Ho sempre pensato che il lavoro - specialmente il duro lavoro materiale quotidiano, spremuto dai muscoli e irrorato dal sudore, fatto di fatica e di logorio di energie - sia problema umano misterioso e terribile come la malattia e la morte. E non per nulla la Religione lo considera come una condanna a seguito e a conseguenza del male, del peccato.
Porta in sé qualcosa della maledizione. Non può quindi non pesare, non opprimere, non soffocare. E' inevitabile che sia sentito come una catena al piede, come un morso spietato fra i denti, come un giogo pesante sul collo, come una schiavitù opprimente il bisogno di libertà.
Fa parte il lavoro della condizione umana disperatamente bisognosa di liberazione e di redenzione e è sicuramente per questo che il Figlio di Dio facendosi uomo per quasi tutta la Sua vita è vissuto in questa condizione di schiavitù del lavoro, ne ha accettato il peso e l'oppressione fino a tirar fuori dal lavoro delle Sue mani il mangiare per Sé e Sua Madre, Lui il Padrone dell'universo.
Non può e non deve sorprendere allora la scontentezza permanente del mondo operaio. Hanno ragione gli operai a sentire il peso e l'oppressione del loro lavoro. Come avevano ragione gli schiavi a mordere le loro catene.
E il diritto di cercare una liberazione è chiaro e sacro. E' un autentico dovere. Anche se non avvertito e conosciuto nel suo risalire al peccato originale commesso da Adamo e Eva e continuato e così vissuto nell'egoismo spaventoso di tutti gli uomini - questo dovere di cercare una liberazione rientra nel fatto religioso cristiano di redenzione, compiuto dalla morte di Gesù sulla Croce. Ed è per questo che crediamo, noi cristiani, che Gesù ci ha liberato dalla schiavitù, da ogni e qualsiasi schiavitù, rendendoci liberi figli di Dio.
Dalla schiavitù del male e del peccato ma anche dalle conseguenze di questa schiavitù.
E' vero che gli uomini sentono molto e ne soffrono terribilmente di queste conseguenze e vorrebbero liberarsene, mentre si dimenticano e non si preoccupano di liberarsi da ciò che è causa di queste conseguenze. Si lamentano e si risentono per i frutti acerbi e selvatici e non guardano invece alla radice dell'albero e tanto meno lì mettono la scure.
Però rimane vero che lottare e cercare con tutte le proprie forze di sollevarsi da una situazione di condanna e liberarsene più che sia possibile è sempre azione religiosa e cristiana.
Da oltre un secolo in maniera organizzata e cosciente (ma da sempre più o meno individualmente) i lavoratori cercano questa liberazione dalla schiavitù del lavoro.
E' tentativo di migliorare le condizioni di lavoro. E' rivendicazione di rispetto e di valutazione della persona umana. E' ricerca continua di vendere sempre meglio il proprio sudore e la propria giornata e quindi la propria esistenza. E' avanzare il diritto che sempre più il proprio lavoro sia lavoro di uomo libero e non di uno schiavo. E' cercare di rendere l'ambiente di lavoro una famiglia dove tutti fanno il loro dovere e non una galera. E' tentare di andare al lavoro con una sicurezza di tranquillità e non tremando di paura. E' per riuscire a realizzare un rapporto umano di fraternità e di collaborazione. E' per impedire che tu faccia del lusso e la bella vita spremendomi come un limone fino all'ultima goccia.
E' per impedire che imperversi l'ingiustizia e rimanga come condizione ormai normale e definitiva di questa povera condizione umana... è insomma lotta, sofferenza, sacrificio, croce per una liberazione, per una redenzione, per una affermazione di valori.
D'accordo che è su un piano storico, materiale, di benessere terreno, di rivendicazioni temporali ecc., ma la liberazione non può non cominciare dal basso, dai valori più immediati, dalle situazioni più sentite e sofferte.
