Non credo che sia giusto nascondere agli operai e agli amici, in città e fuori, de «il nostro lavoro» le difficoltà che il giornale sta sempre più incontrando. Non sono difficoltà economiche, per il momento, anche se si vive soltanto sulla simpatia delle maestranze delle aziende più grosse e su quella degli amici vicini e lontani, spesso veramente incoraggiante.
Non sono nemmeno le difficoltà per la raccolta del materiale da pubblicare e per la sua sistemazione in articoli, che ci preoccupa: le due riunioni al mese riescono sempre interessanti e hanno abbondanza di spunti e di motivi. E abbiamo fiducia che gli operai sempre più si facciano coraggio e trovino il tempo per frequentarle, queste riunioni di redazione per la preparazione del testo del giornale.
Dicevo stamani, parlando con due operai, che se venissero venti professori di università non riusciremmo a fare un buon giornale di problemi umani negli ambienti di lavoro, come invece è possibile quando vengono venti operai, e operai sul serio.
Torniamo alle difficoltà. Devo riconoscere che stanno crescendo le critiche al giornale e i risentimenti. Non in modo allarmante, d'accordo, ma certo però assai spiacevole, perchè sarebbe tanto bello poter evitare ogni malinteso, ogni motivo di malcontento, ogni recriminazione e dispiacere, agli altri e a noi.
Certi lettori del giornale può darsi che pensino che sia per me qualcosa di esaltante intrufolarmi nei fatti altrui, prendere le difese, accendere problemi, affermare con ardore valori conculcati, criticare a destra e a sinistra (anzi, dicono che siamo soltanto contro la destra), suscitare risentimenti, mettersi contro, insomma, e battagliare per il gusto di menar le mani.
Non è così, cari amici, anzi l'affrontare difficoltà e sostenere contrasti, rischiare di mettersi contro, ecc. è per me una infinita sofferenza, se non altro per una naturale mancanza di coraggio, per via di una incredibile tendenza alla timidezza, a veder tutto bene, a cercare di ottenere qualcosa soltanto con la bontà e con un'opera di serena persuasione. Quindi è cosa certissima che se io seguissi la mia natura, come io sono e mi sento, me ne starei tranquillo nel mio guscio, a vivere nascosto nel mio mondo che, del resto, trovo colmato di cose interessanti e meravigliose. Sarei portato a pensare a me e, al massimo, a offrire tutto quello che ho e che sono con dolce serenità e senza pretendere nemmeno un grazie.
E' il Cristianesimo, al quale ho consacrato la mia vita, a tirarmi fuori dal mio buco e a gettarmi dentro questo mondo così complesso e difficile.
Ho una ammirazione sconfinata e un Amore veramente profondo per Gesù Cristo. Lui ha determinato e determina la mia vita in tutto il mio esistere: dai più nascosti pensieri e sentimenti, fino alle parole e alle più piccole azioni. Mi è venuto da Lui il senso della giustizia, l'Amore della Verità, la sua ricerca appassionata. Ho imparato da Lui a mettermi dalla parte dei poveri, a rispettare gli esseri umani, a pagare di persona per ottenere il bene degli altri... e tante altre cose è Lui che me le ha insegnate e è l'Amore e la fedeltà a Lui che mi spinge con violenza a darne testimonianza, fino al punto che è dolore e vergogna orribile quando devo riconoscere che la vigliaccheria o la paura o la stanchezza o altro ancora mi impediscono di esserGli seriamente obbediente. Prego tutti i lettori di questo giornale, operai, impiegati, dirigenti industriali e chiunque altro sia il lettore, a vedere in queste pagine l'attuazione dì una esperienza di Cristianesimo realizzata in ambienti di lavoro, nel mondo operaio e industriale. Esperienza di Cristianesimo vissuta anche con chi non è cristiano, nè intende esserlo, ma fondamentalmente affrontata e sostenuta da un prete, che è quel poveraccio che è, idealista e sognatore quanto si vuole, ma che ha la piena convinzione che il Vangelo ha parole di Verità e di giustizia e di Amore per tutti e la Chiesa una dottrina capace di risolvere seriamente ogni problema di giusta e serena convivenza umana.
Sono qua a riconoscere che è possibile sbagliare e eccedere, però i diversi lettori devono ricordare che quando si afferma una Verità con precisione e con chiarezza, quando si dice pane al pane e vino al vino, non si può piacere a tutti e non sempre si può non suscitare, come si vorrebbe evitare con tutta la buona volontà, risentimenti, critiche, scontentezze. Specialmente chi poi è stato abituato ad aver sempre ragione o a non aver mai critiche alla propria mentalità e ai propri modi di fare, abbia pazienza se il giornale dice pure a lui qualcosa di spiacevole. santi e meravigliose. Sarei portato a pensare a me e, al massimo, a offrire tutto quello che ho e che sono con dolce serenità e senza pretendere nemmeno un grazie.
E' il Cristianesimo, al quale ho consacrato la mia vita, a tirarmi fuori dal mio buco e a gettarmi dentro questo mondo così complesso e difficile.
Ho una ammirazione sconfinata e un Amore veramente profondo per Gesù Cristo.
Lui ha determinato e determina la mia vita in tutto il mio esistere: dai più nascosti pensieri e sentimenti, fino alle parole e alle più piccole azioni.
Mi è venuto da Lui il senso della giustizia, l'Amore della Verità, la sua ricerca appassionata. Ho imparato da Lui a mettermi dalla parte dei poveri, a rispettare gli esseri umani, a pagare di persona per ottenere il bene degli altri... e tante altre cose è Lui che me le ha insegnate e è l'Amore e la fedeltà a Lui che mi spinge con violenza a darne testimonianza ,fino al punto che è dolore e vergogna orribile quando devo riconoscere che la vigliaccheria o la paura o la stanchezza o altro ancora mi impediscono di esserGli seriamente obbediente.
Prego tutti i lettori di questo giornale, operai, impiegati, dirigenti industriali e chiunque altro sia il lettore, a vedere in queste pagine l'attuazione di una esperienza di Cristianesimo realizzata in ambienti di lavoro, nel mondo operaio e industriale. Esperienza di Cristianesimo vissuta anche con chi non è cristiano, nè intende esserlo, ma fondamentalmente affrontata e sostenuta da un prete, che è quel poveraccio che è, idealista e sognatore quanto si vuole, ma che ha la piena convinzione che il Vangelo ha parole di Verità e di giustizia e di Amore per tutti e la Chiesa una dottrina capace di risolvere seriamente ogni problema di giusta e serena convivenza umana.
