IL NOSTRO LAVORO: Il NL - Anno 2 - N° 4 Viareggio - Aprile 1964

1° maggio

immagine:  1° maggio 1° maggio
Lascio da parte tutte le considerazioni che mi si affollano alla mente, suscitate dalla celebrazione della festa del lavoro. E anche tutti i sentimenti di solidarietà, di entusiasmo, di impegno che premono nell'anima, ravvivati e accesi dal sentire tutto insieme un enorme, tremendo problema di esistenza umana sbriciolato lungo anni e anni di sofferenza, d'ingiustizia, di lotte, di ideali, di liberazioni e di affermazioni....
Voglio invece raccogliere il significato di una celebrazione che è cominciata nel sangue e tante volte vi si è rituffata non so se a purificazione o a ravvivamento di ideale o per l'acquisto sempre più giusto, perchè sempre più meritato, di un diritto, ma forse per tutte e tre le ragioni insieme e per altre ancora. Una data che ricorda un fatto di sangue e che poi ad ogni celebrazione si è andata colmando di altri sacri-Ilei, di tante lotte, di enormi sofferenze e di immensi entusiasmi e di sconfinate speranze.
Quando nel '55, a seguito di un'aperta richiesta dei lavoratori cattolici, la Chiesa ha, per così dire, battezzato il 1" maggio, facendone la festa cristiana del lavoro da celebrarsi sotto la protezione di S. Giuseppe, il falegname capo della famiglia di Nazaret, nella quale stava crescendo «in età e in grazia» Gesù, il Figlio di Dio fatto Uomo, mi ha fatto una strana e spiacevole impressione. Come se la Chiesa s'impossessasse di un giorno e di una celebrazione che non le apparteneva. Era nata fuori della Chiesa e sempre rimasta ignorata e forse, se non altro in periferia, osteggiata e sicuramente temuta.
Ma poi mi è sembrato che il battesimo del 1" maggio abbia voluto significare come una consacrazione di una liberazione ohe il movimento operaio è andato sempre più realizzando, da tutto un fatto di necessità di lotta violenta, sia per ottenere una capacità di (un'affermazione di se stesso e dei propri diritti, sia per un essere accettato come una realtà d'esistenza da parte degli altri strati sociali.
A un certo punto la classe operaia dovrebbe poter vivere, per diritto ormai acquisito e non in pro-porzione alla forza di urto della sua massa e alla potenza delle sue organizzazioni, nel tessuto sociale della esistenza umana, con piena parità di diritti e di doveri.
Questa purificazione è ancora un sogno, è vero e sembra perfino irrealizzabile: le classi sociali non proletarie, ancora non hanno accettato nella convivenza umana la classe operaia come «una realtà d'esistenza avente diritto, pieno e assoluto, ad una parità e uguaglianza di valore umano e sociale.
La classe operaia è ancora la classe operaia (con l'effetto sgradevole che questa parola produce nelle orecchie e naila sensibilità dell'aristocrazia borghese arricchitasi colle braccia dei lavoratori) perchè viene ancora tenuta «distinta» e accuratamente separata, con ogni mezzo possibile. La sua promozione ed elevazione, la sua integrazione nel vivo della partecipazione umana sociale, dev'essere ancora ottenuta «strappandola» pezzo a pezzo dalle mani di chi niente vorrebbe dare per poter conservare il proprio privilegio: quel privilegio che da millenni crea la classe dei non privilegiati, per il chiudersi spietato in se stessi dei privilegiati.
Mi è sembrato che l'accettazione del 1° maggio nel calendario delle festività religiose possa indicare con chiara e concreta evidenza, che la Chiesa ha inteso e intende « accogliere » la classe operaia in tutto il suo enorme problema di liberazione da ogni forma schiavistica e di affermazione di tutta la sua dignità umana e di tutta la sua impostazione sociale e storica (problema che è magnificamente contenuto ed espresso dalla festa del lavoro del 1" maggio) nell'insieme di tutta l'esistenza umana e di tutta la convivenza sociale.
Ho visto in questo semplice gesto della Chiesa il riconoscimento di una liberazione in gran parte già avvenuta e l'incoraggiamento al mondo operaio di continuare nella ricerca di un inserimento nella convivenza umana fino ad una parificazione sociale intera e perfetta.
E' difficile per chi vuol vedere il problema dei rapporti fra la Chiesa e il mondo del lavoro non su un piano di devozionalità pietistica, ma su un piano di ricerca di autentica esistenza cristiana in tutta la vastità del programma cristiano che investe una visione e una interpretazione cristiana di tutta la vita u-mana, individualmente e socialmente presa, nei suoi valori terreni ed eterni, è difficile e, se non altro, limitato, celebrare il 1" maggio recitando preghiere in onore di S. Giuseppe, il buon falegname di Nazaret, o facendo un pellegrinaggio a qualche santuario o celebrando una Messa all'aperto, sia pure con un folto gruppo di aclisti e di adiste. E' necessario forzare - sia pure a forza di Amore - certe barriere divisorie ohe il mondo borghese tiene ancora alzate contro il mondo proletario. E' dovere costringere - e certamente nell'ordine e nella legalità - il mondo padronale ad aprire i cancelli delle fabbriche non solo alle braccia che entrano a lavorare, ma anche alle persone umane dotate di anima, di intelligenza, di diritto alla giustizia, di diritto alla libertà dall'oppressione del bisogno e dello sfruttamento.
Il 1° maggio diventato cristiano vuol dire che si è riconosciuto ed accettato da parte della Chiesa e quindi - per chi vuol essere obbediente da buon fedele - da parte dei cattolici, che il mondo operaio porti avanti la sua lunga storia di ricerca di libertà e di giustizia e di dignità umana, in nome di Gesù Cristo e nella forza della Sua Redenzione.
E se può e forse dev'essere cambiata, o almeno in qualche punto deviata, la strada che porta avanti questo lunghissimo camminare del mondo operaio, così faticoso e duro e segnato da tanto sangue e da tante lacrime, non possono essere cambiati i traguardi, né strozzate quelle finalità che in definitiva sono state ritenute giuste dal riconoscimento di quella festa che per anni e anni e a costo di tutto, le ha indicate e cercate.
Diversamente era onesto e doveroso lasciare la festa del 1° maggio al tentativo doloroso e disperato dell'umanità operaia che da sola - senza Dio - cerca la sua giustizia.
Io mi sono abituato - e non vedo perchè non dovrebbe essere così - a prendere alla lettera tutto quello che la Chiesa fa, che il Papa dice e insegna, in ordine alla dottrina e all'esistenza cristiana. E prendere alla lettera vuol dire, secondo me, dare tutto il significato possibile all'insegnamento fino al suo esaurire tutta la Verità cristiana.
Non posso pensare, e tanto meno accettare, che l'istituzione della festività di S. Giuseppe nel 1° maggio sia stata fatta per aumentare la devozione al glorioso Patriarca nell'ambiente operaio, e nemmeno per santificare il lavoro consacrandone la festa e tanto meno levare via e svuotare quella ricorrenza di tutta la sua carica di umanità e di solidarietà, anche se spesso sopraffatta dall'estremismo e dalla faziosità.
Quel gesto della Chiesa in modo pratico mi ha detto la volontà della Chiesa di coinvolgersi nei problemi operai, di farli suoi. La volontà della Chiesa che n mondo operaio entri e viva con pieno diritto di parità e di dignità, nella convivenza umana e sociale. La volontà della Chiesa di dare un senso sacro - quindi degno di rispetto infinito per essere stato segnato con segno inviolabile - allo sforzo che gli nomini fanno nella ricerca della giustizia e della uguaglianza fraterna.
Quasi a dire che l'opporsi e il resistere e il contrastare questo camminare verso la liberazione totale, non è più un cercare d'impedire un movimento della storia, ma è il sacrilego tentare di arrestare il farsi del Regno di Dio nel mondo.
E allora ho accettato, a cuore aperto, che il 1° maggio sia diventato cristiano, per la certezza che ogni ricerca di giustizia, di libertà, di Amore, di pace sia Cristianesimo.
E è per questa Fede che non riesco a non pensare che il 1" maggio sia sempre stata una celebrazione cristiana, perchè il Mistero Cristiano tutta l'esistenza raccoglie - specialmente quella dolorosa - per salvarla a Dio nel Sacrificio di Gesù Cristo.
E' in questa Fede che il 1° maggio celebro la mia Messa di ogni mattina allargandone tutta la onnipotenza di Salvezza e di Redenzione fino a raccogliere tutto il dramma di passione e di morte, di speranza di giustizia e di libertà che questo giorno porta con sé nella sua già lunga storia e nel suo valore simbolico.