Nel secolo XX siamo ancora, in gran parte e in tanti paesi del mondo in maniera totale, siamo ancora a lottare per una liberazione a livello animale, per una liberazione dalla fame. Si lotta ancora per mangiare a sufficienza. In altri paesi per avere una casa per la propria famiglia. In altri per il minimo di benessere offerto dal progresso.
Siamo ancora lontani dalla ricerca di una liberazione su un piano sociale, spirituale, religioso.
Siamo però sulla strada anche se sarà lunga di millenni. Intanto però l'operaio, deve sapere che è in nome di Dio che ha il diritto e il dovere di impegnarsi in una seria ricerca di miglioramento di vita, di smaterializzazione dei propri problemi, liberandoli più che sia possibile dal soffocamento che deriva dal lavorare per il solo mangiare per se e per i suoi figli e tanto più dalla situazione che metta in forse anche lo stesso mangiare.
E' cristianesimo questo impegno e questa volontà di liberazione e di redenzione anche se nelle sue realtà più terrene, come fu Cristianesimo lo spezzare le catene della schiavitù ai tempi di Roma pagana, duemila anni fa.
Evidentemente la liberazione dell'umanità non si fa in un giorno. Forse è come un piccolo seme, direbbe Gesù, che cresce e cresce fino a diventare albero e coprire tutta la terra.
don Sirio
Allo scalo merci della Stazione ferroviaria ogni mattina succede un piccolo dramma dalle 7,25 alle 7,30.
Il treno che viene da Lucca scarica allo scalo un buon gruppo di operai e operaie che lavorano nelle aziende a nord della ferrovia. Mancano pochissimi minuti a timbrare il cartellino per l'entrata al lavoro. Basterebbero, se dalla stazione dello scalo si potesse correre direttamente allo stabilimento.
Ma il guaio è che il treno si ferma alla prima banchina della stazione e per andare a nord bisogna attraversare i binari. La qual cosa è severamente proibita (con ragione). Le ammende vanno da 3000 a 7000 lire. Spesso la polizia ferroviaria è lì a fare il suo dovere e già diverse volte sono successe cose incresciose. D'altra parte un operaio non può cominciare la giornata pagando una contravvenzione da 3 a 7000 lire.
Allora gli operai devono fare tutto il giro del cavalcavia e naturalmente a piedi: occorrono almeno 10-15 minuti.
Alla sera succede la solita storia e per quei minuti necessari a fare tutto il giro del cavalcavia, gli operai perdono il treno giusto e devono rimanere in stazione oltre un'ora.
Ormai la stazione scalo è la stazione operaia. Bisogna che sia sistemata in modo che serva agli operai e faciliti il loro afflusso al lavoro. E' un problema umano da risolvere.
Si rende necessario un sottopassaggio o almeno una passerella di legno o... togliere la proibizione di attraversare i binari!
L'Amministrazione Comunale discuta con la Direzione delle Ferrovie e cerchi di provvedere: un giardino di meno, se è necessario, ma una passerella di più per gli operai che vengono a lavorare nella nostra città, non può che essere a lode di una Amministrazione intelligente.
Tra poco tempo vi sarà l'inaugurazione ufficiale del nuovo stabilimento. Ma già diversi reparti hanno abbandonato quel triste e pesante caseggiato di Via Pucci. Grigio e soffocante anche soltanto a vederlo, all'interno levava letteralmente il respiro: non vi era un angolo libero, non un metro quadrato sgombro, quasi da non trovare dove mettere i piedi. Entrando era come se uno avesse tutto il macchinario e tutto il rumore assordante addosso, come un peso terribile, fino a dare l'impressione di rimanere schiacciati.
Vi devono avere sofferto molto gli operai in quella vecchia officina, alla fonderia, alla pulitura. Una sofferenza forse nemmeno avvertita più perché ovattata dall'abitudine, fino ad essere scontata da sempre, quasi ormai acquisita e connaturata con se stessi, ma proprio per questo pesante e opprimente, sull'anima, come qualcosa d'inevitabile.
