IL NOSTRO LAVORO: Il NL - Anno 2 - N. 5 Viareggio - Maggio 1964

Ricerca di cristianesimo

immagine:  Ricerca di cristianesimo Una mattinata di sole primaverile. A Viareggio mattinate come queste allagano di luce in darsena il bosco di alberi e reti delle barche, a specchio sul cristallo lucente dell'acqua.
Il gridìo allegro delle sirene qui è il canto degli uccelli al mattino. E riempie di festa mattutina questo inondare di luce violenta. Al momento giusto, timidamente, anch'io suono la mia piccola campana sul tetto della mia chiesetta: è quasi nascosta dai pini e è di tra il loro verde, come se saltasse di sui rami neri, che sbucano fuori i rintocchi a distendersi nel bosco degli alberi delle barche, assiepate tutt'intorno, quasi accovacciate sull'acqua, a dormire ancora, nonostante lo splendore del sole.
E' l'ora della Messa. E' l'ora del lavoro. E mi accompagna all'altare l'orchestrale di una musica vera. E' fatta di lavoro, di fatica, di speranza.
Riconosco ormai i diversi rumori. A volte sono come una fuga classica. I primi colpi di mazza. Ve ne rispondono altri più lontani, colmati di echi profondi. Il martellare secco dei calafati. Le lamiere battute a suono metallico. Si accende qualche motore dì peschereccio. E fanno coro, spesso, quelli dei grossi motoscafi in prova. E poi si alzano le voci delle seghe a nastro che cantano l'ultima pena del legno. E a un certo punto irrompe violento l'inno trionfale dei martelli pneumatici che ogni altro rumore raccoglie ed unisce in un a solo potente.
Io celebro la mia Messa, quasi solo nella mia chiesetta, piena soltanto di ombra raccolta per la porta socchiusa.
Ho soltanto a rispondermi il gridare dei portuali là fuori, il confuso urlio dei pescatori, qua di fianco, oltre la lama d'acqua dell'ingresso alla Darsena, che fanno il mercato del pesce azzurro arrivato allora allora dalla notte fresca del mare.
E mi rispondono gli operai nelle officine e nei cantieri e negli stabilimenti di cui mi arriva il fragore della loro fatica, o il suono della loro sirena e di cui so la dura storia di ogni giorno, legati a catena all'attrezzo di lavoro.
La mia chiesetta allora è come se fosse senza mura. E' vasta come la Darsena. Come tutta la zona di lavoro nella quale sto vivendo. E' aperta a tutto il mondo perchè è perfino senza confini e anche senza orizzonti.
La mia Chiesa è tutta la terra. E vi è un altare. E sopra vi si compie il sacrificio di Gesù, Dio fatto Uomo. E' per l'umanità intera. Io, povero uomo, sono questa umanità: li porto tutti con me gli uomini. Sono qui con me, quelli che sono là fuori, più lontano, agli estremi confini del mondo. Siamo una cosa sola ormai: su questo blocco di pietra è l'umanità intera e il suo Dio.
Io sono qui per dire «sì, a Dio» a nome di tutti. Lo faccio ogni mattina e dal più profondo della ragione del mio esistere. Dopo, tutto il resto, ogni cosa, fino al vivere o al morire, è secondo questa logica. E non può che essere così.
Sono uscito alle 10. A poco a poco, tutt'intorno ogni rumore di lavoro è cominciato a tacere e gli operai li vedevo passare in fretta per la strada.
Sciopero generale. Comizio in piazza grande. E' per protestare per la serrata di un Cantiere. E' una debolezza che si unisce per essere una forza. E' l'individuo che cerca fiducia nel numero. E' la speranza di far valere la sicurezza del proprio diritto. Sono fratelli che lasciano il loro lavoro per stringersi intorno ai fratelli che sono rimasti privati ingiustamente del loro lavoro.
Ora la mia chiesetta è in piazza grande, veramente senza muri, sotto la volta del cielo azzurro, con la gran lampada accesa del sole. I fedeli di questa mia chiesa sono tanti stamani, centinaia e cen-tinaia. Sono i fedeli della sofferenza, della fatica, della povertà, dell'oppressione, dello sfruttamento. Sono i fedeli di un Cristianesimo di cui parla così chiaramente il Vangelo. Sono i fedeli della «Chiesa dei poveri» di cui ha parlato Giovanni XXIII e il Concilio Ecumenico.
Sento che è un'unica Chiesa la mia chiesetta e questa chiesa dei poveri, senza muri, a cielo aperto, colmata di fedeli al lavoro per il pane quotidiano e un po' di dignità umana. Mi ci trovo bene mescolato fra questa folla di uomini, che ha tutta l'aria di essere gregge di pecore senza pastore, come diceva Gesù, una moltitudine sulla quale non può non essere la dolce bontà della Sua Misericordia, come su quella folla che lo aveva seguito in cerca di Parole vere e rimasta senza pane, nel deserto.
Non sono io, là al centro, come nella mia chiesetta, a raccogliere la sofferenza di questa gente, a rispondere a questa sofferenza con parole di fiducia e speranza. Ma non importa. Penso e credo che il posto del sacerdote è, sì, all'altare e sul pulpito, ma è forse ancora di più mescolato fra la gente, a raccogliere tutto il problema di ciascuno e di tutti per essere portato a Dio.
Se io non prendo nelle mie mani il pane e il vino e non lo offro e non lo consacro, non diventa il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo, a salvezza del mondo.
Sono qui a raccogliere nelle mie mani (nel mio sacerdozio) questo problema di sofferenza umana, questa realtà di esistenza fatta di uomini schiacciati dall'ingiustizia, questa solidarietà saldata da una coscienza di nullità individuale, nella ricerca di valori fondamentali, nell'affermazione di diritti inalienabili... questo problema fatto di uomini vivi, di fratelli di Gesù Cristo, di Figli di Dio....
E' una Messa senza candele, senza paramenti sacri e non suona il campanello nei momenti importanti. E' una Messa invisibile sotto le apparenze più sconcertanti e sgomentanti.
Ma è così anche nella Messa che ho celebrato nella mia chiesetta stamani. Fu così - ma infinitamente di più - anche sul Calvario.
Sento su questa piazza colmata di sofferenza umana spaventosamente bisognosa di redenzione, la presenza invisibile, ma reale e concreta, del Sacrificio di Cristo.
E io ne sono il sacerdote.
Mi dispiace dal più profondo dell'anima di essere l'unico prete qui. Perchè sarebbe stato meraviglioso essere in tanti sacerdoti per una concelebrazioni stupenda o come quando il Vescovo fa la Messa pontificale nelle grandi solennità liturgiche.
Non sono io a parlare a questa folla come la domenica al Vangelo, ma non importa nemmeno questo. Io credo che ogni uomo, se lo vuole, può dire meravigliose verità. Stamani poi parlano in diversi, ma la lingua è una sola stamani, e quindi anche il cuore è uno solo. Vi è unità di motivi perchè è unica la sofferenza: è bellissimo vedere questa massa d'uomini che non fa differenze nell'applaudire, portano sul volto indurito dal lavoro i segni di un solo pensiero e di un unico sentimento.
Ora, in questo momento, li vedo e li sento tutti fratelli: dunque non può mancare il fratello mag-giore, Gesù Cristo, e non può mancare la dolce presenza del Padre di tutti, Dio.
D'accordo: può essere questo un sogno di visione religiosa a tutti i costi.
Ma chi deve e può vedere il Cristianesimo dovunque e la ricerca umana di Dio e Dio presente fra gli uomini, se non il sacerdote?
E se non vedessi Mistero religioso dovunque e se non servissi questo Mistero con il mio sacerdozio, che cosa ci starei a fare, come prete, al mondo?
Poi la lunga processione di centinaia e centinaia di uomini per le vie della città. Un momento del lungo e faticoso camminare dell'umanità a mendicare un po' di pace, un'ombra di giustizia, briciole di Amore.
Un giorno in questa umanità in cammino faticoso e penante, è venuto Dio e si è messo a cam-minare anche Lui portando la Sua Croce, cioè la Croce di tutti: è per essere forza, per sostenere la fatica, è perchè gli uomini non si sentano soli, è perchè il camminare non smarrisca la strada.
Mi sono trovato quasi in testa alla lunga processione e camminavo portando, insieme a tutti, la croce di quella umiliazione, di quella povertà umana, ma anche la croce dell'unica speranza per il destino umano sulla terra e per il Cielo.
Che non vi fossero immagini religiose e crocifissi di legno e lanternoni pittoreschi e stendardi variopinti e canti e inni e recitar di preghiere, non credo che abbia grande importanza. Vi era la realtà di un'umanità bisognosa di Dio, amata da Gesù Cristo, quella per cui è, in modo particolare, la Chiesa.
Peccato che i sacerdoti non vengano a queste processioni, ma preferiscano andare alle altre, quelle in cui, molte volte vi è tutto, meno che questa realtà di esistenza umana oppressa e schiacciata da tutta una sopraffazione che ha infinito bisogno di liberazione e di redenzione. Penso che sono queste le processioni dove si cammina la terribile strada della vita e dove Dio è venuto a camminare, mescolato con noi, perchè sa bene che da soli, nemmeno un passo saremmo capaci di fare.