don Sirio

Il perché delle cose

immagine:  Il perché delle cose Oggi l'uomo ha bisogno di riavere, collaudato dalla maturità critica dei pensiero moderno e dall'esperienza agitata dell'evoluzione sociale, un concetto giusto e fermo su di sè, sulla propria vita. Ha bisogno di una luce che da sé stesso trovare non può.
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Ogni religione ha in sé bagliori di luce, che non bisogna né disprezzare, né spegnere, anche se essi non sono sufficienti a dare all'uomo la chiarezza di cui ha bisogno e non valgono a raggiungere il miracolo della luce cristiana, che fa coincidere la verità con la vita; ma la stessa religione naturale ci solleva alla trascendenza dell'Essere, senza di cui non vi è motivo per l'esistere, per il ragionare, per l'operare responsabile, per lo sperare senza illusione Ogni autentica verità religiosa è alba di fede; e noi l'attendiamo a migliore aurora, all'ottimo splendore della sapienza cristiana.
Ma a chi non ha religione o a chi l'avversa noi rivolgeremo preghiera di non condannarsi da sé al peso di dogmi irrazionali, alle contraddizioni del dubbio senza pace e dell'assurdo senza scampo o alle maledizioni della disperazione e del nulla. Forse non pochi di voi hanno della religione concetti imprecisi e ripugnanti; forse pensano della fede ciò che precisamente non è: offesa al pensiero, catena al progresso, umiliazione dell'uomo, tristezza alla vita. Forse alcuni di voi sono più avidi e perciò inconsciamente più atti a cogliere il lampo della luce, perchè, se non dormono nell'ignavia e nell'ignoranza, l'oscurità del loro ateismo dilata le loro pupille verso un affannoso sforzo di decifrare al buio il dove e il perchè delle cose.


Paolo VI

Statali e lavoratori dell'industria

immagine:  Statali e lavoratori dell'industria In questo momento i lavoratori dell'industria, operai e impiegati, sono in una situazione molto difficile: parecchie personalità del mondo politico ed economico addossano alle rivendicazioni sindacali di questi ultimi anni la responsabilità dell'attuale crisi economica; qua e là vengono applicate riduzioni all'orario di lavoro e viene agitato minacciosamente, se la congiuntura negativa dovesse durare, lo spettro di massicci licenziamenti.
In questa situazione i lavoratori di altri settori non direttamente minacciati (anche se tutti hanno sentito le conseguenze del rincaro dei prezzi) non possono, prospettando un'agitazione, disinteressarsi delle ripercus-sioni che la loro azione e lo stesso accoglimento delle loro rivendicazioni può avere sulla situazione dei di-pendenti dell'industria.
1 lavoratori delle altre categorie non possono scrollare le spalle e dire che i lavoratori dell'industria si arrangeranno, e peggio per loro se saranno cosi pecore da farsi mangiare : il fatto è che oggi gli addetti al set-tore industriale sono particolarmente esposti non per una loro minore coscienza e capacità combattiva (seb-bene anche in questo caso sarebbe ingiusto disinteressarsene), ma per una situazione oggettiva che fa esplodere nelle fabbriche il punto di crisi dell'economia italiana.
Da parte delle categorie meno esposte occorre quindi estrema attenzione perchè le loro rivendicazioni non provochino un aggravamento della difficile situazione dei dipendenti dell'industria. Chi non tenesse conto di ciò agirebbe con una angusta visione di settore e provocherebbe diffidenze e risentimenti fra i lavoratori.
Non si tratta, sia chiaro, di invitare nessuno a fare il crumiro o di augurarsi il fallimento di qualche azio-ne rivendicativa: la questione non è di rinunciare alle lotte sindacali, ma di usare molta cautela prima di dare il via ad una agitazione, tenendo conto che chi sciopera, se vuole agire secondo il necessario principio della solidarietà generale di tutti i lavoratori, affronterà una lotta molto dura, perchè dovrà difendere non solo gli interessi della propria categoria ma anche quelli dei lavoratori dell'industria italiana.



La Redazione


Lo statuto dei diritti dei lavoratori

LE DICHIARAZIONI GOVERNATIVE
L'attuale governo s'è impegnato a fare una legge che tuteli i diritti dei lavoratori nelle fabbriche e in genere nei luoghi di lavoro. Nelle dichiarazioni programmatiche presentate ai due rami del parlamento il 12 dicembre 1963 è detto testualmente: «Il governo esprime inoltre il proposito di definire, sentite le organizzazioni sindacali, uno statuto dei diritti dei lavoratori al fine di garantire dignità, libertà e sicurezza nei luoghi di lavoro».
Sono poche parole (né del resto si poteva pretendere di più in una dichiarazione che doveva enunciare i criteri che verranno seguiti dal governo in ogni campo della sua attività) ma contengono un impegno molto importante, anche se generico; è quindi opportuno porre in rilievo l'importanza che la promessa del governo ha per i lavoratori e cercar di indicare, prima che le linee della riforma siano state definitivamente fissate, quali sono i diritti 3 le garanzie più necessari.

OCCORRE UNA LEGGE DI IMMEDIATA APPLICAZIONE
E' prima di tutto evidente che occorrerà che accanto alle enunciazioni di principio siano fissate con precisione le modalità concrete di attuazione ed esecuzione, in modo che lo statuto possa entrare in vigore senza scappatoie in tutte le aziende italiane.