Ve n'è tanta di questa sofferenza nei mondo operaio. Generalmente è un po' come la strada sulla quale si cammina, è l'aria che si respira, è il clima normale, dentro le aziende. E quasi sempre questo angoscioso problema di sofferenza generica, ormai accettata e normalizzata, viene risolto ricorrendo al fatto che gli operai vi sono abituati. Come se l'abitudine togliesse la sofferenza o non ne facesse invece una continuità, una situazione permanente penosa e triste.
E' chiaro e risaputo che la Direzione dell'Azienda Ponsi è particolarmente sensibile a certi problemi e a questi in modo particolare. Sicuramente la ristrettezza dello stabilimento, la situazione di sacrificio per mancanza di spazio, d'aria, di movimento e di respiro, non era sofferenza soltanto degli operai.
E sta venendo il nuovo stabilimento colmato d'aria e di luce, attrezzato in modo razionale e intelligente. Sarà un vantaggio per la produzione sicuramente, ma è perché metterà gli operai in condizione di lavorare a cuore aperto e a nervi più distesi.
Vi saranno servizi per una comodità serena e accogliente. Parlano di una sala di lettura con biblioteca. E possibilità di riposo, speso in modo intelligente, durante gli intervalli di lavoro.
Tutto bene. Rimane però - e fa un certo spiacevole clima d'incertezza - un problema. Gli operai e la Direzione sanno bene di cosa si tratta. Scriverne non è molto semplice.
Ecco, è un po' come quando due fidanzati (capita soltanto nelle famiglie "bene") si sono sposati e vanno ad abitare nella casa nuova, nell'appartamento acquistato dal papà di lui e ammobiliato dal papà di lei. Un appartamento, splendido, un sogno, roba da novelle orientali. Dovrebbe essere una felicità. E' possibile che non lo sia? E' possibile. Perché forse i due sposi novelli sembra, a vederli, che non si amino di vero amore.
C'è per aria un'incertezza, una dubbiosità del genere nell'azienda Ponsi. Il vento ha portato una nuvola ad attorbare il sereno azzurro del cielo. La famiglia, così d'accordo e unita, è assai turbata nella sua serenità e come disorientata nella sua intesa.
E la situazione rende tesi i rapporti fra maestranze e Direzione e crea un clima di sofferenza per tutti.
Gli scioperi sono una dura e penosa e disastrosa necessità per gli operai. Sono un dovere oltre che un diritto e se una volta sono stati composti il sacrificio è stato grande, per questo ciò che è stato promesso ha un particolare valore, assai più delle poche migliaia di lire. E non può voler dire che allora il diritto di sciopero, sopravvenendo altri problemi specialmente di carattere nazionale, come gli attuali dei metalmeccanici, sia stato per sempre accantonato e quel dovere completamente scomparso.
L'irrigidirsi sulle proprie posizioni è libertà per gli industriali, dev'essere uguale libertà per gli operai e forse per gli operai è valore assai più grande questa libertà, perché perdere da mesi gli straordinari e giorni e giorni di lavoro, è sacrificio che per gli operai arriva fino sulla tavola da pranzo, nel guardaroba dei figli, e forse fin nel pacchetto delle sigarette (dato che poi il governo aumenta così disinvoltamente anche le nazionali).
E' pagato duramente quell'irrigidirsi nelle loro posizioni sindacali: e questo sacrificio dà agli operai particolare diritto al rispetto.
Bisognerebbe allora che, se lottare è necessario e inevitabile, la lotta non turbasse una certa serenità di rapporti.
Il clima di vicendevole simpatia, di stima reciproca, di fiducia fra la Direzione e le maestranze (e nell'azienda Ponsi ve n'è tutta la capacità e la possibilità per questo clima) è lo stabilimento modello, assai più importante di quello fatto di vetrate tutte sole e di pavimenti a specchio. E la Direzione e le maestranze sicuramente sognano questo stabilimento modello.
37 anni sono lunghi: sono una vita. Una vita passata nel lavoro assiduo, nell'adempimento del proprio dovere. Una vita spesa a servizio dell'azienda.