don Sirio

un Vescovo operaio

Sono persuaso di avere mantenuto la mia lucidità mentale nei confronti di quanto avveniva in me e di non aver preso decisioni nel flusso della situazione in cui mi sentivo coinvolto; tuttavia man mano che partecipavo più direttamente alla vita operaia, provavo sempre più in tutto il mio essere come una rivolta di fronte all'ingiustizia che pesa su questa categoria sociale e un gran desiderio di agire per liberare i miei fratelli operai dallo sfruttamento di cui erano vittime.
Certo questo sentimento di rivolta e questo desiderio di azione non sono così vivamente sentiti da tutti gli operai. Molti di essi sono dei rassegnati; altri sono semplicemente preoccupati di cavarsela il meglio possibile e realizzare, al massimo, la loro promozione individuale. Ma via via che io prendevo coscienza, nell'intimo, di tutte le ingiustizie sofferte dagli operai, provavo come un bisogno di prendere posizione in loro favore e di agire con loro.
Un giorno, durante una riunione operaia, uno dei partecipanti mi fece questa domanda: « ma perché i preti non s'impegnano con noi? ». La mia risposta fu del tutto spontanea: « Non tentateci ».




Mons. Ancel - Vescovo Ausiliare di Lione (dal suo libro "5 anni di vita operaia" pag. 259 della trad.ne italiana, ed. Vallecchi - Firenze)

La mensa dell’APICE

E' un ambiente moderno e realizzato con criteri intelligenti. Arioso, pieno di luce, dà una confortevole impressione di sanità e di pulizia.
Non sono però molti gli operai che vi mangiano e è provvidenziale perchè la sala da pranzo non può contenere che circa 230 persone: una minima parte nei confronti della massa operaia che lavora all'Apice. Chi può (è pressoché tutta gioventù traboccante di energia la maestranza) perchè è rela-tivamente vicino a casa, salta in bicicletta o sul motorino e va a casa sua a mangiare: anche con tutti i confort di questo mondo, mangiare a casa è sempre un'altra cosa, se non altro per quella boccata d'aria di libertà che dentro i cancelli è assolutamente impossibile respirare.
Però molti dipendenti vanno a casa a mangiare anche perchè non solo vi è una boccata d'aria di libertà, ma anche una boccata di più di pane e companatico. Tant'è vero che la maggior parte di quelli che si fermano a mangiare alla mensa aziendale, consumano quello che si portano da casa. Fatti i conti, evidentemente hanno concluso che è migliore il loro mangiare, è più abbondante e spendono meno.
Questo va detto per la verità e senza voler far torto alla ditta che ha in appalto la mensa, la quale ditta è giusto che faccia i suoi interessi (non è lì certamente per fare un'opera assistenziale di carità cristiana); d'altra parte anche gli operai hanno diritto di mangiare a sufficienza, dato che poi, all'Apice si sa non si scherza, bisogna lavorare sodo. Bisognerebbe che la Direzione dello stabilimento rivedesse le tariffe, aumentandole, se è necessario, (cioè se dipende da motivi economici) perchè vi sia un corrispondente aumento quantitativo (e un po' anche qualitativo) nei piatti.
Una maggiore attenzione da parte della Direzione per il miglioramento della mensa, dovrebbe rientrare nei suoi doveri per motivi di normale vigilanza e premura, ma anche per il fatto che quel "quid" di mancata mensa che non viene corrisposto (come mai, si domandano da tanto tempo gli operai?) a chi non mangia alla mensa, ma va a casa o si porta il mangiare da casa (sono la stragrande maggioranza dei dipendenti) venga almeno impiegato nel far stare meglio chi intende mangiare di quello che passa il convento.
La merce poi che può essere comperata allo spaccio aziendale risulta in generale che non ha, co-me sarebbe logico e giusto, prezzi di favore, ma tutto costa come ad un qualsiasi altro negozio fuori dello stabilimento. E quei panini (spesso non troppo cotti e che pesano 65 grammi), hanno un prezzo eccessivo a 15 lire ciascuno; il pane comune, sia pure in panini, è un po' troppo che costi circa 250 lire al Kg.
Altra cosa poco simpatica è che gli impiegati che mangiano alla mensa abbiano una saletta loro riservata.
Il tutto sa molto di privilegio. Crea distanze su un piano umano e separazioni che non possono non comportare lontananze sempre deprecabili fra i dipendenti della stessa azienda. E inevitabilmente una separazione così accurata comporta possibilità anche di differenze di trattamento fino al punto che corre la voce che gli impiegati mangiano assai meglio. Sappiano però gli impiegati che se gli operai si lamentano di certe differenze, non è perchè desiderino che gli impiegati siano trattati come gli operai, ma che gli operai siano trattati come gli impiegati, il che vorrebbe dire mangiare un po' meglio e un po' più abbondante.