Sono qua a riconoscere che è possibile sbagliare e eccedere, però i diversi lettori devono ricordare che quando si afferma una Verità con precisione e con chiarezza, quando si dice pane al pane e vino al vino, non si può piacere a tutti e non sempre si può non suscitare, come si vorrebbe evitare con tutta la buona volontà, risentimenti, critiche, scontentezze.
Specialmente chi poi è stato abituato ad aver sempre ragione o a non aver mai critiche alla propria mentalità e ai propri modi di fare, abbia pazienza se il giornale dice pure a lui qualcosa di spiacevole.
E mi riferisco ai dirigenti e industriali che, salvo qualche eccezione, risultano molto seccati e scocciati da queste semplici e ingenue paginette che si danno arie di insegnar loro qualcosa del Cristianesimo, discutono circa la giustizia e si mettono a difendere le ragioni umane dei loro dipendenti.
Gli impiegati poi si lamentano perchè tutti sul giornale si trovano accomunati in una cordiale poco rispettosa considerazione. Diamo atto alle ottime e generose eccezioni, e gli operai le conoscono bene queste eccezioni e quando capita la buona occasione hanno manifestato la loro simpatia, però è anche vero che il mondo degli impiegati ha molte cose da rivedere nei confronti del mondo operaio. A poco a poco sono andate sistemandosi mentalità di privilegio che hanno operato scelte di posizioni a interesse individualistico, a tutto scapito di una solidarietà con tutto il resto del mondo del lavoro e dei suoi problemi.
Il giornale non l'ha con gli impiegati, soltanto si permette di dire le cose con chiarezza, sia su un piano generale, che nei casi particolari che possano capitare, nella speranza che i valori umani crescano d'importanza nelle categorie impiegatizie, a tutto vantaggio di una maggiore solidarietà e rispetto in tutto il mondo del lavoro.
E possibilmente gli operai cerchino di non creare difficoltà al loro giornale pretendendo che possa accontentare tutti: trattare i problemi operai vuol dire spesso mettere le mani in un vespaio; non è possibile che non si suscitino discussioni e polemiche, perchè spesso i punti di vista e le posizioni sono contrastanti e opposte. In ogni problema affrontato su un piano generale non possiamo tener conto di questioni particolari e tanto più di cose passate. Sta il fatto che non scriviamo per spirito di parte, in nessun modo, assolutamente, e non vogliamo servire altra causa che quella della dignità dell'uomo e della sua libertà.
Preghiamo vivamente gli operai - e chiunque altro -a non servirsi del giornale e dell'autorità che può avere, per scopi di parte, per affermare e sostenere antagonismi, creando divisioni laddove il giornale è fatto apposta per ottenere una solidarietà, un rispetto, insieme alla libertà nella difesa e nell'affermazione di tutti i valori umani.
Il direttore responsabile
ai commendatori, grandi ufficiali, ai cavalieri, ai ricchi, ai potenti ecc.
«Ma, dicevamo, la storia cammina. Il Papa, se pur trova nella sovranità sullo stato della Città del Vaticano lo scudo e il segno della sua indipendenza da ogni autorità di questo mondo, non può e non deve ormai più che esercitare le potestà delle sue chiavi spirituali. Davanti a voi, quali eredi e rappresentanti delle antiche famiglie e categorie dirigenti della Roma papale e del. lo Stato pontificio, noi siamo ora a mani vuote; né siamo più in grado di conferire a voi uffici, benefici, privilegi, vantaggi derivanti dall'ordinamento di uno stato temporale, né siamo più in grado di accogliere i vostri servigi inerenti ad una amministrazione civile. CI SENTIAMO UMANAMENTE POVERI DINNANZI A VOI; nonostante la nostra riconoscenza per la vostra tradizionale fedeltà e per le vostre volenterose prestazioni, e nonostante la stima e l'affezione, che sempre nutriamo per voi, non possiamo più profittare, come un tempo, della vostra profana collaborazione. Diciamo questo con qualche esitazione; ecco, con qualche disagio interiore, temendo di non essere, o di non apparire abbastanza devoti alla tradizione e abbastanza riconoscenti verso le vostre benemerenze. Ma così veramente non è».
«Oggi il Papato, tutto assorbito nelle sue funzioni spirituali, si è prefissa un'attività apostolica, che possiamo dire più ampia e nuova rispetto a quella di un tempo. La sua missione religiosa prende forme e proporzioni, che non possono non modificare quelle sue strutture pratiche che i bisogni di altri tempi avevano suggerito essere opportune e necessarie. Il dovere, che incombe alla Santa Sede di attendere al governo della Chiesa universale e di venire a colloquio apostolico con il mondo moderno, oggi agitato da rapide e profonde trasformazioni, la obbliga ad una visione realistica delle cose, che le impone, anche dolorosamente talvolta, di sceverare e di preferire nel suo retaggio di istituzioni, e di consuetudini ciò che è essenziale e vitale, non già per dimenticare, ma per rinvigorire i suoi veri impegni tradizionali».
Paolo VI
Mensa del Cantiere navale M. & B. Benetti
Sono andato a vedere la mensa del cantiere navale M. e B. Benetti. Ogni mese, su «il nostro lavoro», vorrei descrivere una mensa aziendale o un refettorio che sia.
Ho cominciato con quella del cantiere Benetti perché è la più recente e forse la meglio attrezzata da ogni punto di vista.
Cinquanta metri avanti l'ingresso al cantiere, sulla sinistra, è il capannone in armatura di ferro e copertura di eternit e plastica.
Sotto la gran volta, subito all'ingresso, l'ampio spazio riservato al posteggio moto e biciclette. In fondo a destra l'ingresso alla mensa, a sinistra quello al magazzino alimentari e cucine. Più a fianco a sinistra, l'ingresso per i lavandini e le docce, sistemate in modo conveniente, ognuna ha dove spogliarsi e dove lavarsi, con ripari a tendaggi di plastica bianca. L'acqua calda è sempre pronta per via di un grosso bruciatore automatico che provvede anche al riscaldamento di tutti gli ambienti attraverso impianti ad aria condizionata.
E' l'ora di pranzo. Molti operai sono già ai tavoli di fòrmica, altri sono ancora in coda forniti di un largo vassoio di plastica sul quale accogliere il piatto della pasta, del secondo, il panino di 100 grammi, la bottiglietta del quartino di vino. Allo sportello della cucina quattro giovani ragazze provvedono al servizio.