I PRINCIPI DELLA RIFORMA
Il grande principio della riforma deve essere che la Costituzione deve entrare nelle fabbriche: lo statuto dovrà rendere operanti anche nei luoghi di lavoro i principi di dignità, di libertà, di democrazia ed uguaglianza garantiti dalla carta costituzionale. Bisogna ricordare che l'art. 41 della Costituzione afferma solennemente: «L'iniziativa economica privata... non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».
Non si deve più pretendere che il lavoratore lasci fuori dai cancelli della fabbrica la propria personalità e diventi una macchina senza cervello e senza sentimenti: il lavoro deve essere fonte non di schiacciamento, ma al contrario di esplicazione e di espansione della personalità. Una società che trovasse il proprio fondamento nella concezione che il lavoro debba essere una continua umiliazione della persona che lo compie sarebbe una società marcia, da distruggere senza rimorsi.
Il lavoratore dunque deve essere messo in condizione di impegnare la propria personalità nel lavoro; benissimo, ma non basta: per gli operai la fabbrica è il centro della loro vita, quindi DENTRO LA FABBRICA, NATURALMENTE AL DI FUORI DELLO STRETTO ORARIO DI LAVORO, gli operai devono poter riunirsi, discutere, passai si e distribuirsi dei volantini, degli stampati, occuparsi di politica o di qualsiasi altra cosa si vogliano occupare.

LE GARANZIE PIÙ NECESSARIE
La prima condizione però perchè gli operai possano esigere in concreto il rispetto di ogni loro diritto è che essi siano rigorosamente protetti contro ogni discriminazione e ogni arbitrio; occorreranno quindi:
1 ) garanzie sui criteri di assunzione, che non si venga scelti per il colore di una tessera, o meglio per l'assenza di ogni tessera (perchè a volte anche i sindacati e i partiti «buoni» diventano «cattivi»); possibilmente collocamento gestito unitariamente dai sindacati;
2) giusta causa nei licenziamenti: le cause economiche di riduzione di personale dovranno essere comprovate rigorosamente (come del resto le cause di riduzione d'orario, vedi Picchiotti a Viareggio e Fiat a Torino); i lavoratori licenziati dovranno effettivamente avere la precedenza nelle riassunzioni;
3) garanzie contro le discriminazioni di trattamento e contro i trasferimenti senza comprovate giustificazioni tecniche.

UN PASSO AVANTI
Le rivendicazioni giuridiche dei lavoratori sono molte (migliore tutela dell'apprendistato, riconoscimento giuridico delle commissioni interne, maggiori garanzie per coloro che hanno cariche di sindacato o cariche pubbliche e per i membri di commissione interna, istituzione obbligatoria di corsi di qualificazione e riqualificazione contro la disoccupazione tecnologica, partecipazione dei sindacati alla ge-stione dell'addestramento professionale, modifiche del regime del periodo di prova, completa equiparazione del lavoro femminile ecc. ecc.) e difficilmente potranno tutte trovare accoglimento; l'importante è che la legge disponga le tutele più necessarie e non sia comunque una gabbia, ma un minimo integrabile mediante lotte sindacali e leggi successive, fino ad arrivare a porre il problema dell'attuazione dell'art. 46 della Costituzione, che sancisce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende.
Consentire ai lavoratori di essere cittadini e uomini liberi anche dentro la fabbrica, di esplicare una vita sociale anche dentro la fabbrica, vorrà dire creare in essi la fiducia nello sviluppo civile del nostro paese, significherà affermare la capacità della nostra società di evolversi e rinnovarsi.

L'IMPEGNO DEI LAVORATORI
Occorre infine che i lavoratori manifestino nei partiti, nei sindacati, in ogni modo e in tutte le organizzazioni, la loro attesa e volontà che il governo tenga fede al suo impegno e che la legge sia migliore possibile; perchè i governi possono essere buoni o cattivi, rispondere alle rivendicazioni degli operai con provvedimenti a loro favore o invece con le camionette della celere, ma non può esistere con nessun governo che le riforme caschino da sé come pere mature dagli alberi.





E. V.

La cronachetta

Sono continuati gli scioperi dei calzaturieri per il rinnovo del contratto nazionale.
All'APICE la partecipazione è stata totale, meno naturalmente gli impiegati e i maestri e le maestre di reparto (cioè i soliti capetti).
Ci è pervenuta dall'Apice una somma per «il nostro lavoro»: mentre ringraziamo cordialmente, ci rallegriamo con gli operai che hanno preso l'iniziativa, nonostante tutto.
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Alla Pavimenti Apuani il piazzale di caricamento degli autotreni è a cielo scoperto. Per riparare dalla pioggia gli operai e operaie che stivano i cassoni, vi sono 4 o 5 impermeabili così sdruciti e malmessi da non poter essere usati: non rimane che prendersi tutta la pioggia e lasciarsi intorsare come spugne.
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Un operaio (bravo ragazzo tutto dedito alla famiglia composta di tre persone, lavora in un cantiere, operaio specializzato, buon cottimista) mi raccontava che ha portato al Monte di Pietà il fermacravatte e i gemelli d'oro per arrivare al giorno di paga. Mi ha fatto vedere, vergognandosi come un bambino, l'assegno per il Sindacato che non ha consegnato e mi diceva: non potevo, non potevo, mi ci vengono due bistecche per mia moglie che è stata malata.
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Alle Rubinetterie Ponsi circola fra gli operai questa voce: i prati non sono tutti verdi.
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Alla Fervet qualcosa si sta muovendo: ne diamo volentieri atto nella fiducia che il miglioramento continui senza stanchezze. Intanto fervono i lavori d'installazione di gabinetti di decenza nei diversi reparti: sono molto moderni e veramente confortevoli.

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E' avvenuto, non certamente a caso però, che un sacerdote, don Cesare Carli, incaricato di parlare ai dipendenti della Work di Massarosa durante l'intervallo di mezzogiorno, nei primi tre giorni della Settimana Santa, dopo faticose trattative col Cav. Giannini, imprenditore della detta azienda, quando è andato a parlare ha trovato i dirigenti e gli operai non avvertiti e il detto Cavaliere reso irreperibile. Evidentemente non ha potuto parlare.

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Come si sa, ai Cantieri Picchiotti l'orario di lavoro è stato ridotto di quattro ore settimanali. Giorni fa alcuni operai sono stati richiesti di fare alcune ore straordinarie per terminare un lavoro urgente. L'accettazione però è stata condizionata per solidarietà con tutte le altre maestranze, al ripristino dell'orario completo per tutti, almeno per un mese. La condizione non è stata accettata dalla Direzione e quelle ore straordinarie richieste non sono state effettuate.

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Al Calzaturificio «Massarosa», a differenza dell'Apice, gli operai sono completamente falliti. L'imprenditore è riuscito brillantemente a dominare la situazione: fra le altre cose, come notato nel numero precedente del nostro giornale, si dice che abbia aumentato del 20% il salario a un gruppetto di operai (saranno i soliti capetti) e ha offerto a tutti i dipendenti (non si sa bene se «a condizione» che non scioperassero o se «perchè» non hanno scioperato e quindi in premio di fedeltà) viaggio a Firenze e partita Ita-lia-Cecoslovacchia, al modico prezzo di L. 500.


