché anche i sottoposti sono esseri umani con pieno diritto al riconoscimento della loro dignità e personalità umana. Nella vita sociale (il paragonarla alla vita familiare è assurdo e ridicolo) non può che prestarsi all'ingiustizia e quindi all'autoritarismo in. controllato fino al dispotismo, distinguere la classe dei «padri» e quella dei «figli», eternamente minorenni, giudicati incapaci di responsabilità e quindi di diritti, destinati come sono soltanto ad obbedire.
Il Cristianesimo è di per se stesso contro ogni forma o sistema paternalistico. L'insegnamento che siamo tutti fratelli, figli tutti ugualmente dello stesso Padre comune che Gesù ci ha insegnato a pregare chiamandoLo: Padre nostro che sei nei Cieli, è insegnamento fondamentale che arriva fino al Comandamento di amare gli altri come amiamo noi stessi e al precetto cristiano dell'Amore fraterno, vicendevole rapporto di Amore fra noi, secondo l'esempio di Gesù Cristo.
Il paternalismo quindi non è bontà, non è spirito di generosità, non è cercare il vero bene del prossimo, non è essere padri della famiglia aziendale e tanto meno è modo giusto di stabilire e condurre rapporti «cristiani» con i propri dipendenti, e tanto meno ancora è affratellamento vero e vissuto fra i dipendenti stessi.
Volete che la vostra azienda sia una famiglia e amate sentirvene i buoni padri, ma nel frattempo il clima che si respira al di dentro del cancello è quello della paura. Paura che deriva dal fatto che nella vostra azienda manca molto il rispetto della libertà. Gli operai in molte aziende non sono liberi di pensare come a loro piace. Sanno bene che vi sono gli informatori segreti, i «venduti» al padrone. Per avanzare di qualifica, ottenere certi riconoscimenti è risaputo che bisogna essere «così e
così», altrimenti non vi è niente da fare. Se non si vuole essere buttati fuori alla prima occasione
favorevole, è necessario tacere, fingere, adattarsi, piegare la schiena. In alcune aziende anche soltanto a parlare di Commissione Interna, c'è da rischiare il cancello. Ho saputo che perfino a farsi vedere a parlare con me, c'è da essere segnati sul libro nero e di occuparsi di questo giornale spesso mi è capitato di trovare operai che lo farebbero volentieri, ma non ne hanno il coraggio
Una volta un imprenditore mi diceva che era rimasto molto offeso perché avevo detto che entrare dal cancello della fabbrica spesso gli operai lo sentivano come varcare la soglia di una caserma: la sua azienda, mi diceva, molto risentito, era come una famiglia. Io invece gli sostenevo che pensava così soltanto perché aveva una mentalità paternalistica. «Mi dia il permesso di entrare liberamente nello stabilimento: a me, è certo, che gli operai diranno cosa pensano di questa famiglia, di lei, dei metodi, dei sistemi ecc. e io poi le farò vedere i risultati»... Ma l'offerta non è stata mai accolta. «Mi chiami, un giorno, nel suo ufficio, dicevo ad un direttore, e io le dirò con franchezza ciò che sta guastando, fino a renderli così assurdi, i rapporti fra lei e i suoi operai». Ma l'invito non è mai venuto.
Vogliate perdonarmi lo scrivere in lettera aperta, e lo stamparla sul giornale degli operai, di questi problemi. Non pensate che questo sia come un rinfocolare spirito di scontento e di disistima fra i vostri dipendenti: di queste cose gli operai ne sanno molto di più di quello che io posso avere scritto e specialmente ne soffrono spesso terribilmente. Non dubitate che non sto gettando fiammiferi accesi nel pagliaio, semmai posso portare acqua al mare.
È, crediate, unicamente, per la speranza che leggiate queste cose che forse voi non conoscete o che non volete conoscere, perchè vi aiutino ad assolvere le vostre grandi responsabilità, davanti a Dio e davanti agli uomini, come imprenditori e come direttori d'azienda.




d.S.

"riquadro"

Accade spesso che, quando un operaio raggiunge i 60 anni e cessa di lavorare, ottiene una pensione di ammontare inferiore a quello che aveva preventivato, o al quale pensava di avere diritto.
All'operaio nasce allora il sospetto, anche quando ciò non è vero, che gli imprenditori presso i quali ha lavorato non abbiano versato i contributi che dovevano.
In effetti per un lavoratore è difficile controllare se il proprio datore di lavoro assolva o meno interamente agli obblighi contributivi.
Perchè gli imprenditori viareggini non seguono l'esempio della FERVET, dove ogni mese, assieme alla busta paga, si consegna ai dipendenti un prospetto di tutti i contributi assicurativi versati?
La domanda ci è stata posta da un gruppo di operai.