A un certo punto sarebbe più che giusto un inquadramento secondo le mansioni svolte. Certi passaggi di categoria dovrebbero maturare da sé. Specialmente quando la propria attività è stata irreprensibile e quando spesso le mansioni avute e assolte comportavano responsabilità non piccole.
Perché spesso questo inquadramento non avviene? Perché questo passaggio di categoria non succede?
E' una vecchia piaga degli ambienti operai e impiegatizi. Piaga dolorosa nelle aziende in cui c'è un padrone in carne e ossa che, alla fine, sia pure con difficoltà spesso tanto complicate, può essere abbordato: finalmente il ponte levatoio si è abbassato e il tapinello viene introdotto alla presenza del Principale.
Ma è questa una piaga spaventosamente dolorosa e sembra inguaribile quando si tratta di Società Anonime. Società in cui il padrone è il capitale. La ricchezza. Il dio mammona.
E' necessariamente padrone senza cuore. Non può che essere spietato perché ciò che gli importa è soltanto l'interesse.
Invisibile e irraggiungibile, governa e determina tutto un ingranaggio. E tutto, a seguito della sua forza misteriosa, va avanti e si muove.
Non ha una coscienza che possa essere sensibilizzata, e tanto meno aggravata di responsabilità.
Non si può sperare nel suo senso umano, non si può fare nessun assegnamento sulla sua comprensione. Perché il padrone è la ragione economica, è il calcolo dell'interesse, è il bilancio. Sono i famosi e assurdi pacchetti azionari.
E masse e masse d'uomini e migliaia di operai, senza che vi sia una coscienza che ne porti il tremendo peso di responsabilità.
Un dirigente si appoggia all'altro e così via fino al dirigente centrale. Ma anche lui è un funzionario e scaricherà la sua responsabilità morale nel gran vuoto di un dovere adempiuto in nome del Capitale.
E' terribile, a pensarci bene, lavorare e spendere la propria vita totalmente in braccio al capitale, alla ricchezza anonima. Il frutto della propria fatica l'andranno a prendere ad una banca e lo spenderanno, così, senza nemmeno sapere qualcosa delle braccia che l'hanno guadagnato.
Ma torniamo al discorso iniziale. Stando così le cose, m questo tipo di aziende il senso di responsabilità dei capi reparto, dei capi personale, dei dirigenti d'azienda ecc. è ciò che decide del fare un passo avanti del dipendente.
E' doveroso in coscienza che il capo reparto conosca e sappia giustamente apprezzare le attitudini degli operai. E bisogna che compia il suo dovere di segnalare chi merita un inquadramento migliore. E insistere nell'affermare questo diritto. E darsi da fare per aiutare il dipendente a migliorare la sua posizione.
Non è giusto che il capo reparto, il capo officina, il capo personale senta la sua responsabilità soltanto nei confronti del padrone o del diretto superiore e nemmeno soltanto la responsabilità dell'andamento del lavoro, egli è responsabile, prima di tutto, nei confronti degli operai alle sue dipendenze, è a loro servizio sia per facilitarne il lavoro dirigendolo, sia per valorizzare con giustizia la loro attività.
Perché chi va avanti nella carriera e chi no? Spesso è troppo facile e copertura indegna, risolvere lo spinoso problema facendone ricadere la responsabilità sulle incapacità degli interessati.
A meno che questa incapacità sia intesa come incapacità a fingere, ad adulare, a ungere il capo reparto o il diretto superiore. Incapacità spesso - per troppa onestà e rettitudine - a seguire certo vento di fronda, correnti di favore, clientele e vassallaggi. Incapacità a tacere di fronte all'ingiustizia, a ingollare le proprie ragioni, a chinare la schiena.
Allora succede, quando il clima che imperversa nell'azienda è così viziato e mefitico, che uno «serve» per 37 anni e dopo essersi rovinato il fegato a forza d'ingurgitare umiliazioni e delusioni, per non morire aggozzito si risolva a chiedere il licenziamento.