La sala è molto riscaldata. E' linda, ben imbiancata, intorno alle pareti molti ingrandimenti fotografici di navi e vari del cantiere.
I tavoli sono quasi tutti occupati e trovo soddisfazione generale quando domando se tutto va bene. Il mangiare è discreto, mi dicono, e un'occhiata ai vassoi lo dimostra, perché, dopo i primi tempi, è diventato assai abbondante e distribuito a tutti con imparziale serietà.
E' di particolare interesse il fatto che un giorno per l'altro, l'operaio può segnare su una piccola tabella, di cui è fornito ogni tavolo, ciò che gli piacerebbe mangiare e può scegliere fra cinque tipi di minestra e fra tre tipi di secondo piatto, più poi fra diversi piatti freddi.
Il panino della razione è di 100 grammi : chi ne desidera ancora può acquistarlo a 15 lire il panino. Così anche per il vino, che viene ceduto a chi ne desidera di più oltre la razione, a 35 lire il quartino. La pasta è sempre in abbondanza e può essere richiesto gratuitamente il bis. E' a
disposizione, naturalmente a pagamento, formaggio, prosciutto, ecc. E con 30 lire si può chiudere il pranzo con un buon caffé espresso.
Mi sono rallegrato col cuoco, una persona simpatica e gentile, e lui mi ha detto (santo cielo, cosa si deve dire a un prete?): «Facciamo come comanda Dio!». E io non ho potuto che rispondere che sicuramente tutto allora sarebbe andato bene, in cucina.
La quota fissa è di 270 lire a pasto. Ciascun operaio è fornito di un tesserino sul quale a ogni pasto viene fatto un buco. Chi vuole può pagare immediatamente, o alla fine della settimana o della quindicina, o può chiedere che le spese della mensa gli siano trattenute sulla busta. Da notare che è stata continuata la corresponsione delle 50 lire per mancata mensa e quindi, in definitiva, il pranzo alla mensa aziendale all'operaio viene a costare 220 lire.
Tutta l'attrezzatura della mensa e della cucina è proprietà del Cantiere, come pure la manutenzione, l'esercizio della mensa e il personale occorrente è stato mandato dalla Società A.M.A. (appalto mense aziendali di Genova).
Dai tempi del tegamino scaldato sulla forgia o col cannello, per mangiare poi seduti su una pietra un bel cammino è stato fatto. E è doveroso darne atto, riconoscendo una sistemazione veramente ottima, rispondente a criteri di intelligenza e di umanità. In molti altri problemi non è stato fatto lo stesso cammino in avanti, ma questo è un altro discorso, assai più complesso e difficile, però me lo facevano molti operai seduti alla tavola di fòrmica, davanti a un bel risotto fumante, in quel calduccio simpatico di una giornata un po' fredda e piovosa.
No, non è perché gli operai non si contentano mai!
Ormai ero rimasto solo e parlavo con l'impiegato che ha avuto affidato l'incarico della sistemazione di questo reparto assistenziale del cantiere e al quale si è dedicato con tanta buona volontà: era l'una e la sirena aveva suonato l'inizio del lavoro (non è troppo breve un'ora soltanto d'interruzione a mezzogiorno?) e all'uscita mi ha fatto notare due distributori per miscela, benzina normale e super: dalle 5 alle 6, tutte le sere, vi è un incaricato per il rifornimento riservato ai dipendenti del cantiere: secondo la percentuale di olio la miscela costa meno da 14 a 28 lire al litro. A 11 lire meno viene la benzina normale e a 10 la super.
Una buona idea, non vi pare?
d. S.
Le scuole E.N.E.M. (Ente Nazionale Educazione Marinara) sono scuole professionali a carattere marinaro e abilitano alle qualifiche di motorista navale, padrone marittimo, operaio meccanico, marinaio autorizzato, elettricista, padrone al traffico, frigorista, capobarca e insomma a tutte le categorie specializzate del mare.
Purtroppo queste scuole, che per una città marinara come la nostra sarebbero una necessità, a Viareggio non esistono, con la conseguenza che i marittimi viareggini sono per lo più manovali del mare, col guadagno e la pensione di trenta o di venti quando potrebbe essere sessanta. Viareggio è capoluogo di uno dei compartimenti marittimi più grandi d'Italia ed è vergogna che per frequentare le scuole ENEM i nostri ragazzi debbano andare a Marina di Carrara o a Livorno, con tutti i disagi e le spese che ciò porta (e se una famiglia avvia un figlio alla sacrificante carriera marinara è ben difficile che sia una famiglia agiata). Il Comune quest'anno aveva offerto a questi ragazzi gli abbonamenti al treno, ma si sarebbe trattato di un palliativo, l'unica vera soluzione del problema resta l'istituzione delle scuole ENEM a Viareggio.
Si dice che ci sono già i finanziamenti e i progetti del Comune e dei ministeri competenti per una ottima scuola, comprendente specializzazioni che oggi si prendono solo a Genova, ma che non si riesce a trovare una sede adatta per impiantarci anche provvisoriamente i corsi; si era pensato di adoperare i locali del Gif in via Virgilio, ma non sono stati riconosciuti idonei dal medico provinciale. Così la pratica si è arenata.
Ma la questione non può morire così, va riaffrontata e si deve trovare il verso di risolverla, perché non si tratta di una scuola per privilegiati ma di un istituto necessario per una migliore qualificazione e un guadagno più giusto di molti giovani lavoratori della nostra città.
E. V.
Il problema dello sciopero, della sua legittimità e, soprattutto, della sua libertà ne pone un altro strettamente connesso: quello del «picchettaggio» .
Se è vero che con lo sciopero lo stato di tensione esistente fra datori di lavoro e lavoratori, frutto della coscienza di appartenere a categorie sociali portatrici di interessi contrapposti, raggiunge il suo apice, è anche vero, d'altra parte, che è proprio lo sciopero, momento di massimo impegno collettivo dei lavoratori, a portare in luce, drammaticamente, le fratture di mentalità e diremmo quasi di «vocazione» che si agitano al sottofondo della stessa classe operaia.
Uno sciopero è sempre manifestazione di autocoscienza e di impegno in senso collettivo di una minoranza qualificata e sensibilizzata della massa dei lavoratori, che si pone immediatamente come «élite» di guida della agitazione e che raccoglie, con ciò, il frutto e il significato della propria opera, svolta nella organizzazione sindacale.