La situazione economica vista da un operaio

Sono un operaio e voglio parlarvi come vedo la situazione economica che si è venuta attualmente a creare: situazione che interessa in particolare modo poiché noi operai per primi abbiamo risentito dei provvedimenti che sono stati ultimamente adottati. Uomini di governo, esperti economici, sociologi, cioè i rappresentanti qualificati, ci informano quotidianamente per mezzo della stampa e della televisione sulla situazione economica del momento. Loro stessi poi varano quei provvedimenti che molto spesso avrebbero la presunzione di risanare le nostre finanze. Ora invocano la collaborazione dei cittadini e noi operai collaboriamo. Sì, collaboriamo, infatti abbiamo diminuiti gli orari di lavoro e di conseguenza sono diminuiti i nostri stipendi. Facile, dedurre, a questo punto, che se guadagniamo meno, spenderemo meno, facciamo cioè ciò che il governo attualmente ci chiede: risparmiamo.
I grandi uomini scrivono e parlano di rapporti fra produttività e consumi, competitività di mercato, bilancia dei pagamenti e molte altre belle cose, resta il fatto che fra tanti epiteti difficili il fine che essi si prefiggono è il solito: ritengono che gli stipendi siano troppo alti e che perciò ci consentano uno spreco (che a mio modesto parere non esiste) di consumi: per concludere si ritorna alla fatidica frase: italiani, bisogna risparmiare. Ma guardiamoci in faccia, signori, esperti qualificati, e siamo leali una volta tanto. Domandiamoci come può un operaio permettersi il lusso di risparmiare; ripeto il lusso perchè oggi risparmiare lo è proprio diventato. Preposto ciò, è facile pensare come molte mie idee e anche quelle dei miei colleghi operai (e qui non vorrei peccare di presunzione) non siano conformi alle vostre. Non sono d'accordo sui provvedimenti, che i sopracitati hanno sperimentato, di risanamento e non li ritengo all'altezza di poter fare i moralisti come fino a ora hanno fatto e ciò per le ragioni che seguono:
1) Gli emolumenti, l'onorario, l'indennità che essi percepiscono è troppo diversa (in meglio s'intende) a quelli dell'operaio.
2) L'esenzione della denuncia dei redditi che non mi pare per essi una definizione troppo edificante c'è che assume del grottesco se si considera che la nostra nazione è deficitaria di natura.
3) Forse lor signori non ricordano - è grave questa loro dimenticanza - l'articolo della Costituzione che in un brano dice testualmente: «La Repubblica Italiana è una repubblica fondata sul lavoro». E' a questo punto che nasce per noi che realmente lavoriamo il rammarico, l'amarezza, lo sconforto più grande.
Gli uomini che, in generale, appartengono alla classe operaia, che creano la produzione, che in parole povere è li ricchezza della nazione, vivono troppo male e con i loro sacrifici sono costretti a mantenere una società di parassiti legalmente inseriti nella repubblica, società che tende ad aumentare sia in numero che in privilegi. Qui forse sta la piaga più grande. Dice un vecchio proverbio toscano: «Il medico pietoso fa la piaga puzzolente» ed in effetti questo è ciò che accade. Troppi interessi personali ben più vivi che un sincero interessamento al bene della nazione sono in ballo fra questi signori. Essi per tentare di migliorare la situazione attuale, e ripeto sempre a mio modesto parere, dovrebbero cercare di eliminare le infrastrutture, adeguare i rapporti sociali ed economici, gli stipendi e le pensioni, ripristinare quel motto spesso dimenticato «La legge è uguale per tutti » e lo sia una buona volta, non si permetta più che fra una categoria e l'altra si consolidino maggiormente caste sociali antipatiche e principalmente antidemocratiche.




L. P.

offerte per il giornale

Hanno mandato offerte per questo numero di aprile:
- F.E.R.V.E.T ... L. 10.695
- Pavimenti Apuani » 5.020
- Rubinetterie Ponsi » 9.520
- Società Esercizio Cantieri ...» 3.115
- Natanti Escavazione Porto «Nurra,
Marche, Rimini, Viareggio»... » 3.300
- Cantieri M. B. Benetti .... » 7.815
- Società Telefonica Tirrena ...» 19.500
- Cantieri F.lli Benetti (per il numero
precedente) » 3.450
- S.A.L.O.V » 8.750
- Calzaturificio Apice............ » 15.500
- Cantieri Picchiotti » 8.605