Problema serio e importante in questa azienda che conta un centinaio di maestranze, fra operai e operaie, è lo spirito di unione, l'intesa, la considerazione vicendevole in modo che i problemi di un operaio o di un gruppo di operai siano problemi di tutti.
Sbriciolare la compattezza operaia, così fondamentale per salvaguardare gli interessi di tutti, nella ricerca di interessi individuali, non è spirito fraterno e solidale ricerca di giustizia.
Chi lavora in particolari condizioni favorevoli, per macchinario capace di maggiore produzione, per attrezzatura più moderna ecc., non deve ritenersi fortunato perché può guadagnare di più e non è giusto che questo maggiore guadagno personale gli impedisca di vedere tutto un problema umano di considerazione e di apprezzamento nei confronti dei compagni di lavoro che faticano e lavorano di più e guadagnano di meno.
Il macchinario nuovo, maggiorando assai la produzione, comporta un aumento di guadagno per l'azienda. Tutta l'azienda deve poter godere di questo miglioramento e non devono goderne soltanto il principale e gli addetti al nuovo macchinario.
E' interesse del dirigente creare posizioni di privilegio per un operaio o per un gruppo di operai e generalmente questi privilegi, con qualche fuori busta, possono essere mantenuti senza troppo sacrificio economico. E l'interessato porta a casa qualche biglietto da mille di più.
E' una vecchia storia sempre nuova e sempre dolorosa perché nasce e è alimentata dal solito egoismo, questa mala pianta annidata nel cuore dell'uomo.
E molte volte un egoismo per mantenersi e riuscire nei suoi scopi crea e mantiene e favorisce altri egoismi. E' una storia anche questa vecchia e sempre nuova.
Gli operai devono sapere guardare più lontano dell'interesse immediato, se vogliono il loro vero bene, e devono anche saper guardare accanto, a chi lavora sotto lo stesso tetto, legato alla stessa catena: anche per gli altri da quelle ore di lavoro deve uscire il necessario per la propria famiglia. E questo necessario cresce continuamente e quello che si porta a casa con la busta della quindicina non è mai sufficiente a provvedere a tutto questo «necessario».
E chi ha la casa propria e magari il pezzetto di terra se non altro per l'insalata e le cipolle, non deve dimenticare che chi dalla busta della quindicina deve togliere, prima d'arrivare a casa, l'affitto, ci fa un bel buco. E comprare tutto fino al prezzemolo e allo spicchio d'aglio, in capo al mese, spesso vuol dire fare dei debiti.
La solidarietà vuol dire rendersi conto dei problemi altrui, farli propri e fare di tutto per risolverli.
E' la coscienza di ogni operaio che può renderlo capace di solidarietà, d'intesa, di accordo con tutti i compagni di lavoro e deve essere una coscienza sana e onesta perché la busta sotto banco può essere sempre offerta e sarà sempre una tremenda tentazione.
E' chiaro che questo non è problema soltanto né in modo particolare dell'Azienda Pavimenti Apuani: ma abbiamo approfittato di certe situazioni particolari di questa azienda per scrivere di un doloroso problema generale, vera piaga del mondo operaio.
Gli operai si permettono attraverso questo foglio mensile che vuole riflettere con fedeltà e sincerità tutti i loro problemi di ordine umano e d'interesse anche spicciolo e immediato, si permettono ricordare alla Direzione una vecchia promessa.
Già molti mesi fa fu fatto presente che dato il genere di lavoro che esponeva gli operai ad una attività che comportava particolare usura di vestiti, fu fatto presente che sarebbe stata cosa lodevole e giusta se la Direzione avesse fornito alle maestranze le tute da lavoro.
La richiesta fu accolta con entusiasmo e anzi fu promessa addirittura una tuta estiva e una invernale.