Un gruppo di operai


Alla Dalmine di Apuania

Noi del giornale e tutti gli operai della zona di Viareggio che stanno sostenendo « il nostro la-voro » con la loro simpatia, la loro collaborazione e i loro sacrifici, siamo molto lieti di ospitare i problemi degli amici della Dalmine di Apuania. In fondo il giornale vorrebbe essere una confluenza di problemi operai raccolti dovunque. E anche se lo spazio è poco e i problemi sono tanti, vogliamo cercare con ogni buona volontà di allargare le esperienze aziendali più a largo raggio che sia possibile, sicuri che la conoscenza dell'andamento della vita operaia con i suoi innumerevoli problemi, può essere estremamente utile per gli operai di tutte le aziende.
Vorremmo tanto che gli operai dei grossi complessi di Apuania trovassero motivi d'interesse in questa iniziativa giornalistica dei loro compagni di Viareggio. Se, come già la Dalmine, volessero met-tersi in contatto con la redazione, possono farlo nel modo migliore che loro credono.
Intanto ringraziamo gli amici della Dalmine che ci hanno onorato della loro partecipazione ad una riunione di redazione e ci hanno inviato i due articoli che molto volentieri pubblichiamo sottoscrivendoli con tutta la nostra più sincera solidarietà.


La Redazione


La Pasqua dei lavoratori della Dalmine

Ai dirigenti della nostra società non sta certamente a cuore la collaborazione dei propri dipendenti. Lo hanno dimostrato in vari modi e in molte circostanze e in questa santa ricorrenza lo hanno confermato. Pensano che il modo più redditizio sia la cieca obbedienza cioè quello che loro chiamano disciplina e ordine che in realtà non è che la più spietata e inumana sopraffazione.
A Natale la Commissione Interna in uno spirito di collaborazione chiedeva alla Direzione di chiudere lo stabilimento alle ore 14 per dare la possibilità ai propri dipendenti di essere assieme alle lo-ro famiglie e, per chi lo desiderava poter partecipare alle funzioni religiose; accontentando i propri dipendenti avrebbe concesso due turni, in cambio i lavoratori ne offrivano tre: uno la domenica prima di Natale e due in altre domeniche.
Ma niente da fare e, per questa incomprensione i lavoratori scioperarono, conseguenze: niente produzione e malcontento.
Quanto sopra si è ripetuto a fine anno e, anche in questa ricorrenza niente produzione ma solo malcontento. A Pasqua la Direzione ha voluto vendicarsi e, a differenza di tutti gli altri anni, ha fatto lavorare anche il turno di notte giustificando che vi erano esigenze di lavoro. Ma mentre è molto facile far credere ciò alle autorità, civili e religiose che siano, non è altrettanto facile farlo credere ai propri dipendenti. Loro sanno per più diretta esperienza, che queste esigenze non sono altro che incomprensione e capricci. Perciò anche in questa occasione i lavoratori a questi atti di forza avrebbero dovuto rispondere con lo sciopero.
Lo abbiamo voluto evitare scegliendo una semplice limitata protesta: gli operai dopo aver lavo-rato tutta la notte fra il Sabato Santo e la Pasqua, si sono recati in tuta, così com'erano all'uscita del lavoro notturno, stanchi dalla fatica, ma assai più depressi per la sopraffazione assurda da parte della dirigenza dello stabilimento, si sono recati nella Cattedrale di Massa e hanno ascoltato la S. Messa.
Il folto gruppo ha destato l'attenzione e la sorpresa dei fedeli presenti in Cattedrale e subito si è sparsa la voce che gli operai della Dalmine stavano protestando in quel modo così originale, ma fermo e deciso, contro la mentalità e il costume di prepotenza della Direzione. Il fatto ha suscitato calorose adesioni e le autorità religiose ne sono rimaste fortemente impressionate. Sono state scattate fotografie per ricordare il fatto: fotografie che sono saie poi pubblicate sui quotidiani, insieme ad articoli che dolorosamente deprecavano quel lavoro notturno della notte di Pasqua e tutto il sistema di rapporti umani che sta rendendo poco respirabile l'atmosfera della Dalmine.
Per questo aspettiamo e speriamo che le autorità competenti vorranno rendersi conto come in realtà stiano le cose alla Dalmine, cioè se sono i lavoratori che si comportano male e meritano di essere trattati in questo modo, oppure se sono i dirigenti che devono cambiare la loro mentalità.
Invitiamo le dette autorità a voler fare le dovute indagini, come riteniamo sia loro dovere, troveranno dei lavoratori disposti e in grado di fare dichiarazioni assumendone tutte le responsabilità.
Con fiducia i lavoratori attendono, sperando che, per il bene di tutti, quanto prima sia riportata la normalità nel nostro stabilimento.





Per i lavoratori della Dalmine
Domenico Mannini


Coraggio e paura

Nei giorni 22 e 23 Aprile si è avuto in tutto il complesso «Dalmine» uno sciopero di 48 ore, motivato dall'attuazione dell'articolo 3 parte quarta - comune, del nuovo contratto nazionale metalmeccanici riguardante il premio di produzione. Volontariamente non voglio entrare nel merito di detto articolo, altri meglio di me lo hanno fatto e possono fare, solo mi preme mettere la mano su una dolorosa piaga che nei giorni suddetti è nuovamente balzata in evidenza con tutta la sua pericolosità nello stabilimento «Dalmine» di Apuania.
In quei giorni di sciopero ha profondamente colpito, sia le organizzazioni sindacali, sia i membri di commissione interna sia l'opinione pubblica, la grande maturità sindacale raggiunta dagli operai, i quali, non solo hanno scioperato al 100%, ma addirittura nessuno di essi si è presentato ai cancelli dello stabilimento, salvo pochi curiosi.
Mentre ha sorpreso la maturità degli operai, ha fatto da penoso contrappeso, l'immaturità della così detta classe impiegatizia, della quale il 98% è andata normalmente al lavoro.
Stupisce veramente che gente che dovrebbe andare per la maggiore, date le condizioni economiche in cui vive ed il grado culturale che essi dovrebbero avere, nel capire la giustezza di certe rivendicazioni, si lascino così facilmente influenzare da astruse argomentazioni dando quasi la sensazione che essi vivano in uno stato di prostrazione e di paura.
Gli operai vorrebbero vedere da questa gente, che per le proprie capacità potrebbe e dovrebbe fare da guida, un qualcosa di più di ciò che essi hanno fatto sino ad oggi. Vorrebbero da essi una semplice dimostrazione di civile coraggio, che faccia di essi non un numero da schedario, né una macchina da lavoro, ma degli esseri composti anche di una propria personalità e decorosa dignità. L'operaio non vede di buon occhio, che mentre esso perde giornate di prezioso salario, perché crede nell'impostazioni sindacali, altri continuino normalmente a lavorare e a prendere, domani, la fetta più grossa dei benefici acquisiti.
Vorrei da queste colonne rivolgere un caldo invito a tutti i Sigg. impiegati, a fare un piccolo sforzo per dimostrare la loro dignità. Vorrei invitarli a scuotersi di dosso quello spirito di paura che essi hanno. A mettere da parte ogni personale egoismo. A saper seguire con coraggio e dignità i problemi sindacali, sia per il bene comune sia per rendersi artefici di lasciare, un domani, ai propri figli una società più giusta, e più onesta dove tutti possano avere diritto di cittadinanza senza paura di sopraffazione.