A questo stimolo, una parte dei lavoratori reagiscono cercando una soluzione individuale e contingente dei propri problemi, allineandosi con gli |imprenditori: sono i «crumiri», che con il proprio atteggiamento testimoniano la fondamentale frattura esistente in campo operaio fra coloro che sono capaci di identificare il proprio interesse con quello della generalità e di impostare un'azione umana conseguente e fra coloro i quali sono incapaci di una coscienza del genere.
AI «crumiraggio» la massa più qualificata della classe operaia reagisce con il «picchettaggio», cioè con la affermazione - e la imposizione - sul luogo dello sciopero, della propria unità contro il fronte padronale. Si possono, anzi, distinguere due generi di «picchettaggio»: uno intimidatorio, che si verifica correntemente durante ogni sciopero, quando squadre di operai al cancello dell'azienda cercano di convincere i renitenti dell'ultima ora ad aderire all'agitazione, l'altro violento, quando acuitosi lo stato di tensione e divenuta ancor più necessaria l'unità dei lavoratori, si cerca di impedire con la forza il crumiraggio.
E' soprattutto verso il secondo tipo di «picchettaggio» che si indirizza il corrente giudizio negativo.
Ed infatti sarebbe estremamente più difficile scorgere alcunché di illegittimo nell'estremo tentativo, anche se organizzato, di convincere i compagni renitenti a partecipare allo sciopero (ma anche questo, del resto, non ha quasi mai impedito, sia pur certamente al fine di prevenire disordini, che i «picchettatori» si trovassero spesso sulle camionette della polizia).
Il biasimo verso il secondo tipo di «picchettaggio», invece, è generalmente comune. Si dice - e la considerazione ha a prima vista un certo valore - che se esiste ed è ammessa una libertà di sciopero, deve esistere ed essere tutelata una libertà di «non sciopero».
In termini individuali l'argomentazione è ineccepibile e, infatti, l'allontanamento violento dal luogo di lavoro di un lavoratore che non vuol scioperare viola la fondamentale libertà individuale di autodeterminazione e di autodecisione.
Sotto un profilo di classe, o di categoria, invece, la condanna diviene, a nostro parere, molto meno fondata. Ci si può chiedere se la libertà individuale giunga, o possa giungere, fino all'autolesionismo: ed è certo, ora, che il «crumiro» altro non compie, ignorando quelli che sono anche i suoi fondamentali interessi, che opera di autolesionismo. Ci si può chiedere, ancora, se la libertà individuale possa giungere fino al tradire i propri interessi e, soprattutto, fino a tradire, allo stesso tempo, gli interessi e la solidarietà della classe alla quale si appartiene.
Ci si può domandare, insomma, se il «picchettaggio» non abbia almeno, sul piano morale, l'attenuante dell'autodifesa, se, insomma, non sia comprensibile, forse scusabile il gesto di colui il quale, attraverso quello che indubbiamente è un atto di violenza, cerca di difendere, in extremis, l'utilità e il significato del proprio sacrificio contro un tradimento che viene dalla sua stessa parte.
Non vogliamo, con questo, incitare al «picchettaggio» e neppure dire che esso sia lecito, ma desideriamo sforzarci di vederlo sotto una luce nuova, che non sia quella della consueta aprioristica condanna.
Il discorso è fin troppo complesso e potrebbe concludersi soltanto distinguendo fra violenza primaria e violenza secondaria, fra violenza lecita e violenza non lecita. Particolarmente, dovrebbe concludersi in termine di responsabilità.
Dovremmo, cioè, riuscire a stabilire se, per caso, la responsabilità dell'atto violento di «picchettaggio» non sia proprio di colui che ne è la vittima apparente, di colui, cioè, che per cecità e per egoismo, non esita a tradire gli interessi della classe alla quale appartiene, pronto poi ad appropriarsi dei sacrifici dei compagni se questi avranno avuto successo.
Ancora dovremmo riuscire a stabilire se, per caso, la responsabilità del «picchettaggio» non ricada su coloro che, per mantenere la propria posizione di predominio, speculano sul «crumiraggio» e lo favoriscono.
Se, per caso, questa responsabilità non debba ricadere, nella sostanza, su coloro che creano gli stessi «crumiri».
E ci vien fatto di pensare, a questo proposito, all'atteggiamento di quegli imprenditori che, nel corso di uno sciopero, si preoccupavano di predisporre autobus con i quali caricare a casa propria i «crumiri» e trasportarli indenni in fabbrica, non certo allo scopo di assicurare la produzione, ma allo scopo manifesto di conseguire una prova di forza attraverso la simbolica manifestazione di mancanza d'unità fra i lavoratori.
Ci permettiamo rivolgere agli operai il fraterno invito a diventare donatori di sangue.
Nel 1963 soltanto il centro A.V.I.S. ha dato 124 Kg. di sangue con 487 trasfusioni.
Ma le richieste vanno aumentando in maniera vertiginosa. Ormai le trasfusioni di sangue sono diventate essenziali negli ospedali e riescono a salvare centinaia di vite umane e a prolungare esistenze già minate dal male.
E' urgente che cresca il numero dei donatori perchè possano essere esaudite tutte le richieste.
Secondo la statistica degli iscritti all'A.V.I.S., la stragrande maggioranza dei donatori sono operai e la cosa è veramente commovente: chi è povero e lavora duramente per guadagnarsi il pane è più sensibile a questa forma di meraviglioso Amore del prossimo e non esita a perdere mezza giornata di lavoro e a dare i suoi 250 grammi di sangue.
Gli iscritti all'A.V.I.S. sono circa 140, dei quali 87 sono operai, 16 impiegati, 3 studenti, 10 donne casalinghe, 4 professionisti, 19 commercianti e esercenti.
OPERAI, SIATE GENEROSI DELLA VOSTRA SALUTE A CHI HA BISOGNO COSI' ESTREMO DI VOI. Chiedete di essere donatori di sangue ed esigete che l'azienda dove siete al lavoro vi conceda la giornata di riposo e pagata, quando siete inviati a fare la trasfusione di sangue.
Informazioni pratiche sugli assegni familiari
Per gli assegni familiari della moglie
Per avere diritto agli assegni familiari è necessario che la moglie non abbia redditi superiori a Lire 13.000 mensili (o L. 18.000 se si tratta di redditi derivanti soltanto da pensioni). Perciò se la moglie lavora il marito non può percepire gli assegni familiari. Però nel caso che la moglie resti assente dal lavoro per malattia o per maternità, il lavoratore può percepire gli Assegni familiari della moglie per quei mesi nei quali il reddito di lavoro non ha superato L. 13.000. Sono infatti escluse da questo calcolo le indennità di malattia e maternità perchè non sono considerate come reddito di lavoro.