Poi è passata l'estate, ma è rimasta senza tuta, e ora sta, sia pure molto pigramente, andandosene l'inverno e sembra che rimanga anch'esso senza tuta da lavoro. E francamente in queste giornate piovose, che tutto bagnano e infradiciscono, una buona tuta pesante e forte sarebbe stata una bella provvidenza per tutti.
Alla Direzione dicono che non è stata assegnata la tuta perchè mancano ancora le placche reclamistiche da attaccare al petto, a sinistra, all'altezza del cuore.
E questo vorrebbe dire che le tute ci sono ma gli operai non possono averle perché ancora non sono in condizioni di reclamizzare il Cantiere. Cosa che farebbe pensare - ma sono malignità, d'accordo, sono però anche mentalità assai frequenti nel mondo industriale - che le tute vengano concesse non proprio per facilitare il lavoro agli operai e sollevarli dall'andare per la strada con i pantaloni sdruciti.
In ogni modo dice un vecchio proverbio che le promesse sono un debito e quindi gli operai aspettano che questo debito, volontariamente accettato, sia pagato.
A meno che anche le tute non rientrino in quello strano irrigidimento che ha chiuso assai la mentalità ampia, la visione aperta con cui era stata iniziata coraggiosamente l'impostazione della nuova gestione del Cantiere.
Sarebbe spiacevole che anche della mancata assegnazione delle tute fosse fatta colpa agli operai. E la colpa, al solito, sarebbe la dipendenza disciplinata degli operai alle direttive dei sindacati in questa lunga agonia di scioperi che sta travagliando i metalmeccanici.
La colpa sarebbe il rimanere uniti e compatti a tutti i metalmeccanici per affermare i propri diritti e quelli di tutti.
Allora un piccolo fatto avrebbe il grosso significato di una mentalità di ricatto.
Ma non vogliamo pensarlo anche se il ricatto, piccolo o grande che sia, è strumento non infrequentemente usato dalla classe padronale e industriale nei confronti del mondo operaio.
Non guardiamo e non ci occupiamo dei problemi operai dal punto di vista sindacale, economico, politico. Ci siamo proposti di scoprite nel monda operaio realtà umane, di mettere in luce gli aspetti umani perchè prima che ingranaggi della macchina produttiva gli operai per noi sono esseri umani, prima di essere fonte di guadagno per l'azienda, miniere d'oro per gli industriali numeri per l'economia, pedine per il gran gioco politico ecc. per noi sono esseri umani, fratelli, figli di Dio.
Non è semplice e facile.
In queste ultime settimane mi è capitato di parlare con un industriale e con un dirigente di azienda. E il discorso è venuto sulla spinosa questione degli scioperi. Tema attuale ancora, disgraziatamente, in modo particolare per gli operai metalmeccanici dipendenti da industrie private che da mesi e mesi lottano per il rinnovo del contratto nazionale.
I due colloqui su per giù si somigliano come si somigliano, a parte qualche piccola sfumatura, le mentalità degli industriali data la stretta somiglianza dei loro interessi.
Soltanto che uno mi diceva che la propria azienda era completamente indipendente dalla Confindustria e che quindi anche i suoi operai dovevano essere indipendenti dai sindacati, barando evidentemente al vecchissimo gioco di mettere in rapporto capitale e operaio: il che è come pretendere che l'agnello, si chiuda in gabbia col leone. Questi operai che per dire qualcosa al padrone ci pensano su cento volte e poi si fanno coraggio e quando gli sono davanti rimangono lì senza parola. Aziende che ancora hanno si e no, perchè appena tollerate, o come un peso sullo stomaco, una povera Commissione Interna. Maestranze che mai vengono interrogate nemmeno sull'andamento del lavoro. Cantieri e fabbriche dove il clima è di tipo militarista, dove il padrone ha i suoi bravi giannizzeri capaci di fare per lui le parti forti, quando lui non ha tempo da perdere o nervoso da sfogare.
E gli operai dovrebbero lasciar cadere la loro forza che sono i sindacati che disgraziatamente sono già così divisi e suddivisi, in modo da essere completamente sbriciolati per trovarsi davanti al padrone uno per volta o quasi.