L’inchiesta su Papa Giovanni

L'inchiesta condotta dal gruppo studentesco su Papa Giovanni, pubblicata nel numero scorso, ha suscitato non pochi commenti e non pochi risentimenti.
A un mese di distanza, mi pare di non togliere niente all'oggettività dell'inchiesta e alla libertà delle risposte, se mi permetto di fare alcune considerazioni.
Ringrazio gli operai per averci preso parte e per aver dato le loro risposte con molta sincerità e spontaneità, nonostante le domande fossero difficili e delicate e riguardassero problemi a cui non sono molto preparati e forse nemmeno troppo interessati. E l'inchiesta era difficile anche perché a rispondere con un "sì" o con un "no" o con poche altre parole a problemi tanto gravi e complessi, non poteva essere evitato il pericolo che le risposte fossero soltanto un esprimere impressioni, così, a fior di pelle, e giudizi molto affrettati.
Ma le inchieste sono fatte così. Nonostante però la loro difettosità di metodo, possono ugualmente riuscire a raccogliere mentalità correnti, giudizi di fondo, atteggiamenti ecc. che è sempre non soltanto utile conoscere, ma anche doveroso. E è doveroso sapere cosa pensa la gente, le impressioni che ha di persone e cose, per il rispetto che dobbiamo alle opinioni altrui, anche quando queste sono in contrasto o all'opposto delle nostre: in ogni caso sono pensiero di persona umana che non deve mai essere disprezzato, ma, anzi, raccolto, anche per offrire la possibilità di raffronto con un altro modo di pensare e di giudicare, sperando così in un correggersi del pensiero sbagliato.
E poi anche perché ogni opinione, ogni pensiero e giudizio, anche se duro, spietato, severo, eccessivo fino al paradosso e all'assurdo, può sempre avere una parte o almeno un'ombra di verità e di visione giusta che è doveroso raccogliere e considerare seriamente.
Si fa presto a dire: è tutto sbagliato, è soltanto una calunnia, è cattiveria d'animo. E si fa presto quindi a respingere ogni cosa con orrore e gridando allo scandalo. E non si pensa nemmeno lontanamente che quella parola forse irrispettosa, quel giudizio spietato, possa essere sofferenza per un volere che chi è tenuto ad esserlo, sia veramente perfetto; possa essere spietatezza che non perdona (cioè non copre con il velo di una carità untuosa e spesso interessata) perché non intende sopportare anche soltanto apparenze di non assoluta coerenza, di non totale autenticità.
Molte volte certo scandalizzarsi e certo gridare alla calunnia, significa dimenticare che il clero e i cristiani e la Chiesa vengono pesati dalla povera gente coll'unità di misura che è Gesù Cristo: e si capisce quindi come i giudizi risultino poi così severi e spietati.
E' la pietra di paragone che è il Vangelo che ci condanna, spesso: chi ce lo dice sulla faccia, scopertamente, merita gratitudine, non disprezzo o respinta.
Tutto questo va detto riferendoci ad un problema generale, ma anche all'inchiesta pubblicata.
L'ho pubblicata nonostante la severità di certi giudizi. Perché sono certo dell'onesta sincerità degli operai che hanno dato quelle risposte: sono certo che non si sono serviti dell'inchiesta per fini e scopi tendenziosi. Poi perché potesse essere oggetto di studio e di meditazione a chi dovrebbe avere interesse a conoscere ciò che pensa il mondo operaio. Poi ancora perché non è giusto avere paura di ciò che pensa la gente e non deve fare difficoltà raccoglierne serenamente e cordialmente il pensiero, comunque sia.
Ho letto e seriamente meditato l'inchiesta. Mi è stata motivo di approfondimento di tutto il terribile problema del Cristianesimo nel nostro tempo e, in particolare, dei rapporti della Chiesa col mondo operaio.
Mi è stata preziosa occasione per ripensare e studiare "la pastorale" di Papa Giovanni e per poter conoscere le difficoltà che il Papa Paolo VI incontrerà nell'inserire il suo Pontificato nel vivo dell'esistenza umana del nostro tempo e specialmente nel mondo operaio.
E infine mi è stata, quest'inchiesta, enorme e terribile motivo di sofferenza per i risentimenti più o meno accesi verso di me e il giornale.
E ora, anche gli operai che hanno partecipato all'inchiesta, mi permettano che dica anche a loro una parola.
Mi è di tanta angoscia - e credo che gli operai mi capiscano perché sanno bene che sono un cristiano e un prete - che nel mondo operaio vi siano atteggiamenti così ostili verso il Papa Paolo VI, e non occorre certo che ne spieghi i motivi.
Non è che qui intendo discutere ciò che l'inchiesta ha riportato. Non sarebbe il caso, anche perché le inchieste non si fanno per ribatterne le risposte e perché non vorrei che gli operai pensassero che io non ho gradito e raccolto con rispetto la loro schietta sincerità; mi permettano però gli operai che hanno dato certe risposte, di far loro notare che non è giusto che Paolo VI sia giudicato come persona che è addirittura impossibile che possa risultare simpatica. E' come dire: non c'è nulla da fare, è inutile sperare qualcosa di buono, è impossibile che o prima o poi faccia qualcosa che gli dia di poter raccogliere almeno un po' di quella immensa simpatia che ha avuto Papa Giovanni.
E' appena agli inizi del suo Pontificato, è ingiusto non concedergli nemmeno la possibilità che possa continuare a rendere ancora più completa - fino a farne la vita di tutta la Chiesa - l'opera di Papa Giovanni.
Perché Paolo VI è d'origine di famiglia benestante, perché è persona estremamente colta, perché ha le sue caratteristiche personali, perché, come ha scritto Padre Balducci, "la sua faccia è costruita per stare seria" e per tanti altri motivi d'importanza per così dire sentimentale, non si può e non si deve escluderlo perfino da una possibilità di conquistare simpatia.
Cari amici operai, così spietati con Paolo VI, non voglio discutere i vostri giudizi, anche se sono così negativi - ognuno deve poter pensare come meglio crede - ma permettetemi di pregarvi di rivedere i motivi di questi vostri giudizi e lasciatemi dire che questo modo di giudicare in maniera così assoluta e spietata mi sembra non giusto, non soltanto trattandosi di un Papa, ma di qualsiasi altra persona umana che va sempre giudicata soltanto alla prova dei fatti.