Francesco Baruffetti
membro di C. I. «Dalmine» Apuania


Pensieri di un operaio

Nelle diverse riunioni che periodicamente avvengono per la compilazione di questo giornale è sempre apparso necessario che l'operaio vi partecipasse in maniera più efficace e in forma diretta.
Personalmente la ritengo una cosa giusta, ma forse un po' difficile da mettere in pratica perchè la penna non è un utensile molto adatto alla nostra capacità: in ogni modo cercherò di fare del mio meglio. E prima cosa mi preme dichiarare che nelle mie intenzioni non c'è nessuna presunzione di fare il moralista.
Mi hanno chiesto di scrivere qualcosa « su come vivono gli operai nella fabbrica ».
Se dicessi che l'operaio in fabbrica diventa un numero, deve lavorare, rispettare i superiori e prendere la busta paga avrei concluso dicendo tutto o niente. Coloro che ci vivono sanno come in realtà la situazione sia molto più tragica. La personalità dell'operaio è soffocata dalla necessità materiale, il posto di lavoro diventa il suo unico capitale e ognuno lo difende in maniera indipendente (qualcuno forse come un capitalista vero).
Sta il fatto che si vive male, e dire parole come democrazia, libertà, giustizia si provocano sempre discussioni accanite che terminano immancabilmente nella sfiducia verso chi le usa e non le rispetta.
Detto questo anche concedendo le attenuanti dello stato del bisogno, è doveroso riconoscere che proprio tra noi operai è difficile mettersi d'accordo, abbiamo le nostre necessità e ci comportiamo come tanti animali, sfruttati e presi in giro da chi non lavora, chiediamo i nostri diritti come mendicanti, attendiamo la manna dall'alto e mentre accusiamo i timonieri della società del loro malcostume sociale e politico, non facciamo altro che favorirne il sistema dormendo anche noi.
Eppure sono convinto che la risoluzione dei nostri problemi non sia molto difficile, al contrario sarebbe la più semplice. La società attuale è organizzata molto bene specie per quanto riguarda lo sfruttamento della forza lavoro, ha frazionato i lavoratori in tante categorie differenziandone il trattamento e creando così dei compartimenti stagni.
Se vogliamo un trattamento più giusto dobbiamo organizzarci, dobbiamo cercare che sia organizzato un sindacato unitario autonomo, che abbia come base la rivalutazione dei lavoratori a reddito più basso, uniformando i trattamenti previdenziali, mutualistici consentendo così a tutti di rispettare e apprezzare il concetto delle parole Democrazia, Libertà e Giustizia.




L. P.

Via crucis al Cantiere Picchiotti

Non è per tener accesa una memoria di contrasti, di angosce e tanto meno rinfocolare risentimenti e recriminazioni. Vorremmo tutti, e dal più profondo del cuore, che sui fatti dolorosi si potesse mettere un pietra sopra e non pensarvi più. Ma disgraziatamente, net mondo operaio in modo particolare, dimenticare può voler dire perdere certi valori acquisiti a prezzo di sofferenza e può voler dire rimettere in vigore una mentalità di dirigenza sempre disposta a dimenticare, ma soltanto per poter ricominciare a tentare le sue sopraffazioni alla prossima occasione favorevole o per continuare indisturbata un costume di condotta assolutista, dispotica.
Questo breve diario non ha per niente la presunzione di essere completo e nemmeno esauriente. Segna soltanto le date di particolare angoscia per le maestranze durante questa dolorosa storia della vertenza con la Direzione del Cantiere: sono gli avvenimenti esterni che riflettono la storia segreta dei problemi economici, politici, confindustriali, personali, ecc. che saranno quel che saranno, con tutte le importanze e le ragioni che si vogliano, ma che per noi hanno un solo significato, un solo valore, una sola importanza: una massa operaia che dall'oggi al domani si trova in condizioni di estrema umiliazione umana e di grave preoccupazione economica. Una massa d'uomini che valgono soltanto per motivi economici e di produttività di ricchezza. Una massa di padri di famiglia che dipendono nella loro tranquillità di vita per sé e per i propri figli, dall'arbitrio personale degli interessi padronali.
Non si può non notare con estremo dolore che capitando una congiuntura difficile, in cui si impongono sacrifici, è ancora la povera gente e la massa operaia che ne riceve tutta la responsabilità e il peso e che le istituzioni e le leggi e le mentalità correnti delle classi privilegiate non soltanto non hanno volontà e forza per impedire una così grave ingiustizia sociale, ma non fanno che abbandonare al loro destino il mondo del lavoro limitandosi a guardare dalla finestra. Le autorità stesse possono e sanno intervenire soltanto con discrete e riguardose pressioni o «raccomandazioni» alla benevola comprensione di chi, ancora, in questi tempi di progresso umano e sociale può dire: il padrone sono io.
La breve storia che segue è narrata dagli opera: vista completamente dalla parte operaia. Lo dichiariamo con onestà e sincerità e non perchè pensiamo che la visione sia unilaterale e interessata, ma perchè acquisti maggiore valore umano, libera come rimane e pura da tutte le complicazioni delle complesse ragioni della grande economia e del capitale. Queste ragioni a noi non interessano: mentre interessano le umili e semplici ragioni del lavoratore che sono un po' di dignità umana e un pezzo di pane per sé e per i propri figlioli.
E la breve storia narrata vuole anche essere racconto di quello che succede ancora, in questi nostri tempi, quando le vertenze arrivano a giocare il pane quotidiano: gli operai alla fine non possono non piegarsi e arrendersi quasi a discrezione.
Vorremmo però dire con questo breve diario della sofferenza di 170 uomini, padri di famiglia, a chi di dovere, di non considerare il piegarsi di uomini alle ragioni della fame come una vittoria di cui menare vanto, perchè la fame rimane e rimarrà sempre, come dicevano gli antichi, una cattiva consigliera. E è grave la responsabilità di chi spinge l'umanità verso i tristi consigli della fame.