E' vecchio tentativo rinnovato in mille modi. E in quei colloqui ho scoperto tentativi fino a comprare gli operai con qualificazioni o aumenti in modo da staccare l'azienda da una compattezza sindacale e unitaria.
E' strano e assurdo che nella classe padronale vi sia questa intolleranza a che gli operai lottino quando è risaputo da esperienza senza fine, fatta di secoli, che soltanto dopo lotte e lotte (e spesso tragedie) la classe padronale ha mollato qualche miglioramento, mai per iniziativa personale o perchè si sono messi una mano sulla coscienza, a meno che non si sia trattato di qualche generosità paternalistica attentamente dosata in modo che quello che veniva dato fosse largamente compensato su un piano d'interesse.
Sia,come sia, a parte ogni altra considerazione {e è lecito e doveroso farlo questo apprezzamento perchè è valore umano) commuovono questi metalmeccanici che da mesi rifiutano di fare straordinari e hanno sacrificato giornale e giornate di lavoro, assottigliando il salario, mangiandosi le duecent'ore, stringendo i denti. E nella tale azienda hanno rifiutato di contrattare separatamente non secondo le richieste sindacali sacrificando vantaggi offerti. In un'altra non si sono piegati al ricatto per via di una percentuale di maggiorazione sulla paga base inizialmente concesso.
Gli industriali sanno bene cosa costa per i loro guadagni uno sciopero ma dovrebbero sapere anche quanto costa agli operai su quella busta, smagrita ancora di più da ore e ore perdute.
E' tristezza per l'operaio non poter collaborare per il fiorire dell'azienda. E' dolore vivo lasciare gli attrezzi prima che suoni la sirena, qualcosa come mancare ad un strano pudore. E' preoccupazione sofferta sapere dei rischi che la azienda affronta per la diminuita produzione.
E è anche pena per l'irrigidirsi dei rapporti col padrone e quasi apprensione nel saperlo turbato e nervoso.
Non è indifferenza o strafottenza, o puntiglio e tanto meno uno stupido lasciarsi portare per il naso, come mi è stato detto.
E' sofferenza dura, è dramma interiore, è perdere la pace, è sopportare maggiore indigenza, è sacrificio affrontato per obbedienza al proprio dovere di salvaguardare i propri diritti, che non sono mai soltanto di esclusivo interesse personale.
E' valore umano, questa lotta fino allo sciopero e come valore umano ha diritto alla considerazione e al rispetto da parte di tutti, anche da parte degli industriali.
Ricordiamo a tutti gli operai Antonio Bertuccelli, comunemente chiamato "Bengasino".
E' morto ai primi dell'anno. La solita malattia che non perdona in poco tempo se l'è portato via. Se n'è andato in piena coscienza disponendo personalmente del proprio funerale, con esemplare serenità e coraggio.
Lo ricordiamo tutti con rimpianto per la viva simpatia di cui era circondato.
I suoi compagni di lavoro alla Società Esercizio Cantieri hanno perduto un amico sereno, sempre allegro, capace di diffondere intorno a sé un clima di vivacità e di pace.
La dolce Bontà di Dio gli conceda il riposo del Cielo.
Hanno già dato la loro collaborazione e dimostrato sensibilmente la loro solidarietà gli operai del Cantiere Picchiotti i quali hanno offerto L. 5.180 - Gli operai della Società Esercizio Cantieri L. 3.560 - Gli operai del Genio Civile, escavazione porto L. 2.900 - E la Compagnia dei Portuali ha voluto essere particolarmente generosa offrendo L. 10.000.
La prossima riunione delle Commissioni interne per il numero di febbraio sarà tenuta, presso don Sirio, il 4 febbraio alle ore 9. Chiunque lo desideri può liberamente prendervi parte.
Numero Unico
responsabile : Sirio Politi - Lungo Canale Est, 37 - Viareggio
Tipografìa A, Bertolozzi - Viareggio - Telef. 25.23
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455