d. S.

Il problema dei fondi di resistenza

immagine:  Il problema dei fondi di resistenza Una domanda propostaci nel mese scorso (perché i sindacati non predispongono dei fondi che permettano di integrare il mancato salario durante gli scioperi?) ci ha offerto l'opportunità di occuparci specificamente di un problema forse più suggestivo che importante, ma comunque assai dibattuto in seno al movimento operaio: quello dei «fondi di resistenza».
La necessità di avere dei fondi accantonati, attraverso prelevamenti salariali, durante i periodi di occupazione, per attingervi durante i periodi di sciopero si è profilata in seno al movimento sindacale a varie riprese, pressoché puntualmente nelle situazioni di massima tensione (i lettori più anziani, ad esempio, ricorderanno il gran discutere che se ne fece in coincidenza con gli scioperi susseguenti alla prima guerra mondiale, dal 1919 al 1922 circa). La questione esula, infatti, dai confini della pura solidarietà, per inserirsi in una vera e propria prospettiva di metodo di lotta - per questo al nome di « fondi di solidarietà » abbiamo preferito quello ben più significativo di "fondi di reesistenza" - e diviene quindi di particolare attualità in quei momenti in cui più incisivo ed efficace deve farsi l'effetto dell'agitazione sindacale.
Parlando in altra occasione dello sciopero, notammo come per esso possano individuarsi due costi: uno per il lavoratore, rappresentato dalla perdita di salario, l'altro per l'imprenditore, rappresentato dal mancato profitto e dal mancato ammortamento dei capitali fissi. Dicemmo ancora come il risultato dello sciopero dipenda, in grande misura, dal limite di resistenza di ciascuna parte rispetto al proprio costo e come il lavoratore scenda in lotta in situazione di svantaggio, data la natura alimentare del suo salario, dato, cioè, che l'utilizzazione della propria forza-lavoro è l'unica sua fonte di sopravvivenza.
Da qui la necessità di spingere al massimo la resistenza degli scioperanti, anche perché, mentre il costo sopportato dal lavoratore (perdita del salario) rimane costante per ogni giornata di sciopero qualunque sia la sua durata, J! costo sopportato dall'imprenditore non è costante, ma ge-neralmente è tanto maggiore quanto più lungo è lo sciopero (si pensi, ad esempio, alla possibilità di deperimento di cene scorte di materie prime, o all'influenza che il mancato ammortamento degli impianti fissi può avere sui piani preventivati di rinnovamento aziendale).
Ecco perché - dicevamo - il problema dei «fondi di resistenza» ricompare puntualmente ad ogni "grande sciopero".
Ma altrettanto puntualmente il problema viene accantonato senza essere stato risolto. Vediamo, dunque, di individuarne i motivi.
La costituzione di un «fondo di resistenza» assumerebbe l'aspetto e la sostanza di una forma previdenziale. Ne esiste la possibilità? Esistono, cioè, i presupposti per un risparmio da parte della classe operaia? Per rispondere di no, basta attingere alla nostra comune esperienza di tutti i giorni, senza bisogno di ricorrere a quella nota teoria economica la quale ci dice e dimostra che il risparmio, massimo per redditi alti, diminuisce progressivamente al diminuire del reddito, fino a ridursi a zero in corrispondenza del «reddito minimo vitale», cioè di quel reddito che è appena sufficiente ai bisogni essenziali di sopravvivenza. Che se così non fosse, vale a dire se i lavoratori disponessero di salari superiori alle loro necessità di vita, non ci sarebbe bisogno di «fondi di resistenza», dal mo-mento che essi si troverebbero nella medesima condizione dell'imprenditore, il quale, se non fosse per il mancato ammortamento e per gli impegni di produzione che ha assunto, sarebbe in grado di resistere pressoché indefinitamente ad uno sciopero, attingendo al proprio risparmio.