Per i figli
Anche per i figli sotto i 18 anni i limiti di reddito sono di L. 13.000 (o di L. 18.000 se derivano esclusivamente da pensioni). Ma se un figlio lavora alle dipendenze di terzi ed è assunto con la qualifica di «apprendista» o come allievo dei corsi di addestramento per disoccupati e dei cantieri scuola di lavoro, il padre può percepire per lui gli assegni familiari indipendentemente da quello che guadagna.
Per i genitori
Per avere diritto agli assegni familiari per i genitori è necessario che questi abbiano compiuto 60 anni (il padre) o 55 anni (la madre) e che non superino i seguenti limiti di reddito: per i due genitori L. 33.000 mensili se questa cifra deriva esclusivamente da pensioni (L. 20.000 se deriva da altre fonti come terreni, case, ecc.); nel caso di un solo genitore L. 18.000 mensili se da sola pensione (L. 13.000 se deriva da altre fonti).
Si può verificare il caso in cui il padre del lavoratore sia disoccupato e la madre sia invalida o abbia già compiuto 55 anni: in questo caso il figlio può avere gli assegni familiari per la madre.
REDDITI DA ESCLUDERE
Nel calcolo dei redditi a cui abbiamo accennato per il diritto agli assegni familiari devono essere esclusi: i redditi derivanti da pensioni dirette di guerra, infortunio sul lavoro o malattia professionale; devono essere esclusi anche gli assegni dello Stato ai ciechi civili e il sussidio ai profughi.
PERIODI NEI QUALI VENGONO CORRISPOSTI GLI ASSEGNI FAMILIARI
Gli assegni familiari spettano oltre che per i periodi di lavoro normalmente prestato, anche nei seguenti casi: periodo di prova, ferie, congedo matrimoniale, preavviso e giorni festivi (escluse le domeniche). La corresponsione degli assegni familiari continua anche nei seguenti casi di assenza dal lavoro:
1) per infortunio sul lavoro o malattia professionale: per un periodo di tre mesi;
2) per malattia: per tutto il tempo in cui sia corrisposta l'indennità di malattia (sei mesi);
3) per i periodi di ricovero in sanatorio - purché l'interessato non percepisca indennità sanatoriali: il lavoratore ha facoltà di scegliere il trattamento più favorevole.
4) per i periodi di assenza dal lavoro per maternità: secondo le vigenti disposizioni di legge.
Gli arretrati degli assegni familiari possono essere richiesti con un limite massimo di due anni precedenti il mese in cui è presentata la domanda.
E. C.
Una legge da cambiare
I lavoratori del mare del Tirreno meridionale, fino al compartimento di Portoferraio incluso, traggono vantaggi e benefici dalla Cassa del Mezzogiorno; quelli della Liguria godono delle previdenze della legge per l'Alto Tirreno; solo i compartimenti di Viareggio e Livorno, in tutta la costa occidentale italiana, sono privi di ogni tutela. E' un'esclusione senza giustificazione, una situazione che deve essere eliminata: a meno che non si ritenga che la soluzione migliore sia quella che arrangiano, quando gli riesce, i pescatori e i marittimi viareggini: tenere la residenza legale fasulla nel Mezzogiorno.
E. V.
E' con vivo piacere che noi, operai del Cantiere F.lli Benetti, annunciamo il termine delle agitazioni e il raggiungimento di un accordo aziendale che ha soddisfatto le maestranze e ha ridato ritmo lavorativo all'azienda travagliata da anta sofferenza in quei giorni di agitazione.
A tutti quelli che ci hanno seguiti e aiutati con simpatia, vada il nostro sincero ringraziamento e quello delle nostre famiglie, mentre alla Direzione del Cantiere formuliamo l'augurio che l'avvenire riserbi alla ditta proficuo lavoro in un clima di sereni rapporti con tutti i dipendenti.
Prendiamo atto della buona volontà della Direzione, alla quale assicuriamo la nostra. Noi operai siamo nati tali e l'avvenire non ci prospetta cose migliori oltre al lavoro ed è questo che noi vogliamo per mandare avanti le nostre famiglie.
Se ricorriamo allo sciopero - l'unica arma in nostre mani, del resto convinti, che è a doppio taglio - è perchè ci veniamo spinti da pressanti e gravissimi motivi. Non c'è altra ragione. Bisognerebbe che in certe situazioni ognuno si immedesimasse nell'altro cercando di essere comprensivo dei problemi altrui. Si eviterebbe così di giungere a punti tanto dolorosi per tutti.
Comunque quel che è stato è stato. Tutto è finito in maniera abbastanza buona si da poter ricominciare uniti come una grande famiglia.
Si vivrà meglio, si lavorerà di più perchè lo faremo volentieri e sarà un gran bene anche per l'azienda alla quale del resto auguriamo di fare sempre ottimi affari, convinti che gli stessi lo saranno anche per noi.
La Commissione Interna
"Pensiamo che tra l'uomo moderno in cerca di elevazione e di pienezza, tra voi lavoratori specialmente che dell'uomo moderno siete, sotto molti aspetti, i rappresentanti qualificati, e Gesù Cristo, il bambino silenzioso, povero e inerme, il 'figlio dell'uomo' posto al centro della storia e della profezia, tra voi, diciamo, e Cristo esiste una simpatia profonda, una parentela naturale, una corrispondenza congeniale che attende di essere riscoperta, perché la gioia, la energia, la speranza, la pace, il vero e perfetto umanesimo, in una parola, abbia a inondare il mondo. Attende di essere riscoperto il rapporto tra Cristo e l'uomo; tra Gesù e l'atteggiamento di lavoratore, assunto come tipico della società contemporanea".
Paolo VI
E' un problema molto serio, gravissimo e anche scottante per tanta gente che, messasi a posto la coscienza perchè è stata rispettata la legge e perchè tutto è stato fatto in base alle ragioni economiche, e più precisamente del guadagno e del profitto (e il profitto è sempre onesto proprio perchè è profitto, come si pensa comunemente con una mentalità utilitaristica a costo di tutto), si sente nel pieno diritto di usare delle persone umane alle proprie dipendenze, dimenticandosi serenamente che si tratta di persone umane, considerandole invece attrezzi da lavoro, macchinari da produzione, fonti di guadagno, roba da sfruttare.