6 MARZO
E' l'ultimo giorno di tranquillità per il normale andamento di lavoro. Fino a questo giorno tutto è andato avanti a pieno ritmo produttivo. Le ore di straordinario venivano pagate a 500 lire l'ora.

8 MARZO
Viene convocata la Commissione interna da parte della Direzione: assoluta mancanza di vendite della produzione (grossi motoscafi da diporto).
Suo malgrado, la Direzione è costretta a ridurre l'orario di lavoro da 48 a 44 ore settimanali.
Questo intervento sbalordisce e lascia perplesse le maestranze: è difficile non notare l'assurdità di un intervento così improvviso. La C.I. insiste per avere almeno le 46 ore settimanali come previsto dal contratto di lavoro. Chiede che questo provvedimento sia rimandato a fine stagione. Chiede la documentazione di questa situazione così catastrofica per il cantiere. Niente da fare.

10 MARZO
Per protestare contro questa decisione di riduzione delle ore lavorative e per il diffuso timore di prossimi licenziamenti, mezza giornata di sciopero e la lunga e dolorosa e umiliante processione di tutte le maestranze per le vie della città per andare a chiedere l'intervento del Sindaco presso la Direzione del Cantiere perchè scenda a più miti consigli e ritorni alla condizione normale dell'orario di lavoro.
Ma ogni interessamento del Sindaco non è approdato a niente.

14 MARZO
La Direzione chiede alla Commissione Interna ore di straordinario per quattro operai per un lavoro urgente da terminare. La C.I. acconsente, ma fa notare l'assurdità di un lavoro straordinario mentre l'orario rimane ridotto.

20 MARZO
La Direzione chiede ancora ore di straordinario per 18-20 operai. La richiesta viene fatta nel tardo pomeriggio e la Commissione Interna si riserva di chiedere alle maestranze la sera stessa, in una riunione, se concedere questo straordinario per la sera seguente. Minacce e sanzioni disciplinari da parte della Direzione per gli operai che la sera stessa si fossero rifiutati di fare lo straordinario. Evidentemente la corda si sta tirando in modo assurdo. La C.I. autorizza quattro verniciatori a fare ore straordinarie. La sera stessa però nella riunione di tutte le maestranze viene deciso di respingere ogni richiesta di ore straordinarie, finché l'orario di lavoro rimarrà ridotto.

FINE MARZO
Circola la voce con sempre maggiore insistenza che 60 operai circa verranno licenziati. Tutto fa pensare ad un aumento di pressioni intimidatorie e ricattatorie.

INIZIO D'APRILE Sembra che la Direzione non accetti mediazioni di autorità nè cittadine nè provinciali per il superamento dello stato di tensione in cui ormai le parti si trovano bloccate per l'intransigenza irremovibile della Direzione.

14 APRILE
Gli operai attuano una mezz'ora di sciopero rimanendo sul posto di lavoro dalle 11 alle 11,30.
Al pomeriggio, nell'albo della Direzione gli operai trovano un foglio nel quale la Direzione dichiara di non accettare quel tipo di sciopero, non essendo possibile controllare la produzione e invita le maestranze a desistere da ogni forma di protesta, diversamente sarà costretta a prendere provvedimenti.

16 APRILE
Lavoro normale fino alle 11 per la seconda mezz'ora di sciopero.
Al rientro delle ore 13,30 le maestranze trovano l'avviso sul cancello, della serrata (vedi numero precedente del giornale). La Direzione si è decisa all'azione di forza. E la pubblica sicurezza e i carabinieri stazionano d'ora in poi davanti al cantiere, a mantenere l'ordine (è difficile capire quale «ordine»).
17, 18, 20 APRILE Ogni mattina gli operai, all'ora solita d'ingresso al lavoro, vengono a radunarsi davanti a quel foglio appiccicato sul cancello. Aspettano lì per dire educatamente « buon giorno » agli impiegati che entrano regolarmente al lavoro. Nei giorni seguenti diversi impiegati andranno in ferie tanto per sistemare decorosamente ogni cosa. Da parte degli operai vi è sempre stata perfetta correttezza ed educazione anche se è stata fatta presso gli impiegati una rispettosa richiesta di partecipazione alla penosa situazione in cui si trovano le maestranze.

21 APRILE
La penosa processione in silenzio di tutti gli operai del cantiere per le vie della città per chiedere la simpatia della cittadinanza: in silenzio, perchè dice già anche troppo questa umiliazione di uomini per le strade a mostrare la propria miseria e a chiedere misericordia.

22 APRILE
Alla sera la Commissione Interna è stata ricevuta dalla Direzione. Ma le proposte sono state respinte perchè erano troppo resa a discrezione. E poi è vero: quando gli operai sono in sciopero la prima condizione per trattare è il rientro al lavoro. Quando, in qualche caso, è successa l'occupazione di fabbrica (vedi Fervet due anni fa) per iniziare le trattative la condizione richiesta è quella di sgomberare l'azienda. In un serrata non è logico che gli operai esigano, per procedere alle trattative, il ritorno alla normalità di lavoro? Ma il tempo dei due pesi e delle due misure sembra che non sia ancora finito.

23 APRILE
Sciopero generale dalle 10 alle 12. Comizio di solidarietà di tutti i lavoratori viareggini. Centinaia e centinaia di uomini. Dallo stesso podio parlano (e il parlare è ugualmente intenso e appassionato) i rappresentanti dei diversi sindacati in perfetto accordo d'impegni e di responsabilità. L'unità sindacale fa veramente gioia, allarga il cuore a tanta fiducia. Perchè non dovrebbe essere sempre possibile?
Poi ancora un'immensa dimostrazione per le vie della città, fatta unicamente di lavoratori che camminano in silenzio lungo la strada del loro destino.

25, 26 APRILE Continuano gli interessamenti dell'autorità. I colloqui. I tentativi di smussare gli angoli. Di piegare gli irrigidimenti. Di venire incontro. Di smuovere alla comprensione. Si sta mettendo insieme il trattato di pace. Dovrebbe essere senza vinti e vincitori. Ma l'impressione è che i Sindacati abbiano dovuto adattarsi, contenti dell'onore delle armi, dato anche che le autorità hanno dichiarato che d'ora in poi non avrebbero più collaborato.