La Resistenza

Parlare di un avvenimento storico è sempre qualcosa di pericoloso, nel senso che è molto facile dia esca alla nostra pigrizia.
Un avvenimento storico si può considerare da due punti di vista: ci si può limitare a celebrarlo e commemorarlo, come fatto ormai lontano, staccato dal nostro essere nel presente, oppure si può cercare di individuare quali siano i suoi riflessi sulla nostra vita di oggi e soprattutto in cosa abbia modificato i nostri rapporti umani e in cosa sia suscettibile di modificarli ancora. Ed è molto facile, appunto, che la nostra pigrizia ci spinga a scegliere la prima via, indubbiamente più comoda e meno compromettente.
Così è anche della resistenza. Non nascondiamo che per un attimo neanche noi abbiamo saputo sottrarci alla tentazione di «celebrare» il 25 aprile: di ricordare qualche episodio della lotta partigiana, magari mettendone in risalto il valore morale del sacrificio e cavarcela nella maniera più spiccia e meno impegnativa. Ci siamo accorti che non sarebbe stato onesto e che, soprattutto, non sarebbe servito a nulla. Eccoci, dunque, a parlare, o meglio a cercare di parlare della resistenza come fatto vivo, come avvenimento che continua nel presente ed informa di sé la nostra vita di tutti i giorni.
Con la resistenza, per la prima volta nel nostro paese, le masse popolari da succubi delle decisioni altrui, divengono artefici del loro futuro. I soldati mandati a morire sui campi di battaglia di mezza Europa e d'Africa per una politica che essi non avevano deciso e per difendere interessi che non erano i loro, scoprono, per la prima volta, il valore determinante del loro numero e la forza che essi hanno d'imporre una svolta popolare alla storia italiana. E' tutto il popolo che, nella resistenza, conquista il proprio diritto alla sovranità e alla democrazia.
Al di sotto di questo, che è il principale, la resistenza, secondo noi, ha tre aspetti diversi: l'insurrezione nazionale contro l'invasore (il che spiega, ad esempio, la presenza fra le forze partigiane di formazioni regolari del vecchio esercito regio, inquadrate militarmente dai loro ufficiali; la lotta al fascismo, inteso non soltanto come sistema politico, ma come costume di vita; la lotta per la costruzione di un paese diverso, in cui giustizia sociale e democrazia aprissero prospettive nuove, di una vita a livello d'uomo (il clic spiega come nei LN potessero confluire forze politiche tanto distanti nei loro metodi e nella concezione della società da edificare, ma unite da una comune aspirazione di giustizia e di libertà).
Il primo aspetto della resistenza, quello della insurrezione contro l'invasore, si è veramente concluso il 25 aprile 1945 con la resa delle armate tedesche al CLNAI. Di esso non potremmo fare che una commemorazione, ricordando i lutti e i sacrifici che costò.
La lotta contro il fascismo, invece, non può dirsi affatto conclusa. E ciò non soltanto perchè il fascismo vive ancora in forme diverse in troppi paesi, verso la lotta di liberazione dei quali va e deve andare tutta la nostra solidarietà, ma anche e particolarmente perchè il fascismo è qualcosa dì più pericoloso di un semplice regime politico, di una forma di governo della quale non resta più traccia appena si sia riusciti a spazzarla via.
Perchè il fascismo è la codificazione dello sfruttamento di una classe su un'altra, è la esaltazione della forza e del sopruso, contro la libertà e la dignità dell'uomo ed è la distruzione di tutti quei valori che nella libertà e nella socialità trovano la loro espressione.
Per questo la resistenza al fascismo non è conclusa, ma continua e deve continuare ancor oggi. Continua non soltanto come lotta contro quei gruppi di potere che vollero ed imposero il fascismo e che ancor oggi determinano tanta parte della nostra vita, ma come ricerca di più veri valori umani, come difesa del significato della nostra esistenza.
Continua nella resistenza all'egoismo di classe, nella ricerca di una vita più giusta e più dignitosa, nella ricerca di una struttura sociale in cui gli uomini siano veramente liberi e la solidarietà diventi la loro norma di condotta e la norma di condotta dello Stato nei loro confronti, continua nel rifiuto dello sfruttamento e della guerra, continua nell'aspirazione a sentirsi liberi e nella tendenza a scoprire i nostri stessi valori negli uomini che ci circondano, qualunque siano la loro razza e le loro credenze, continua nell'aiuto che diamo o che dovremmo dare ad altri uomini che lottano per liberarsi dal giogo dal quale noi ci siamo liberati.
Il terzo aspetto della resistenza, quello della lotta per un paese nuovo che sia davvero il paese di tutti noi, nel quale nessuno di noi debba sentirsi estraneo ai valori che sono propri degli altri, è forse più vivo del primo e si rinnova, si alimenta di giorno in giorno.
Il sacrificio di tanti che gettarono la loro vita nella lotta di liberazione non è stato inutile, ma deve ancora concludersi con il nostro impegno e con il sacrificio di cui noi saremo capaci. E si concluderà nella misura in cui sapremo rinunciare al nostro egoismo per conquistare la parte migliore di noi stessi.
La resistenza ci ha dato una costituzione che è la premessa indispensabile per uno stato democratico e giusto, ma resta ancora da attuarla nel suo sacrificio pratico. Posso avere un diritto, ma poco vale che mi sia riconosciuto se non ho i mezzi per attuarlo. A poco valgono i principi di democrazia e di uguaglianza che sono alla base della nostra costituzione, se poi non abbiamo la forza di tradurli in pratica, se non riusciamo a farli diventare effettivi nel lavoro, nella società, nei nostri rapporti con gli altri.
Quando, ad esempio, gli operai di Torino difendevano con la loro vita la FIAT, o quando gli operai di Firenze smantellavano pezzo per pezzo l'officina Galileo e nascondevano le macchine nelle campagne, nei fienili, nei cascinali per salvarle dai tedeschi, non lo facevano, evidentemente, per proteggere gli interessi degli industriali, per perpetuare la loro possibilità di accumulare profitti. Lo facevano perchè erano sicuri che, finita la guerra, quelle fabbriche, quelle macchine non sarebbero state più il luogo ed il mezzo della loro schiavitù, ma il luogo ed il mezzo della loro libertà, della riconquista della loro dignità umana. Essi sentivano la fabbrica come cosa loro, come sicurezza della loro vita, come garanzia dell'avvenire dei loro figli e soltanto perchè tali la difendevano a prezzo della vita. I cinquecento e più consigli di gestione, nei quali gli operai italiani sperimentarono fino al 1948 la loro capacità di guidare il proprio lavoro e ritrovarono la dignità di uomini liberi, artefici del proprio avvenire, non nacquero a caso.
Ed ecco che, allora, la resistenza continua. Continua per realizzare, attraverso salari equi, la libertà dal bisogno; continua per la fine delle discriminazioni sul luogo del lavoro; continua perchè la possibilità di guadagnarsi il pane divenga un diritto e non una buona grazia dell'imprenditore; continua perchè gli uomini, nella fabbrica e fuori della fabbrica, si distinguano per le loro capacità e non per la ricchezza che posseggono, o la classe sociale alla quale appartengono; continua per la conquista della dignità del lavoratore; continua per la realizzazione di un sistema di diritto allo studio, in cui le prospettive dei figli dei lavoratori e dei figli degli industriali dipendano soltanto dall'intelligenza e dalla volontà e non dal reddito dei loro padri.
Continua negli scioperi, nell'impegno di ognuno, nelle parole dette e nelle umiliazioni subite.
Ed ecco perchè il 25 aprile è ancora vivo in ciascuno di noi ed ecco perchè del 25 aprile non è giusto fare una commemorazione.




O.B. - S.R.