Il discorso quindi è difficile perchè è praticamente impossibile non urtare contro un costume fatto resistente e tenace dall'interesse e contro una mentalità di privilegio che non vuol cedere davanti ad una liberazione dell'uomo dal giogo di una schiavitù che, se non è più come nelle forme antiche, permane però, sottile e raffinata, nella metodica più o meno visibile del mondo padronale e della dirigenza in un complesso di leggi che codificano sistemi di rapporti poco umani, in mentalità ormai correnti e normalizzate anche presso organizzazioni che, o per amore o per forza, accettano le situazioni così come sono, anche se in contrasto con i loro principi e con i loro doveri, e più ancora permane, con facilitazioni disumane, nelle situazioni di bisogno e di fame che, dove sussistono, sono come la catena al piede degli schiavi antichi, né più né meno.
Vi è poi anche la difficoltà dello scontrarsi con le ragioni economiche, le urgenze della produzione, il buon andamento dell'azienda, le leggi di mercato, la necessità assoluta del maggior profitto, e tanti altri motivi che hanno innegabilmente la loro importanza, ma che poi praticamente,chissà perchè, debbono inevitabilmente comportare pesanti e gravose conseguenze soltanto per i lavoratori.
In ogni modo non sottovalutiamo la complessità del problema, confessiamo di non essere nemmeno all'altezza di afferrarne tutta la misura: rimangono però scoperti, come piaghe sfasciate, problemi troppo dolorosi e situazioni troppo ingiuste e spesso quasi disumanizzate, da rendere doveroso il raccoglierle e il denunciarle, se non altro, per la speranza che in qualche modo possano essere alleviate, e per adempimento di un dovere di servire, a costo di tutto, la giustizia e la libertà.
Ciò che può e deve essere detto, circa il problema della discriminazione negli ambienti di lavoro, può essere molto, e penso che dovremmo rifarci a mentalità di differenziazione umana che permangono ancora tenacemente nella nostra società. E' una vecchia mala pianta difficile a sradicarsi, quella del distinguere gli esseri umani e fare quindi separazioni, piani diversi, sistemazioni sociali, distinzione di classi, ecc. E la storia qui, più che in ogni altro problema umano, gronda fiumi di sangue e di lacrime e oceani di angoscia e di disperazione e abissi infiniti di ingiustizia e di disumanità.
Anche un accenno storico risulterebbe lunghissimo. Sta il fatto che ogni popolo ha le sue colpe, ogni civiltà le sue aberrazioni. Dai tempi iniziali dell'epoca storica fino ai giorni nostri in cui l'esplosione razzista ha raggiunto limiti inimmaginabili di orribile crudeltà, l'istinto del privilegio di popolo, di civiltà, di casta, di famiglia, di razza, di economia, di cultura e anche di religione, ecc., ha comportato per l'umanità le ingiustizie più orrende che potevano essere commesse.
Crediamo doveroso ribellarci contro l'obbedienza a questo maledetto istinto del privilegio, dovunque possa affacciarsi, perchè è certo che privilegio significa ingiustizia, per realizzarsi non può che servirsi della sopraffazione e quindi della violenza, perchè per creare i propri privilegi bisogna abbassare gli altri, è necessario ridurli in uno stato di servizio, e perchè questa situazione possa essere ottenuta, è giustificato avvilirli considerandoli esseri inferiori, condannati a servire o a essere spazzati via.
Da noi, buon sangue latino, non ha attecchito il razzismo nemmeno a quei tempi. Ci ribella ogni discriminazione razziale dovunque avvenga. Le forme impazzite fino al fanatismo ideologico di discriminazione umana ci disgustane, però siamo portati con tentazione irresistibile al privilegio individuale, personale, di famiglia, di posizione sociale, di prestigio economico, ecc.
E' di qui che provengono le cause di tutta una immoralità di mentalità e di rapporti. E' così che si fanno le coscienze capaci disinvoltamente di avanzare qualsiasi diritto personale. Le differenziazioni vengono poi da sè con stratificazioni più o meno marcate, ma sempre dolorose e ingiuste.
E si separano accuratamente quelli che non possono stare sul nostro piano, che non possono essere del nostro rango.
Dall'alto del nostro privilegio, allora, giudichiamo « gli altri », quelli che stanno sotto.
E' strano, ma subito si pensa che questi, per una assurda condanna, sono come destinati a servire, quindi è logico e giusto e normale che servano.
E quindi se ne usa liberamente, con serena coscienza, senza scrupoli nè incertezze. Il rapporto è fra superiori e inferiori, fra chi comanda e chi deve obbedire, fra chi è tutto e chi è nulla: un povero zero che serve soltanto per aumentare per dieci le cifre che gli altri assommano sul proprio privilegio.
E questa nostra civiltà, anche se con una coscienza un po' più incerta e tormentata del passato, continua a vivacchiare assai disinvoltamente su differenziazioni impressionanti, su discriminazioni preconcette e interessate che riescono ancora a tener salde posizioni di privilegio e, al disotto, posizioni di servaggio.
E' chiaro che noi non siamo per il rovesciamento di queste posizioni, in modo che al posto di una vada l'altra, come nella storia è pressappoco sempre avvenuto, siamo però per la liberazione dell'uomo da qualsiasi forma di menomazione e di avvilimento della dignità dell'essere umano.
Il cammino di questa liberazione è lungo, perchè sono troppi e troppo spietati e violenti gli egoismi che intendono ad ogni costo conservare privilegi, e quindi schiavitù più o meno mascherate per conservare possibilità e metodi di sfruttamento dell'uomo sull'uomo, e sono troppi, e troppo ancora senza volontà e capacità di autentica liberazione, i servilismi del nostro tempo: sono troppi ancora quelli che si lasciano comprare, che si adattano alla prepotenza, che vivono sul privilegio dei privilegiati come le ostriche attaccate allo scoglio, che acconsentono di essere strumentalizzati perchè chi domina possa continuare a dominare. E sono troppe ancora le istituzioni prodotte dalla civiltà passata che campano sul terreno del privilegio come se diversamente non potessero vivere: da quelle militari alle politiche, da certe tradizioni religiose, a formazioni culturali e a tutto un costume spicciolo che va dal buon cavaliere alla vecchia signora di buona e onorata famiglia.
Noi vogliamo occuparci, come è logico, della discriminazione nell'ambiente di lavoro. Cerchiamo di fare qualcosa per il superamento delle distanze fra mondo padronale, impiegatizio, operaio. Lavoriamo per un avvicinamento e una comprensione umana e per un rispetto vicendevole, e quindi per una autentica liberazione dell'uomo da chiusure egoistiche, di privilegio e di vantaggio economico e sociale e da umiliazioni- di servaggio inutile e avvilente, di discriminazioni e differenziazioni ingiuste e disumane.