27 APRILE
All'una e trenta ha suonato finalmente la sirena spiegando la sua gran voce a grido acuto e violento, lungo e appassionato. Poteva sembrare un grido di trionfo, ma anche un lungo singhiozzo. Una gioia e una tristezza. Ma forse voleva soltanto dire che si ricominciava il lavoro reso ancora più pesante, gravoso, assurdo, perchè sempre più traboccante di stanchezza e di risentimento: quel cancello non poteva non sembrare ancora di più un giogo spietato sotto il quale, per passarvi, bisognava chinare la testa e anche il groppone.

28 APRILE
Trentasette operai sono stati sospesi: era nelle condizioni di riprendere il lavoro. La Direzione è arrivata dove forse voleva arrivare.

2 MAGGIO
E' ricominciato il problema di richiesta di lavoro straordinario. Ma ormai gli operai sono stanchi e delusi. Non possono reggere a lungo grossi sacrifici. I quattrini sono come il sangue: un salasso si sostiene, ma non si può vivere senza sangue.

7 MAGGIO
Un buon gruppo di operai è stato fatto lavorare nella mattinata dell'Ascensione. Tutta una tragedia per la mancanza di lavoro, ma sembra che ce ne sia abbastanza: se non altro ve n'è la quantità sufficiente per dare modo alla Direzione di non fare rispettare il riposo festivo delle domeniche e anche quello dell'Ascensione, dimenticando il vecchio proverbio che dice: «chi lavora per l'Ascensione tutto l'anno in perdizione».

8 MAGGIO
Stasera sono state pagate le 48 ore per le dieci giornate della serrata (era nelle condizioni accettate dalla Direzione). Lo strano è che sulla cedola del conteggio gli operai hanno trovato scritto «come prestito». Si dice che la Direzione si sia impegnata sulla parola con il Sindaco e il Comandante del porto che questa somma non sarà assolutamente mai richiesta agli operai. La parola sarà sicuramente rispettata, intanto però quelle 48 ore pagate risultano come una generosità della Direzione del cantiere, ma non il riconoscimento e la doverosa riparazione dell'ingiustizia della serrata. Senza considerare il fatto che questo prestito rimane lì (speriamo che sia una malignità) come un possibile ricatto usabile al momento giudicato opportuno.

11 MAGGIO
Oggi anche gli operai che erano stati sospesi sono rientrati tutti al lavoro.
E qui la storia è finita, per questa volta... che ve ne pare?





d. S.


Posizione morale e giuridica della serrata

L'agitazione al «Cantiere Picchiotti» ha riproposto, con tutta la drammaticità di cui sono capaci i fatti concreti, il problema se la serrata sia compatibile con il nostro ordinamento democratico.
La questione si può porre sotto due profili, quello morale e quello giuridico, che, sotto certi aspetti, ma soltanto sotto certi aspetti, sono indipendenti l'uno dall'altro.
Sul piano morale, evidentemente, il prospettare una soluzione piuttosto che un'altra è conseguente soltanto al modo di porsi di fronte al problema del lavoro e, in generale, di fronte al problema dei rapporti umani nella loro totalità.
Per coloro che non riescono a scorgere nel rapporto di lavoro niente altro che un contenuto contrattuale, non dissimile dalla grande quantità di contenuti contrattuali di cui si sostanzia la società capitalista, la risposta è fin troppo facile.
Si dirà che dal momento in cui l'imprenditore compra la forza-lavoro della classe operaia secondo il suo valore corrente sul mercato, non si potrà pretendere da lui niente di più che la paghi ed egli sarà libero di usarne fino a quando gli parrà conveniente, qualunque sia il motivo in base al quale decide di non usarne più.
Come nessuno si sognerebbe di condannare l'imprenditore che, per ipotesi, decida, a un certo momento, di non usare più energia elettrica, o di non impiegare più certe materie prime, così nessuno deve sognarsi di condannare l'imprenditore quando decide di non usare più forza-lavoro, giacché questa è una merce, o meglio un fattore di produzione al pari di tutti gli altri. Se l'ENEL, ad esempio, non protesta quando Picchiotti chiude e non usa più energia elettrica, perchè diavolo sarebbero autorizzati a protestare gli operai, quando Picchiotti chiude e non usa più la loro forza-lavoro? Ed ogni altra soluzione, sul solco di questo ragionamento, sarebbe in contrasto con la libertà dell'imprenditore, il quale, evidentemente, se è libero deve esserlo fino in fondo; se è libero di chiudere la porta in faccia al piazzista di un qualsiasi prodotto, deve essere libero anche di chiudere il cancello in faccia ai propri operai.
La risposta è facile anche per tutti coloro che scorgono nel rapporto di lavoro un contenuto umano oltre il contenuto contrattuale e che si pongono il problema non in termini di forza-lavoro, ma di uomo-lavoratore, qualunque sia poi la tappa di arrivo a cui conduce questo loro discorso.
Coloro i quali sanno, a prescindere da ogni altra considerazione, come il fatto che ad un certo livello della società capitalista i cittadini si dividano in due grandi categorie contrapposte (da una parte una minoranza che possiede i mezzi di produzione, dall'altra una maggioranza che possiede soltanto la propria forza-lavoro) non giustifichi il predominio dell'imprenditore sul lavoratore; coloro i quali sanno come ad un diritto al lavoro debba corrispondere un dovere dello imprenditore a procurare lavoro, evidentemente hanno già risolto il problema della serrata.
Per essi la serrata non può essere che un fatto immorale, come immorale è ogni fatto che fa dipendere la sopravvivenza di un uomo dall'arbitrio di un altro, come immorale è ogni concezione che ponga l'uomo sullo stesso piano della macchina, che faccia dell'uomo un fattore di produzione, cioè un oggetto dello sfruttamento altrui e non un soggetto attivo del miglioramento economico della società.
Sotto certi aspetti, dicevamo, le considerazioni morali sono indipendenti dalle considerazioni giuridiche, in quanto si svolgono su piani diversi. Ciò, tuttavia, non ci esime dal porci un problema di aderenza del diritto ,della legge alla morale comune. Il diritto prima di essere scritto nei codici matura nella coscienza degli uomini. E' così, ad esempio, per la Costituzione, che prima di essere scritta è nata nel sacrificio che un intero popolo ha saputo far di se stesso nella resistenza.
E' per questo che ad un giudizio giuridico abbiamo premesso un giudizio morale.
La Costituzione italiana, all'art. 40, riconosce soltanto il diritto di sciopero; né in questo né in nessun altro articolo il costituente si è occupato della serrata.
Un articolo del codice penale fascista, il 502, per consolidare l'ordinamento corporativo e la risoluzione coercitiva delle controversie di lavoro, corrispondentemente alla fine della libertà sindacale, puniva come reati tanto lo sciopero quanto la serrata.
Il reato di sciopero venne cancellato immediatamente dall'art. 40 della Costituzione, poiché, per ovvie ragioni, ciò che è diritto non può costituire alle stesso tempo reato. Restava il problema della serrata: il fatto che la Costituzione neppure la nominasse lasciava in vita o no il divieto dell'art. 502 del codice penale?
La questione è stata risolta dalla Corte Costituzionale la quale, con sentenza del 4 maggio i960, a conclusione di un processo intentato contro la Richard Ginori di Pisa, dichiarava incostituzionale l'art. 502 del Codice Penale anche per ciò che riguarda la serrata.
Il problema, perciò, si presenta oggi in termini diversi. Alla luce dei principi costituzionali è possibile l'emanazione di una norma che dichiari reato la serrata e che come tale la vieti e punisca?
Le considerazioni che abbiamo svolto sul piano morale in parte ci forniscono già la risposta.
Una risposta ancora più precisa ci è data dalla stessa Corte Costituzionale, la quale chiaramente motiva l'abrogazione del reato di serrata punito dal codice fascista con l'abrogazione di tutto il regime corporativo. Il ragionamento della Corte, in sostanza è questo : se i due reati dello sciopero e della serrata sono nati insieme in regime fascista, debbono egualmente cadere in regime democratico.
Però la Corte Costituzionale non disconosce la possibilità che il legislatore torni a vietare, per motivi evidentemente diversi da quelli del codice fascista la serrata. La Corte dice: se la Costituzione ha abolito il regime fascista e la relativa legislazione corporativa, è chiaro come anche il divieto penale della serrata deve venir meno. Se poiché ciò che non è espressamente vietato è lecito, la serrata non è più punibile.
Tuttavia la Corte è fin troppo esplicita quando testualmente scrive nella sentenza: « ...La posizione innanzi delineata è però tale che immediatamente si presenta con l'aspetto di una provvisorietà che attende una soluzione. Da un lato infatti si ha un diritto di sciopero che è costituzionalmente garantito, ; dall'altro la serrata, la cui posizione attuale di atto penalmente lecito è piuttosto la risultante di un sommovimento di sistemi che non l'effetto di una propria disciplina normativa. Spetterà al legislatore il valutare la necessità di una tale disciplina».
E' questo il motivo che spingeva un autorevole commentatore a scrivere sulla sentenza che essa «non significa che il legislatore - ed è eloquente l'invito al proposito della Corte - non possa disciplinare la serrata con tutto il rigore che crederà opportuno e porre gravi sanzioni per l'inosservanza delle condizioni e delle precisazioni da esso fissate».
La condanna morale della serrata ha dunque tutta la possibilità di tradursi in un divieto di legge. E non venga a dirci la confindustria che il ricorso alla serrata è per gli imprenditori un diritto costituzionale, il quale oltre tutto deve esistere come contropartita al diritto di sciopero.
Il fatto che la Costituzione riconosca il diritto di sciopero e non parli della serrata è fin troppo significativo. Il diritto di sciopero è riconosciuto perchè è l'unica arma a disposizione della classe economicamente più debole nell'attuale fase di economia capitalista ed è un'arma proprio in quanto non vi sia la possibilità di ricorrere alla serrata. Il costituente ha assicurato il diritto di sciopero, ma non il diritto di speculare sulla fame altrui.
E la serrata può e deve essere punita come reato non solo per le considerazioni che abbiamo fatto, ma proprio in base all'art. 41 della Costituzione il quale stabilisce che l'iniziativa economica privata non possa svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
Una norma, questa, che è troppo spesso dimenticata dalla confindustria al pari del diritto al lavoro.