S.A.L.O.V. lo stabilimento e il refettorio

Sono andato a vedere dove a mezzogiorno si fermano a mangiare gli operai della Salov.
Non ho trovato una mensa aziendale: solo una stanza veramente miserabile, dove su per giù un terzo dei dipendenti consuma quello che nella borsa, appesa alla bicicletta o al motorino, si è portato da casa. Chi può, perchè abita vicino, preferisce andarsene a casa e con mille ragioni, delle quali forse non l'ultima è la poca accoglienza della stanza destinata a refettorio.
La direzione ha voluto unire la mia visita, che voleva essere soltanto un vedere dove mangiano gli operai per continuare la descrizione di questa rubrica del giornale, alla visita di tutto il complesso industriale. E naturalmente per me è stata una gran gioia. Vedere il lavoro da vicino, l'ambiente dove si svolge, il macchinario che l'assorbe e io moltiplica, l'attrezzatura che lo potenzia, ma che anche lo schiaccia come valore umano, è sempre motivo di un interesse profondo, l'occasione di una partecipazione umana intensissima.
E passando di reparto in reparto, ho provato tanta comprensione e ho lasciato tanto cuore accanto a quei lavoratori della Salov che mi sono apparsi tanto tranquilli e sereni, silenziosi e attenti al loro lavoro.
Ed anzi li prego di scusarmi se non mi sono fermato a parlare con tutti come avrei tanto desiderato e stringere loro la mano con profonda amicizia: durante il lavoro, si sa, non si può stare a chiacchierare e poi, chissà perchè, con gli operai al lavoro provo una terribile timidezza e quasi un senso di vergogna che mi impaccia e l'altro giorno mi sentivo il visitatore che passa incuriosito a vedere chi lavora e fatica, fino al punto di sentirmi tanto imbarazzato. Però gli operai sono stati molto cordiali e simpatici, specialmente quelli della raffineria e dell'officina meccanica e mi ha fatto tanto piacere quell'operaio della macinatura che mi ha detto con tanta simpatia: lei è don Sirio del giornale?
Mi hanno accompagnato un rappresentante della Commissione Interna e un ragioniere della Direzione, quasi a bilanciare le impressioni che avrei ricevuto durante la visita, e tutti e due sono stati molto cortesi, anche se uno si premurava di farmi notare ciò che potrebbe essere migliore in ciò che riguarda gli interessi operai e l'altro metteva giustamente in risalto la bontà degli impianti, la buona volontà degli imprenditori, la serenità del clima fra dirigenti e dipendenti, ecc.
Chi guarda la Salov dalla Via Aurelia e vede i grandi silos argentei che la Meccanici Uniti ha costruito recentemente e che svettano contro il cielo, arditissimi, la grande costruzione centrale e i vecchi silos allineati di fianco, ha l'impressione di una grande azienda, ma se poi si entra dall'ampio cancello nel grande piazzale centrale e si passa di reparto in reparto, si scoprono complessi di attrezzature veramente sorprendenti.
In questo reparto l'olio d'oliva colma ininterrottamente lunghe file di bottiglie che corrono disciplinatamente sui nastri di trazione a farsi lavare, riempire e sigillare. In quest'altro reparto sono invece quei cilindretti metallici splendenti di colori che in file interminabili girano e girano fino a uscire colmati di olio di arachidi o di altri semi, sistemati in ogni rifinitura, pronti per il negozio di alimentari e la padella di cucina.
Qua invece sono lattine di ogni misura che un altro macchinario modernissimo elettronico sistema a dovere e in numero incredibile ogni ora, per essere spedite in America nel nord, dentro scatole di cartone che due o tre operaie preparano e cuciono con una velocità sorprendente, meritevoli ormai di essere operaie qualificate.
E una fontana d'olio riempie i fusti a peso automatico. Montagne di fusti vuoti. Lavaggio automatico con forte uso di preparati chimici, da far pensare che gli operai addetti abbiano il trattamento per nocività.
Stanzoni immensi colmati di balle di prodotti oleosi. Trazione meccanica dovunque. Però in certi ambienti vi è tanta polvere, chi vi lavora non può che respirarla continuamente: ma anche qui vi saranno sicuramente trattamenti particolari per nocività e, almeno d'estate, ventilatori e respiratori adatti.
Il grave odore dove avviene la prima macinatura di tonnellate e tonnellate di prodotto. Poi i separatori chimici, di cui uno modernissimo, costruito anch'esso dai Meccanici uniti e poi il grande complesso di raffinatura, pare d'essere, per tentare un paragone, nella sala macchine di un grande transatlantico. In basso le caldaie e poi diversi piani di una intelaiatura imponente e grovigli inimmaginabili di tubi di ogni diametro. Vi è un rumore sordo e incessante, un'aria pesante che d'estate è soffocante, mi dicevano gli operai. Ma il lavoro è tranquillo perchè tutto è automatico e quindi si tratta solo di controllare, a parte la pulitura dei filtri, che bollenti come sono, in estate diventano un tormento.
Uscendo fuori, a pochi passi vediamo l'officina meccanica per la manutenzione dell'attrezzatura. Mi è sembrato d'entrare in una vecchia e simpatica officina di trent'anni fa, con quei torni all'antica, le pulegge multiple a cinghia, tutto alla buona come una vecchia bottega di fabbro-ferraio, dalle mura nere di fumo, coperta a tettoia, dai pavimento di cemento che pare terra battuta e fuliggine secolare.
Mi ha fatto piacere vedere una vecchia officina come quella: ora non se ne trovano quasi più, neanche in Darsena. Peccato che i cancelli della Salov siano così chiusi agli estranei: mi piacerebbe tanto andare spesso a vedere quella vecchia officina, simpatica come una vecchia casa colonica, rimasta intatta fra palazzine moderne.
Perchè qui alla Salov vi sono attrezzature modernissime e intelligenti accanto a sistemazioni di reparti veramente antiquate.
A parte l'officina meccanica del resto così pittoresca e con quei suoi operai così simpatici e tranquilli, contenti, mi è sembrato, di lavorare, per quella loro gran pratica, con attrezzature così gloriose di storia meccanica, vi sono magazzini che sono soltanto stanzoni immensi di una cupezza impressionante e poi la parte assistenziale è in condizioni realmente miserabili, veramente indegne di un grande e glorioso complesso come è la Salov.
Mi diceva il ragioniere che vi è un progetto e ho visto una larga zona di terra, attualmente a deposito di demolizione, per ruggine e abbandono, di attrezzature e materiale scartato e gettato al macero, zona di terra destinata alla costruzione del reparto assistenza agli operai. Ma intanto quella stanza che dovrebbe essere un refettorio somiglia a una topaia, con quelle panche sconnesse e tavoli coperti pressoché da uno straccio: non invita a mangiare quella stanza. Un soffitto qualsiasi. Un po' di formica sui tavoli, quattro sedie e una buona imbiancatura, non sarebbe una grande spesa, in attesa che sia realizzato il progetto, anche perchè si sa quanto vanno alla lunga certi progetti. E ugualmente anche per gli spogliatoi degli operai e delle operaie: sono veramente indecenti, senza un'ombra di rispetto e di considerazione per chi lì deve cambiarsi gli abiti, trovare una decorosa sistemazione dei propri indumenti, sia quelli «buoni» che quelli da lavoro.
E un'occhiata è bastata per vedere gli impianti igienici e la loro assoluta inadeguatezza. Tanto più che non vi è nemmeno chi è deputato alla loro pulizia.
Non so, ma può darsi che alla Salov regni ancora la vecchia idea secondo la quale ciò che non serve alla diretta produzione, è sempre e soltanto pura perdita per l'amministrazione dell'azienda.
Può darsi, ma io non voglio accettare che una arretratezza simile guidi i rapporti fra dirigenza e maestranze in una azienda ormai così affermata nella sua serietà produttiva e amministrativa in Italia e all'estero.
Penso che non possa mancare una considerazione e un apprezzamento umano verso quelle maestranze che guidano e animano tutto quel groviglio di tubi che da montagne di arachidi fanno scendere fontane d'olio prezioso, splendente come l'oro.
Quell'oro che poi andrà, sì, nelle buste degli operai e del personale amministrativo e nella nuova costruzione di impianti ecc., ma in maggiore abbondanza nei dividendi azionari della Società Anonima S.A.L.O.V.


d. S.

I.N.A.M.

immagine:  I.N.A.M. Martedì 7 Aprile
Alcuni giorni fa siamo andati al Poliambulatorio della INAM. C'era molta gente, saranno state circa una trentina di persone, che erano lì ad aspettare, ma il Professore, che viene una volta la settimana, visita solo venti persone per volta. Tutti gli altri, dunque, eccetto i primi venti arrivati, dovettero tornare a casa.
Fra questi c'era anche un uomo che aveva molto insistito con l'infermiera per essere ricevuto. Poi, rassegnato, si era messo a chiacchierare con un altro, lamentandosi della complicata burocrazia e delle lunghe attese. Ci siamo avvicinati e gli abbiamo chiesto che mestiere facesse. Era un contadino della campagna dietro Camaiore.
Era stato ricevuto dal Professore il 10 Marzo e sarebbe dovuto tornare martedì 1 Aprile per un controllo, ma era stato rimandato a casa senza essere stato visitato. Prima gita inutile. Tornato quel giorno, ecco che risuccedeva la stessa cosa. Seconda gita inutile. Eppure era arrivato con un anticipo di mezz'ora.
Dunque: due mezze giornate lavorative perdute, più i soldi del biglietto dell'autobus. Tornerà il prossimo martedì e speriamo bene.
E' da notare che il contadino in questione non aveva affatto un'aria disperata o neppure seccata. Per lui tutto ciò. come ben sappiamo, era normale amministrazione.



gruppo studenti


La ricchezza mobile operaia

Fra le trattenute di fine mese che i lavoratori si trovano sulla busta paga, oltre a quelle della Previdenza Sociale per le varie assicurazioni (pensioni, disoccupazione, tbc ecc.), dell'I.N.A.M. per le malattie, della Gestione Case per Lavoratori, c'è la trattenuta per R. M. Cat. C2, Ricchezza Mobile per i redditi di lavoro subordinato.
E questo perchè anche il guadagno che deriva dal lavoro prestato alle dipendenze di terzi è oggetto ad essere tassato e il pagamento viene fatto tramite il datore di lavoro il quale effettua le trattenute secondo norme ben precise.