Perchè in tutti e dovunque vi è bisogno di libertà.
I problemi da affrontare nel mondo operaio, nell'andamento delle aziende, determinati da una discriminazione che arriva fino a un vero e proprio sistema di sfruttamento dell'uomo, per un approfittarsi di certe sue particolari condizioni di depressione e di bisogno, sono moltissimi.
Non possiamo affrontarli tutti in una volta, anche per evitare che il discorso rimanga frammentario e confuso per il dover dire troppe cose.
Ho cercato di dire una parola circa il problema umano dei manovali.
Li ho guardati sempre con particolare simpatia nelle aziende dove sono stato uno di loro, anche se sul libretto di lavoro mi avevano fatto la considerazione particolare di scriversi « manovale specializzato ».
Varchiamo il cancello di un'azienda qualsiasi, una che abbia un certo numero di dipendenti e sia impegnata in una produzione molto varia.
Non sarà difficile notare subito le diverse mansioni. I manovali comuni. I manovali specializzati. Gli operai qualificati. Quelli specializzati. I capi gruppo, i capi squadra, i capi reparto, i dirigenti di azienda e del personale. Gli impiegati d'amministrazione e tecnici, con tutte le differenze d'importanza derivante dall'avere l'ufficio più o meno vicino a quello del direttore o dalla misura in cui è nelle grazie del principale o padrone che dir si voglia. (So di un direttore che rende il buon giorno soltanto agli impiegati fino a un certo grado d'importanza).
E' chiaro che queste differenziazioni di mano d'opera sono necessarie e inevitabili. Sarebbe assurdo pensare diversamente. Però non si capisce perchè la diversa attività debba inevitabilmente comportare una diversa valutazione umana, fino al punto che non è eccessivo dire che certi lavori di manovalanza faticosi, pesanti e spesso abbrutenti, rendono spregevole anche chi li compie e vi si ammazza sotto. Lavori che non richiedono particolari qualità d'intelligenza: quindi chi li fa può non essere considerato un uomo intelligente, il che spesso vuol dire, non un uomo meritevole di tutto il rispetto e può essere trattato tranquillamente come una pezza da piedi. Siccome lavora soltanto di braccia e di schiena e alla sera ha le spalle rotte e le reni spezzate, quello è un mulo necessariamente e gli si può chiedere e comandare tutto e deve sempre dire di sì e trotterellare, alla frusta, dalla mattina alla sera.
Lavora di più, è più bastonato dalla fatica, più maltrattato dai compagni di lavoro e specialmente dai capi, e guadagna di meno.
E' ingiusto che il manovale abbia la paga oraria più bassa, che quasi sempre sia escluso dal cottimo o abbia percentuali minime e è ingiusto, povero vecchio sfatto, che poi abbia quella miseria di pensione perchè è stabilito dalla legge che il manovale mangi poco e male quando è in condizioni di lavoro e mangi poco e male quando è in pensione, come se il suo stomaco non fosse uguale a quello dell'operaio specializzato, del ragioniere e del direttore.
E è anche ingiusto che il manovale, perchè il mercato di mano d'opera non specializzata è spesso abbondante, viva sempre sotto la minaccia del licenziamento, un vero e proprio ricatto che rende possibili maltrattamenti e pretese eccessive, da ingollarsi in silenzio e a testa bassa.
Il discorso diventa duro, lo sento bene e forse cattivo. E senza dubbio mi si dirà che queste considerazioni sono idealismi e sentimentalismi. E che i problemi vanno visti in pratica, con criteri concreti, oggettivi, di calcolo freddo fatto con la calcolatrice, non col cuore. E che la inevitabile e necessaria differenziazione della prestazione d'opera per il buon andamento economico (che evidentemente è quello che conta in misura assoluta) dell'azienda deve essere fatta col criterio del profitto.
Tutti motivi molto importanti ma che, in parole spicciole, sarebbe come dire: tu vali, conti, ti considero, ti apprezzo in proporzione a quanto mi fai guadagnare in moneta sonante.
0 meglio ancora: tu sei un uomo più o meno secondo quanto altri uomini riescono a guadagnare con te, con la tua fatica, le tue mani rotte, la tua schiena spezzata.
Non sarebbe più giusto e più umano tener presente che ogni attività compiuta nell'azienda ha la sua parte indispensabile e insostituibile per il suo buon andamento? E non sarebbe più giusto e umano considerare che chi dà otto ore ogni giorno (e quindi 40 e più anni) all'azienda dà otto ore e tutta una vita umana meritevole di rispetto e giusta valutazione come ogni altra vita umana?
E se il criterio di profitto vuol essere usato, non deve essere una bilancia che pesa al milligrammo un essere umano per sapere quanto rende in contanti per poi ripagarlo di considerazione e di stima e con la busta della quindicina secondo quel peso e basta.
Perchè allora è il guadagno, è l'egoismo, la ragione economica che regola i rapporti fra gli uomini, determina l'apprezzamento o il deprezzamento, il considerarli più uomini o meno uomini.
Questo criterio di valutazione umana quando si trova in condizioni di poter essere applicato freddamente e spietatamente, perchè la legislazione non riesce a contenerlo e le istituzioni di difesa umana non hanno forza sufficiente per combatterlo e impedirlo, comporta dovunque, ma specialmente nelle aziende, le peggiori discriminazioni, le divisioni più ringhiose, gli odii più spietati fra gli operai stessi, fra gli operai e la dirigenza.
E normalizza ingiustizie pesanti che si trascinano spesso per lunghi anni perchè il passaggio di qualifica non arriva mai, perchè la specializzazione rimane un sogno, con le conseguenze sulla paga che tutti sanno. Il lavoro compiuto, le mansioni svolte sono già da tanto tempo da qualificato o da specializzato, ma sul cartellino vi rimane scritto « manovale » e sulla busta vi è la paga del manovale e, povero vecchio sfatto, la pensione sarà quella del manovale.
Sappiamo bene da chi e da che cosa dipende questo triste stato di fatto e anche perchè le cose continuano ad andare così nonostante le stanche proteste e i profondi risentimenti degli interessati, mi pare però doveroso notare che spesso anche gli operai sono responsabili di questa odiosa discriminazione fondata sul profitto. ,
Bisogna essere chiari: sono molti, troppi, gli operai che guardano soltanto a cosa c'è dentro la propria busta e non importa loro per niente cosa c'è nella busta degli altri, a meno che non abbiano l'impressione che qualcuno abbia una busta più piena della propria.