S. R.

Le nostre inchieste: I.N.A.M.

Il gruppo di studenti che collabora a «il nostro lavoro» ha condotto a termine la prima di una serie di inchieste che hanno lo scopo di far conoscere agli operai ed ai lettori occasionali del giornale, quale sia il pensiero degli operai stessi su alcuni problemi che li riguardano e quale sia il loro atteggiamento verso alcune situazioni che si trovano ad affrontare. Noi vorremmo, in questo modo, contribuire al chiarimento di molti problemi, in modo tale che risolverli possa diventare più facile; vorremmo ancora che, come è giusto, ad indicare la via per risolverli fossero gli operai stessi.
Ringraziamo i 158 operai delle tre aziende della nostra città che hanno collaborato a questa inchiesta.
Questa volta ci siamo occupati dell'I.N.A.M. e del suo funzionamento.
Le domande che abbiamo posto sono le seguenti:
1 - hai avuto bisogno del medico della Mutua?
2 - se si, quando è venuto lo hai pagato?
A questa domanda 50 hanno risposto di averlo pagato, 106 di non averlo pagato, 2 non hanno risposto.
3 - sei soddisfatto di come funzionano gli ambulatori della Mutua?
53 si sono dichiarati soddisfatti
97 si sono dichiarati non soddisfatti
8 non hanno risposto;
4 - i medici degli ambulatori sono puntuali?
73 hanno detto che non sono puntuali
73 hanno detto che sono puntuali
12 si sono astenuti dal rispondere.
5 - è facile sbrigare le pratiche agli sportelli?
11 hanno risposto che è facile
139 hanno risposto che non è facile
8 si sono astenuti dal rispondere.
Dalle cifre sopra riportate discendono alcuni interessanti risultati:
Quasi 1/3 degli operai intervistati paga il medico della Mutua che li va visitare. Questi operai non pensano che il medico lo pagano ogni giorno ed ogni ora di lavoro con i contributi alla Mutua; acquistano con il proprio sudore il diritto di non pagare, quando sono ammalati, e di essere assistiti senza spese. Alcuni medici accettano od esigono di essere pagati, in questo modo contravvengono ad un preciso impegno e si fanno pagare due volte: una dalla Mutua ed una dall'operaio.
Quasi i due terzi degli operai intervistati non sono soddisfatti di come funzionano gli ambulatori della Mutua, la metà di loro dice che i medici che vanno agli ambulatori non sono puntuali.
Quasi tutti sostengono che sbrigare le pratiche agli sportelli è difficile: 11 soli su 158 dicono che è facile; sono una minoranza addirittura trascurabile.
C'era ancora una domanda:
6 - cos'è, secondo te, che potrebbe far funzionare meglio la Mutua?
Le risposte sono state ben 96, e ne siamo stati molto contenti, perchè tante risposte indicano un forte interessamento al problema. Non possiamo, per ragioni di spazio, citarle tutte, ma notiamo che molti la pensano in modo simile, e saranno le risposte di questi, più che le isolate, ce citeremo:
- Occorrono più impiegati e più sportelli, occorrono sedi distaccate da Viareggio (a Pietrasanta).
- Più impiegati, ma forse maggiore onestà da parte degli impiegati.
- Aumentare il numero del personale e snellire le pratiche burocratiche.
Per il mio parere, bisognerebbe che gli impiegati fossero più assidui al loro lavoro e non stessero a fare tante chiacchiere.
- Troppa burocrazia. Pochi impiegati al disbrigo delle pratiche agli sportelli.
- Snellire agli sportelli.
- Come funziona in Inghilterra.
- Più personale.
- Dare a noi la possibilità di fare una Mutua propria.
Questi sono i risultati della nostra inchiesta.
Si riferiscono solo ad una piccola parte degli operai di Viareggio, ed avranno il difetto, comune a tutte le statistiche, di dare solo un quadro generico delle opinioni sulla Mutua degli operai viareggini.
Invitiamo tutti quelli che hanno qualche cosa da dire, qualche commento, qualche opinione o qualche contributo da portare, a collaborare con noi.