Si potrebbe obiettare che quanto è irrisorio per il singolo, può esser rilevante per la collettività, se sommato allo sforzo degli altri. Che, insomma, anche minime offerte individuali, se provenienti da tutta la classe operaia, potrebbero contribuire ad un grosso « fondo di resistenza ». La risposta a questa obiezione non è difficile. O un «fondo di resistenza» serve a tutti, cioè dà la assoluta sicurezza di poter resistere, oppure non serve a nessuno. Il problema non si presenta mai durante scioperi limitati, di settore, in quanto il fondo, allora, si crea immediatamente attraverso le sottoscrizioni degli altri lavoratori che non partecipano allo sciopero, i quali sanno benissimo che, su un piano di prospettiva di classe, non esistono agitazioni limitate, ma che ogni azione sindacale, anche se circoscritta a piccoli gruppi, investe automaticamente gli interessi di tutti i lavoratori ed è cosa propria dell'intero proletariato.
Il problema si presenta invece, in misura drammatica, durante gli scioperi generali, in quanto non ci sono più, nella classe, settori non scioperanti che possono contribuire alla resistenza dei settori che scioperano.
Ed un fondo di resistenza idoneo a sostenere uno sciopero generale dovrebbe avere una dimensione tale, da essere addirittura impensabile per le possibilità della classe operaia.
Paradossalmente, poi, potremmo notare che un « fondo di resistenza » per quanto grande possa essere, non sarà mai in grado di risolvere il nodo cruciale dello sciopero, poiché sempre maggiori sarebbero le possibilità dei capitalisti di creare un loro « fondo », per contrapporre la pro-pria resistenza a quella operaia.
Il successo di uno sciopero, insomma, non dipende dai « fondi », ma dai legami di solidarietà che la classe operaia sa crearsi durante la lotta e, soprattutto, dipende dal suo peso a livello politico, dalla capacità che essa ha di imporre al paese la soluzione per cui lotta (fu questa mancanza di capacità e di maturità politica a determinare il fallimento dei grandi scioperi del primo dopoguerra, ai quali ci riferivamo all'inizio).
Ciò non toglie tuttavia che il «fondo di resistenza», anche se insufficiente, possa avere un suo valore, soprattutto sotto il profilo morale, in quanto dimostrazione di maturità e di dignità da parte operaia.
Ma è pensabile, oggi, una iniziativa del genere, quando i sindacati stentano a raccogliere perfino i contributi indispensabili per mantenere in vita un'organizzazione, che, in ordine alle funzioni del sindacalismo e dell'economia contemporanea, particolarmente a livello di contrattazione collettiva, deve essere sempre più complessa ed efficiente?
E' possibile oggi che, per una strana forma di qualunquismo mista a stanchezza, che va a tutto gioco del capitale, ci si distacca sempre più dalla vita del sindacato, accusandolo molto spesso di non aver fatto ciò che materialmente, data la situazione attuale, non poteva fare?