Capita che anche gli specializzati e i qualificati abbiano interesse a certe discriminazioni per tutto un vantaggio che a loro può venirne: perchè il privilegio è una tentazione irresistibile per tutti quando può fruttare quattrini. .
E succede che i colleghi di ufficio tentino di tenere sotto i piedi altri colleghi, meno dotati di furbizia o anche di capacità. E lo specializzato succede che si approfitti del manovale perchè è un pover'uomo o impasticci difficoltà a dare il mestiere a chi potrebbe domani creargli delle concorrenze, ecc. Gli operai devono sapere e ricordare che, in definitiva, è a tutto loro danno, umano ed economico, vivere in un ambiente di lavoro come degli antagonisti, dei concorrenti, dei rivali e che è disonesto cercare di dare ai compagni di lavoro lo sgambetto, tentare di scavalcare danneggiando altri, tenere a bada e possibilmente ai ferri corti, chi è legato alla dura catena del bisogno, umiliando e approfittandosene per i propri tornaconti.
E' perchè spesso sono così i rapporti fra compagni di lavoro, che poi la dirigenza riesce a fare quelle discriminazioni così ingiuste ma che servono magnificamente al capitale che cerca in tutti i modi di dividere per poi più comodamente imperare.
Gli operai, prima che in ogni altro modo, devono lottare contro l'ingiustizia della discriminazione, abolendola fra loro per mezzo di un forte spirito di solidarietà capace di rispetto vicendevole e d'impegno serio perchè la dignità di ogni lavoratore e quindi del lavoro stesso, sia difesa e affermata contro qualsiasi manovra di menomazione o di avvilimento.
E penso al Cristianesimo che ci comanda che il prossimo, cioè ogni essere umano, deve essere amato come amiamo noi stessi, perchè siamo tutti figli di Dio, partecipi della stessa dignità umana e divina, resi uguali, veramente fratelli, da uno stesso identico destino.
E' un insegnamento, è vero, molto coraggioso, certamente potrà essere considerato antieconomico e utopistico, rimane però l'unica possibilità data agli uomini di vivere in pace, come fratelli, con la sicura speranza di un po' di vera felicità anche in questo mondo tanto travagliato.
don Sirio
E' capitato proprio in questi giorni un esempio pratico di questa discriminazione o differenziazione fra operai che lavorano nella stessa azienda. Peccato che per ovvie ragioni (i licenziamenti sono sempre possibili per quelli operai che vengono individuati come elementi troppo accesi nel difendere i propri diritti) non possiamo pubblicare una lettera che ci è stata inviata.
Riassumiamo in tre punti questa penosa situazione.
Nella fabbrica di mattonelle dell'azienda «Pavimenti Apuani» le cose stanno così: le operaie qualificate «piastrellaie» lavorano al macchinario automatico, moderno, di grande produzione e guadagnano bene. Altre operaie qualificate «stucchine» lavorano ad altro macchinario che facendo lavori di rifinitura e di stuccatura viene considerato forse su un piano di minore valore produttivo e quindi guadagnano molto meno.
Non sappiamo bene (ma la cosa non può interessare a noi bensì ai sindacati) quanto è questa differenza di paga e se dipende dal contratto di lavoro o dalla personale discriminazione del dirigente. Noi ci occupiamo del problema umano e ne soffriamo come di una vera e propria ingiustizia, tanto più che, punto secondo, queste qualificate stucchine, con tranquilla disinvoltura, vengono comandate sul piazzale, a caricare di mattonelle autotreni e vagoni: sette ore su otto di caricamento non può essere un lavoro da donne, anche se sono operaie, cioè carne da lavoro.
Ricordo quest'estate quando ho lavorato con i portuali: ero a scaricare autotreni di mattonelle e imbarcare sulle navi. So bene quanto è lavoro duro, pesante, da induriti manovali, non davvero adatto alle donne, anche se operaie, cioè carne da lavoro, come si diceva qui sopra.
Naturalmente la paga è quella che è, perchè la gravosità, e anche il fare lavori non dovuti, non può comportare riconoscimenti particolari!
Anzi, e siamo al terzo punto, non è stato possibile nemmeno andare a sostenere, con tutto il rispetto dovuto, le proprie ragioni.
Il datore di lavoro si è rifiutato di ricevere una rappresentanza operaia, lasciando ingozzite dalla umiliazione, e forse da un nodo di pianto, quelle povere donne che chiedevano di essere ascoltate per il diritto che hanno tutti gli esseri umani di poter dire le proprie ragioni e per il diritto che hanno gli operai di discutere con i dirigenti i propri problemi.
Ci dispiace: ma dato che il dirigente dei Pavimenti Apuani non ha voluto ricevere quella rappresentanza operaia per non ascoltare le loro ragioni, noi ci permettiamo di fargliele giungere attraverso il nostro giornale pregandolo vivamente di voler prendere, con vivo senso umano, in considerazione quei tre punti di cui sopra, nella speranza che possano essere dissipati malumori e risentimenti vicendevoli fra gli operai della sua azienda e fra gli operai e il datore di lavoro.
«Stamattina devo ricevere dei cardinali, alcuni principi e degli importanti esponenti del governo. Ma oggi pomeriggio, voglio trascorrere qualche minuto con degli uomini qualunque che non abbiano altro titolo al di fuori della loro dignità di esseri umani e di figli di Dio».
GIOVANNI XXIII
«Ho chiesto alle nuove reclute della guardia svizzera di venire a bere un bicchiere con me questo pomeriggio, per fare reciproca conoscenza».
GIOVANNI XXIII
Le offerte degli operai che ci sono pervenute sono:
- Rubinetterie Ponsi L. 9.285
- F.E.R.V.E.T. L. 10.490
- Escavazione porto L. 4.500
- Meccanici Uniti L. 5.650
Di questo numero sono state tirate 5.000 copie
Hanno collaborato a questo numero: Angelo Barsella - Elena Cinquini - Sandro Ricci - don Sirio - Enrico Vettori - Commissione Interna Cantieri F.lli Benetti.
direttore responsabile: Sirio Politi - Lungo Canale Est 37, telef. 46.455 - Viareggio
Autorizzazione del Tribunale di Lucca n. 173 del 14 Giugno 1963
Tipografia A, Bertolozzi - Viareggio - Telef. 25.23
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455