il gruppo studentesco

Cronachetta

All'Apice qualcuno si domanda perchè le tessere ENAL non vengono date all'inizio dell'anno, dato che poi, al tempo della gita aziendale, sembra «quasi obbligatorio» prendere questa tessera. Se l'avessero per tempo, gli operai ne potrebbero ricavare qualche beneficio (ingresso al cinema, allo stadio ecc.).
* * *
Allo stabilimento confezioni Work quando suona la sirena di mezzogiorno o delle 6, il «toboga» (nastro di trazione) può trovarsi a volte ingolfato di cassette. Le operaie allora sono costrette a sistemare tutto il lavoro contenuto nelle cassette rimaste indietro prima di uscire. Capita spesso che questo lavoro richieda 15 o 20 minuti e più. Naturalmente questo lavoro straordinario forzato non viene retribuito.

* * *
Sempre alla Work sembra che siano state messe a casa circa 80 operaie. E' stato però aumentato il lavoro straordinario alla sera (fino alle sette) e tutto il pomeriggio del sabato. Si dice che giorni fa sono state assunte tre operaie nuove. Quindi alla Work di Massarosa si fa e disfa a piacimento del dirigente.

* * *
Un operaio ha chiesto di parlare col Direttore della sua azienda, per increscioso problema personale. E' stato ricevuto nell'ufficio dal Direttore seduto sulla sua poltrona. L'operaio è rimasto, in piedi, per i 40 minuti di colloquio. Quando il Direttore si è alzato per dargli la mano, l'operaio gli ha detto: Signor Direttore, vorrei dirle una cosa, se permette. Se lei una volta venisse in casa mia la prima cosa che farei sarebbe di offrirle una sedia dicendole: si accomodi. Buon giorno.
E l'operaio ha girato sui tacchi e se n'è andato.

* * *
Chi ha qualche cosa da chiedere o da dire, qualche osservazione da fare, qualche sopraffazione da denunciare, o qualche cosa di buono da indicare, scriva alla Redazione del giornale. Non si accettano naturalmente lettere anonime; si assicura però la più totale discrezione.



Una legge utile (e poco conosciuta)

Spesso i lavoratori hanno l'impressione che tutte le leggi siano fatte contro di loro e a favore dei padroni. Il fatto è che i padroni sono attentissimi, anche perchè hanno a disposizione impiegati per seguire ogni cosa e avvocati per spiegargliela, a servirsi di ogni legge a loro vantaggio, mentre i lavoratori, un po' perchè tante cose sfuggono, un po' perchè sembra che nelle leggi debba sempre esserci qualche inganno da restare buggerati per un verso o per l'altro, molte volte lasciano perdere: e sono sciocchi, perchè non gli costerebbe nulla rivolgersi ai sindacati e alle altre organizzazioni per avere spiegazioni e consigli.
Così nell'autunno scorso è stata fatta una legge a beneficio degli inquilini a fitto libero, che impedisce ogni aumento di affitto e consente nei casi di forti aumenti negli ultimi anni di chiedere delle riduzioni del canone, e però è rimasta finora quasi lettera morta, proprio per la inerzia di molti inquilini.
Si tratta della legge 6 novembre 1963 n. 1444, che dice (art. 1 ):
"I canoni delle locazioni di immobili urbani adibiti ad uso di abitazione, in corso alla data di entrata in vigore della presente legge e non soggetti a regime vincolistico, non possono essere aumentati, anche quando il contratto è rinnovato con altro conduttore.
Nei contratti già stipulati prima dell'entrata in vigore della presente legge i canoni di locazione, che abbiano superati i limiti appresso indicati, debbono essere ridotti, con decorrenza dalla data di richiesta del conduttore, come segue:
1 ) all'ammontare del canone corrisposto alla data del 1" gennaio 1960 maggiorato del 15%, per gli immobili locati anteriormente a tale data;
2) al canone iniziale aumentato del 14°/o, per gli immobili locati per la prima volta nel I960;
3) al canone iniziale aumentato del 12°/o per gli immobili locati per la prima volta nel 1961 ;
4) al canone iniziale aumentato del 6% per gli immobili locati per la prima volta nel 1962.
Nel caso di immobili già sottoposti a regime vincolistico e successivamente locati a canone libero, le disposizioni di cui sopra si applicano con riferimento al primo contratto stipulato in regime libero. Le disposizioni di cui sopra si applicano altresì ai contratti di sublocazione".
L'art. 2 esclude dalla legge le abitazioni di lusso, l'art. 3 specifica che qualsiasi patto contrario all'art. 1 è nullo, l'art. 5 fissa in due anni il vigore della legge.
Questa legge, in parole povere, regola gli affitti NON BLOCCATI in questo modo:
1 ) per due anni (fino al 6 novembre 1965) il padrone non può chiedere aumenti all'inquilino (neppure, attenzione, se l'affitto non era mai stato aumentato prima);
2) se l'affitto era stato aumentato dopo il 1° gennaio 1960 più dei massimi indicati dalla legge, deve essere ridotto fino a quei limiti. Per esempio, se un inquilino nel 1960 pagava 10.000 lire ni mese di affitto e oggi ne paga 15.000, il canone deve essere ridotto a L. 11.500 (15% in più della pigione pagata il 1° gennaio I960).
3) la legge però non è automatica, ma deve essere l'inquilino a chiedere la riduzione, che decorrerà dalla data della richiesta.




E. V.

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La prossima riunione per il giornale di GIUGNO sarà tenuta sabato 33 c.m. alle ore 31 e quella per la lettura e discussione degli articoli il sabato 6 Giugno.



Hanno collaborato a questo numero:
Gruppo operai Apice - Gruppo studentesco . Libero Pistelli - Sandro Ricci . don Sirio - Enrico Vettori.

direttore responsabile:
Sirio Politi - Lungo Canale Est 37. telef. 46-455 . Viareggio
Autorizzazione del Tribunale di Lucca n. 173 del 14 Giugno 1963

Tipografia «A. Bertolozzi» - Viareggio telef. 4.25.23


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