S. R.

Profili: Alberto Meschi

I lettori di quella «zona apuana», e in particolare quelli del carrarese in cui la figura di Alberto Meschi ebbe la massima affettuosa e riverente popolarità, non trovino motivo di incoerenza del giornale se «Il Nostro Lavoro» dedica queste modeste righe per ricordare a quanti lo ap-prezzarono, la viva umanità di Alberto Meschi.
Sul piano umano, gli ideali di Alberto Meschi convergono intimamente con i nostri: è perciò che lo ricordiamo volentieri così come è rimasto nella nostra memoria e nel nostro cuore.
Fisicamente insignificante, esile, dal viso fresco, rosato, come di un fanciullo, due occhi azzurri incastonati sotto le sopracciglia grigie e una criniera bianca, ordinata, nascosta dignitosamente da un cappello da cavatore.
Impastato di forte personalità, di ideali umanitari, di schietto amore del prossimo, onesto e leale, non poteva rimanere insensibile alle miserie e alle sofferenze dei lavoratori del marmo.
Generoso e solerte organizzatore, ai primi anni del secolo fondò «Il Cavatore», Vi agitò i problemi del marmo affinché i Cavatori ne prendessero coscienza e in breve la sua diffusione da Carrara raggiunse Massa, Vinca, Gramolazzo e Vagli. In ogni paese, al monte o al piano, sorsero le Leghe che ebbero un impulso organizzativo mai conseguito fino allora.
Non bastava scrivere, bisognava parlare ai cavatori in un colloquio cordiale, più adatto per intendersi e per intendere i lavoratori. E Meschi, instancabile, raggiungeva le cave più lontane, a piedi, si univa agli operai, li informava e si informava.
La situazione era veramente insormontabile: chilometri di strada irta e tortuosa che dai paesi si snodava lungo i costoni del monte, dovevano essere percorsi dai cavatori a piedi e prima del levar del sole, per raggiungere la cava. Erano tratti fino a due ore di cammino per raggiungere posti di lavoro situati anche a mille metri di altezza. E il lavoro che li attendeva era massacrante, fatto di martellate al masso per riquadrarlo, sotto il sole cocente; lavoro duro, disumano, e, spesso, reclamava le sue vittime.
Attraverso le «vie di lizza», vero miracolo di perizia umana, i lizzatori scendevano, a valle i «carichi» di blocchi di marmo che raggiungevano anche le 40 e le 50 tonnellate, percorrendo strade naturali o scavate nel monte con pendenze vertiginose. In quella tremenda fatica, bastava una fune spezzata, un «piro» saltato nel quale avrebbe dovuto fare presa la fune, per verificarsi il disastro.
Anche in cava i sinistri erano assai frequenti: gli infortunati dovevano essere trasportati in barella dai compagni di lavoro attraverso viottoli o ravaneti fino al paese più vicino, perchè in cava nessun pronto soccorso poteva essere praticato sulle carni martoriate del povero lavoratore, mentre il suono del corno, rimbalzando di cava in cava e fra le gole del monte, diffondeva ovunque la triste notizia.
Allora, raccolti i loro arnesi da lavoro, la borsa del pane a tracolla, la giacca sulle spalle, la fronte madida di sudore sotto il cappello scolorito, cotti dal sole e rotti dalla fatica, scendono a valle sparpagliati per ogni dove della montagna in una mesta teoria di sofferenza.
Educato alla tradizione anarchica - non importa se del «Germinal» o del «Pietro Gori» - improntò la sua azione di raro calore umano per conquistare ai Cavatori più dignitose e più umane condizioni di vita e di lavoro.