Ci sono infatti dei minimi di guadagno al di sotto dei quali non c'è obbligo di trattenuta: cioè per i guadagni al di sotto di L. 6.200 settimanali, L. 12.500 quindicinali, 25.000 mensili.
Quando il guadagno è al di sopra di questi minimi il datore di lavoro fa le trattenute con le seguenti percentuali. Prendendo come esempio la retribuzione mensile:
per le prime 20 mila lire non ci sono trattenute
per le rimanenti 60 mila (fino a raggiungere cioè le 80 mila) la trattenuta è del 4,40%
se il guadagno supera le 80 mila lire, la trattenuta è del 9,20%.
Bisogna notare che le percentuali vanno calcolate sul reddito complessivo senza però considerare gli Assegni Familiari, perchè questi sono esclusi dalla trattenuta di Ricchezza Mobile.
Per esempio, un operaio che guadagna circa 58 mila lire mensili (esclusi gli assegni familiari) avrà la seguente trattenuta:
Guadagno Quota Reddito su cui si Trattenuta
mensile esente calcola il 4,40%

L. 58.000 L. 20.000 L. 38.000 L. 1.672
L. 68.000 L. 20.000 L. 48.000 L. 2.112

Quando il guadagno supera L. 80.000 le trattenute sono come per gli esempi seguenti:
Guadagno Quota Reddito su cui si Reddito su cui si Trattenuta
mensile esente calcola il 4,40% calcola il 9,20%

L. 85.000 L. 20.000 L. 60.000 L. 5.000 L. 3.100
(trat. L. 2.640) (trat. L. 460)
L. 90.000 L. 20.000 L. 60.000 L.10.000 L. 3.560
(trat. L. 2.640) (trat. L. 920)







E.C.

Leggere: "il taglio del bosco"

Chi comincia a leggere il Taglio del Bosco (è un racconto scritto nel 1950 che ora dà il titolo a un volume delle edizioni Einaudi in cui sono contenuti tutti i racconti più lunghi dello scrittore toscano) come prima impressione può anche restare deluso. Tutto gli può sembrare eccessivamente dimesso, semplice. E difatti dai libri si è portati ad aspettarci piuttosto la complessità che la semplicità. In questo caso, ciò che non ci si aspetta sono delle battute di dialogo così semplici, dei gesti così semplici, delle descrizioni così semplici. Che cosa significa mettersi a descrivere un uomo dell'apparente età di 37-38 anni vestito dimessamente, che scende da una corriera, entra in uno spaccio, mangia una minestra in cui prima ha spezzettato del pane e versato un po' di vino, paga, saluta, esce, seguirne i passi fino al suo arrivo al paese, accompagnarlo fin dentro casa sua in cui d'altronde c'è poco di speciale - una sorella e due bambine già a letto ; la moglie è morta qualche mese prima - il tutto aprendo bocca quasi contro voglia, come quasi contro voglia pare che scriva lo scrittore stesso?
Significa proprio questo: mettere il lettore a contatto con le cose più semplici della vita: mangiare, camminare, dormire, scambiare frasi come «fa freddo?», «vuoi passare in casa» «di dove vieni» come va?» a cui si aggiungeranno nelle pagine seguenti tutti i gesti, le parole ecc. che formano il contesto quotidiano del lavoro del protagonista; ma in ciascuno di questi gesti, di questi atti, di queste parole, lasciare trasparire qualcosa.
Nel caso del presente racconto - e basterà andare avanti a leggere per rendersene conto - ciò che traspare è il sentimento del protagonista, il suo dolore per la moglie perduta che lo accompagna ovunque senza quasi che lui se ne accorga.
Giacché c'è sempre «qualcosa» nella giornata di ciascuno di noi, qualcosa di triste, come nel caso dell'uomo di nome Guglielmo a cui è morta la moglie, ma anche, se pur più raramente, di allegro; comunque qualcosa. Per cui mentre mangio, cammino, lavoro, pronuncio le solite parole, (e si noti che di simili atti semplicissimi è composto il 90 per cento della nostra giornata, il 999 per mille della nostra vita) in realtà, una realtà un po' particolare, ammettiamolo, io non mi limito a mangiare camminare lavorare parlare. E che cos'altro farei ancora?
Ma andiamo avanti nella lettura del Taglio del Bosco. Vediamo come Guglielmo, che oltre che taglialegna è anche privato imprenditore, raccoglie la squadra ingaggiata, quattro uomini con cui prima in corriera poi a piedi, raggiunge la zona del «taglio»; e come costoro si costruiscono il loro capanno, lavorano d'accetta, lavano i loro panni al torrente, fumano e giocano a carte durante le lunghe serate di veglia... Finiscono le serene giornate autunnali, viene Natale, poi la pioggia, poi la neve, finalmente la primavera e il «taglio» è finito. Ciascuno dei quattro è un tipo a sé, e sebbene il racconto sia ambientato negli anni trenta, non è difficile almeno per noi toscani riconoscervi dei tipi familiari. Ma ciò che conta non sono le descrizioni dei tipi, per quanto gustose, o delle varie operazioni che costituiscono il « taglio » di un bosco, per quanto insolite e inte-ressanti; ciò per cui vale la pena, nel senso che precisammo l'altra volta, di Leggere queste pagine, è il qualcosa che traspare dietro gli atti, i gesti, le parole del protagonista: il suo dolore silenziosissimo, che non si manifesta ad alcuno e a malapena a lui stesso.
Come è appunto silenziosissima, e si manifesta a malapena o addirittura affatto, la cosa qualsiasi che rende allegra o triste la nostra giornata, ciò che se non coincide sempre con uno scopo, ci fornisce almeno un minimo di calore.


Il lettore

Un cenno della storia del 1° Maggio

La festa del lavoro è nata negli Stati Uniti per ricordare agli operai caduti a Chicago in uno scontro con la polizia il 4 maggio 1886.
Da 4 giorni, cioè dal 1" maggio, era in corso uno sciopero indetto dalle Federation Trade and Unions per rivendicare le giornate lavorative di 8 ore. Questi avvenimenti ebbero risonanze in tutti quei paesi dove esisteva già un movimento operaio e dove le teorie di un socialismo utopistico alla Saint-Simon o alla Owen aveva lasciato il posto a quelle di Marx e di Engels.
In Italia il 20 aprile 1890 il quotidiano Fascio Operaio usciva con un titolo su tutta la prima pagina «Giovedì 1 ' maggio 1890 manifestazione mondiale per le otto ore». In questa occasione il Crispi si rivelò ancora una volta «difensore delle istituzioni, fedele al suo dovere di tutore dell'ordine, privo di debolezza verso i partiti sovversivi». Caduto il Crispi, gli successe nella presidenza del consiglio un altro siciliano, il marchese di Rudini, meno autoritario del suo predecessore. L'anno seguente quindi la giornata del lavoro fu celebrata in forma unitaria in tutto il paese.
A parte gli scontri avvenuti a Roma tra le folle e un gruppo di anarchici, nelle altre città italiane furono assenti i disordini, fu dimostrato così che il 1" maggio non era uni occasione offerta ai "sovversivi" per rovesciare l'ordine costituito; apparve invece come una nuova festa popolare: del lavoro e della partecipazione della massa operaia e contadina alla vita nazionale. Leone XIII nel '91 con l'Enciclica «Rerum Novarum» affermò che la proprietà doveva essere equamente distribuita e che le associazioni operaie non erano necessariamente un male. Il fascismo volle abolire la celebrazione del 1° maggio e sostituire quella del 21 aprile natale di Roma. Hitler conservò invece la ricorrenza del 1° maggio, per rispettare almeno formalmente il suo partito che, oltre ad essere nazionalista, si rivendicava appunto socialista.
Dopo la liberazione fu celebrata la festa del lavoro e nessuna fu più commovente come quella del 1" maggio del 1945 a Roma in piazza del Popolo. Dieci anni dopo la stessa piazza avrebbe visto un'altra celebrazione della festa del lavoro. Il 1° maggio dal 1955 sarà infatti la festa del lavoro cristiano dedicata a S. Giuseppe falegname.