Quelle ore di faticosa salita per raggiunge il «posto di lavoro» vennero retribuite: infatti fu convenuto che l'orario di lavoro avesse inizio dal «Poggio» e quindi, quel tratto di strada che separa il poggio dalla cava fu pagato. Al piano le segherie ebbero i turni di lavoro, l'assistenza di «pronto soccorso» cominciò a diffondersi.
Ma la più concreta conquista che i cavatori di Meschi realizzarono sulla scia dei martiri di CHICAGO, fu la riduzione dell'orario di lavoro: ore 6,45 con partenza dal poggio pari alla retribuzione di otto ore.
Nell'arco di tempo racchiuso tra le due guerre mondiali, Alberto Meschi infuse ai lavoratori il senso della dignità umana, della solidarietà di classe, della fratellanza. La sua azione continua, costante, si riversò ovunque vi fossero relitti umani da riportare alla coscienza della loro dignità.
E il proletariato apuano andò via via assumendo una fisionomia propria, un valore combattivo particolare che gli guadagnò veramente le mete che «Il Cavatore» di Meschi aveva indicate.
Poi l'avvento del Fascismo, la caccia agli anarchici, e Meschi dovette riparare in Francia.
Dopo la liberazione, rientrò in patria. I Cavatori lo accolsero festosamente e lo posero ancora alla guida della loro organizzazione. Ma la situazione politica italiana stava assumendo un volto nuovo: i partiti indirizzavano la loro influenza sui sindacati e nel congresso del 1946, con raggiri elettorali che la coscienza di Meschi non poteva sopportare, gli fu inferto l'unico vero dolore della sua vita.
«Avevano gonfiato di voti le deleghe delle leghe dei contadini», mi spiegò raccontandomi quel che avvenne quel giorno.
Quindi ci incamminammo verso il Caffè Carrarese dove, ogni sera, consumava la sua modesta cena fatta di caffé e latte.
Ormai vecchio, per campare, amministrò un forno gestito da una cooperativa anarchica che gli offriva i modesti mezzi per la sua semplice e povera esistenza.
Una volta però che capitò di comunicargli che i cavatori di Vinca avevano vinto la vertenza del «Poggio» lo sguardo stanco del vecchio anarchico tornò a risplendere come ai tempi delle sue battaglie.




A. B.

Vicende sindacali

- Ai Cantieri Navali «Società Esercizio Cantieri» vi è stata una riduzione dell'orario di lavoro.
- Alla Fervet continua l'agitazione: ancora non è stato trovato l'accordo nella trattativa circa il premio di produzione.
- All'«Ambrosiana»: il 7 c.m. sono state notificate 70 sospensioni con effetto immediato.
- Alla Montecatini Marmo: continuano le massicce agitazioni operaie per il rinnovo del contratto nazionale. Nello stabilimento di Pietrasanta numerosi licenziamenti in gran parte della mano d'opera femminile (operaie che lavoravano da 20-24 anni!). In quello di Viareggio si offrono «licenziamenti volontari», con premi da 100 - 150 mila lire. Il tutto viene giustificato dal solito motivo: mancanza di lavoro.
- Calzaturieri: continuano ancora le agitazioni dei lavoratori per il contratto di lavoro. Sempre più si rende necessaria un'azione compatta, come per il passato, per costringere gli imprenditori ad un contratto più giusto e più adeguato.


Qualche amico operaio ci suggerisce di invitare gli operai che hanno avuto il giornale di non sciuparlo o di non gettarlo via, quando l'hanno letto, ma di essere così cortesi di passarlo ad altri, magari del vicinato o di altre aziende che non lo ricevono ancora.

* * *
Ci hanno raccontato di un direttore di azienda che avendo ricevuto la Commissione Interna per trattare problemi molto gravi, non avendo trovato la desiderata sottomissione alle sue ragioni, ha spinto fuori dell'ufficio gli operai della Commissione Interna, gridando loro «massa di pecoroni». Non c'è male, vero?

* * *
«Costi quello che costi, bisogna andare a vedere cosa c'è su Marte», diceva un operaio, ripetendo la frase programmatica di un recente congresso di scienziati celebrato a Firenze mentre scopriva il pentolino che conteneva il minestrone di mezzogiorno al refettorio dell'azienda.


piédipagina

Hanno inviato offerte per il giornale i dipendenti delle seguenti Aziende:
PONSI L. 7.135
FERVET » 9.710
CANTIERI PICCHIOTTI » 12.000
SOCIETÀ' ESERCIZIO CANTIERI ( mese giugno ) » 3.675
APICE » 19.000
Di questo numero sono state tirate 6.000 copie.

Hanno collaborato a questo numero: Angelo Barsella - Francesco Baruffetti - Enrico Vettori -Sandro Ricci - don Sirio.
direttore responsabile:
Sirio Politi - Lungo Canale Est 37, ielef. 46-455 - Viareggio
Autorizzazione del Tribunale di Lucca n. 173 del 14 Giugno 1963
TIPOGRAFIA «A. BERTOLOZZI» - VIAREGGIO TELEF. 4.25.23



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