Lettere alla redazione

Sulla riduzione di orario al cantiere Picchiotti abbiamo ricevuto una lettera del Consigliere comunale Vasco Zappelli, il quale ci invia come contributo alla conoscenza del problema l'intervento che egli fece in Consiglio comunale.
Non possiamo riportare interamente l'intervento per motivi di spazio, dato anche che molte parti dell'intervento toccano temi già trattati nell'articolo apparso nel numero precedente del giornale ed altre scen-dono sul terreno strettamente politico; ci limitiamo quindi a pubblicare le soluzioni che il Signor Zappelli propone per il grave problema.
«La situazione esige solleciti interventi governativi.
Per le piccole aziende si tratta di porre fine ad una indiscriminata politica di restrizione del credito.
Per le medie, come nel caso del Cantiere Picchiotti, si tratta di sventare questi scioperi padronali, intervenendo sugli orientamenti produttivi delle aziende interessate, date le gravi conseguenze pubbliche e sociali di decisioni prese esclusivamente nell'interesse privato.
Viareggio è fra i primi porti d'Italia per l'attività della pesca, ma la flotta peschereccia non è in grado dì affrontare i grandi mari per la scarsa attrezzatura delle imbarcazioni. Bisogna sollecitare i Ministri competenti perché la Cassa del Mezzogiorno o anche altra istanza dì credito prendano nella debita considerazione l'op-portunità del potenziamento detta flotta peschereccia che potrebbe essere costruita, data la particolare attrez-zatura, anche dal Cantiere Picchiotti, contribuendo a quella programmazione che tenga conto della caratteri-stica settoriale della pesca e della massima occupazione.


La Redazione

Serrata ai Cantieri Picchiotti

pomeriggio del 16 aprile
Tutto il giorno in tipografia a sistemare l'impaginazione del giornale. Ero stanchissimo e poi demo-ralizzato e quasi spento di dentro, nell'anima, perchè mi sembrava inutile tanta fatica, senza significato e come a vuoto tutto un ideale. Irraggiungibile, impossibile a me povero prete, così solo in questo sforzo di partecipazione, senza limiti e difese, di tutto un enorme problema umano.
Portavo, dietro sulla bicicletta, le bozze del giornale: queste quattro povere pagine in cui vi è tutto di me stesso, ma che sono infinitamente poco, anche se cariche di tanta passione e di tanto sacrificio, per poter risolvere qualcosa dei tremendi problemi che affliggono il mondo operaio.
E al semaforo del ponte girante era rosso: mi sono fermato in attesa del verde. Pochi secondi, ma una voce mi ha chiamato. E mi ha raccontato che oggi, all'una e mezzo, i cancelli del Cantiere Picchiotti sono rimasti chiusi: un foglio dattiloscritto appiccicatovi sopra dichiarava la serrata.
Due mezz'ore d'interruzione di lavoro, durante l'attività dell'azienda, per protestare contro la Direzione che respingeva sistematicamente ogni invito a trattare l'incresciosa situazione, anche nei confronti dell' Autorità,hanno provocato questa estrema misura.
Sono andato a vedere e ho portato quella mia stanchezza a traboccare davanti a quel foglietto sul cancello. L'ho trascritto sulle bozze del giornale. Eccolo qui.
«A seguito del precedente avviso che chiaramente manifestava l'impossibilità per l'azienda di sopportare agitazioni, condotte in forma illecita, che creano disordine nell'organizzazione e nello svolgimento normale del lavoro aggravando ulteriormente l'attuale difficile situazione, ci vediamo costretti, nostro malgrado, a comunicare alle maestranze la sospensione di ogni attività produttiva. La Direzione».
E con queste parolette oltre 150 uomini dovrebbero tornarsene a casa. Starsene buoni buoni. Accettare serenamente un orario già ridotto (che. strano: il padrone toglie quattro ore settimanali e gli operai non devono risentirsi e protestare, gli operai hanno sospeso il lavoro due mezz'ore e il padrone disinvoltamente chiude l'azienda con un semplice foglietto appiccicato al cancello), dovrebbero aspettare in pace la lista dei licenziati, dire che i provvedimenti contro di loro sono giusti, lasciar cadere ogni loro diritto, non ricorrere nemmeno al sindaco o al prefetto per chiedere di interporsi nella vertenza, rimettersi completamente nelle mani della Direzione perché tutto quello che la Direzione fa è ben fatto ecc..
E perchè così le cose siano, secondo la volontà di quel foglietto appiccicato sul cancello di lamiera, due carabinieri e due militi della pubblica sicurezza erano lì davanti al cantiere.
E per trovare il modo di togliere via quel foglietto, gli operai in massa erano riuniti presso i loro sindacati.
Stasera la sirena dalla voce spiegata che pare un grido violento, non suonerà. Sono venuto a casa a scrivere queste righe perchè quando uscirà il giornale gli operai che invece del cancello aperto (e del cuore spalancato in comprensione serena e giusta dei problemi del loro vivere quotidiano) hanno trovato un foglietto duro e spietato che li ha respinti dentro la loro disperazione, che invece di un sereno lavoro per il loro pane quotidiano (anche se con qualche sacrificio della Direzione) hanno trovato i carabinieri a costringerli a chiudersi in un aspro e duro risentimento contro tutto e contro tutti, vi trovino, questi e tutti gli operai, in queste quattro pagine che costano tanta fatica, una parola di incoraggiamento, di solidarietà, di fiducia, di bontà.
E qualcosa si è di nuovo acceso nell'anima e un po' di forza ha vinto la stanchezza anche se rimane, terribile, l'impressione che i problemi di questo povero mondo sono troppo più grandi di me.


d. S.

Hanno collaborato...

Di questo numero sono state tirate 5.000 copie
Hanno collaborato a questo numero:
Oreste Benedusi; Gruppo Studentesco; Elena Cinquini; Libero Pistelli; Sandro Ricci; don Sirio; Enrico Vettori; il lettore.
direttore responsabile : Sirio Politi - Lungo Canale Est 37, telef. 46.455 - Viareggio
Autorizzazione del Tribunale di Lur.cn n. 173 del 14 Giuyno 1963
TIPOGRAFIA «A. BERTOLOZZI» - VIAREGGIO TELEF. 4.25.23

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