Pensieri sul Cile

Non mi posso dimenticare del dramma abbattutosi sul popolo del Cile. Quella striscia di terra chiusa fra le Ande e il mare è rimasta a pesarmi sul cuore con il carico tremendo di ingiustizie, sopraffazioni, violenze che in pochi giorni hanno spazzato via tutta una ricerca di novità sociale, di rapporti umani diversi da quelli costruiti soltanto sull'interesse economico. E tutto questo per mano di quella macchina oppressiva che è l'esercito, l'apparato militare, gli uomini delle stellette e dei gradi. Macchina succhia-sangue, in tutto l'arco di una storia umana sempre oppressa dalle guerre, lacerata e distrutta su tutti i lembi di terra in cui gli uomini sono stati spinti a scontrarsi e a scannarsi come lupi feroci. Perché così è sempre stato comandato e insegnato.
Ed è qui che la storia amara del Cile di questi mesi mi ha riproposto in tutta la sua cruda chiarezza un problema che ormai da parecchio tempo ci assilla e ci tormenta. E questo proprio in relazione alla presenza della Chiesa nel mondo, nello spazio che le è stato affidato perché divenga sempre più terra riscattata dall'egoismo e fecondata solo dall'amore. Presenza piena di luci e di ombre, di verità e di menzogna, di amore e di tradimenti senza fine.
Ho letto con attenzione tutto quello che ho potuto trovare sul Cile sulla stampa quotidiana. Mi sono riletto con calma, anche se con angoscia sempre crescente, quello che «Avvenire» ha pubblicato; le interviste con il card. Henriquez, le altre notizie.
Mi sembra di aver chiaro il quadro di una situazione estremamente decisiva per una autenticità - o meno - della testimonianza cristiana, della proclamazione dei valori del Vangelo. E poiché, come dice il card. Henriquez, «ci sono dei momenti nella vita della Chiesa in cui i fatti valgono più delle parole» ho cercato di individuare nella vicenda cilena quei fatti che sono una prova schiacciante della nostra infedeltà a Cristo. Di noi, Chiesa di Gesù, che per non esserci ancora sbarazzati dei legami con i potenti, i capi, i politici, e soprattutto i militari, ci troviamo ad essere compromessi - anche contro la nostra volontà - con gli assassini di un popolo.
C'è un fatto indiscutibile: in una chiesa di Santiago, il 18 settembre scorso - una settimana dopo il colpo di stato - il card. Silva Henriquez ha pregato per il bene del popolo cileno alla presenza della giunta militare (ai cui esponenti «evitò di stringere la mano»).
Quella preghiera avvenne cioè alla presenza di coloro che avevano ordinato e diretto l'assassinio di centinaia di uomini e che così hanno continuato a fare dopo quell'atto di fede religiosa. Poiché sembra che i generali promotori del golpe siano «cattolici»: quale sia il loro dio essi lo hanno dimostrato sulle canne dei fucili e con gli obici dei loro carri armati. Ma la loro presenza al-l'atto ecumenico di preghiera - insieme a certe affermazioni fatte durante l'omelia dal cardinale - ri-mane a segnare tragicamente un atteggiamento che ha poi comportato il conseguente modo di agire. Sono i primi passi che decidono ad ogni scelta di strada: quella preghiera profanata dalla presenza dei capi di un esercito assassino del proprio popolo, con la piazza circondata dai carri armati, è un grido d'accusa che lacera il corpo della comunità' cristiana e mette a nudo le sue ferite. Ferite che non testimoniano in questo caso la fede e l'amore al Cristo Signore. A Lui, ucciso sulla croce dai soldati romani, arrestato dai soldati di Erode, condannato dai sommi sacerdoti ebrei per mano di Pilato.
Tutto questo è indicativo di un dramma che attraversa tutta la storia della Chiesa, degli uomini chiamati a testimoniare il Cristo risorto, dopo la notte desolata della sua morte in croce. Uomini spesso capaci di grandi impegno verso i fratelli poveri e oppressi (come lo stesso card. Henriquez); ma incapaci purtroppo - come in questo caso - di compiere quell'unico passo dopo il quale ogni parola, ogni gesto avrebbe un valore e un senso completamente diverso.
Cosa sarebbe avvenuto se il cardinale di Santiago, il 18 settembre, avesse detto che i generali assassini, i soldati che si erano macchiati del sangue dei fratelli, tutti coloro che avevano calpestato l'amore schiacciando nel sangue una democrazia, doveva no uscire dalla chiesa perché Dio non può essere invocato da chi ha le mani grondanti di sangue fraterno? Che la Chiesa di Gesù non va d'accordo con nessun Erode o Pilato, anche se si chiamano Pinochet, Palacios o in qualunque altro modo.
E' facile immaginare che ci sarebbe stata una storia molto diversa da quella penosissima a cui abbiamo dovuto assistere, con l'anima piena di vergogna e di tante amarezze.
Questo fatto sta all'inizio del comportamento di un vescovo che nella sua vita, nelle sue scelte deve significare l'autenticità più limpida dell'impegno evangelico nella storia della Chiesa e dell'umanità. Certamente esso nasce da motivazioni nobili e buone se guardate però alla luce della saggezza dei prudenti. Ma contiene - a mio parere - una insidia tremenda, dalla quale sarebbe giunto il tempo di liberarci.
Avvenimenti grossi come quelli del Cile avrebbero dovuto realmente essere capaci di far maturare una «conversione di cuore» - sul piano della concretezza storica - che poteva essere un segno vivo e efficace della potenza della Resurrezione di Cristo.
Certamente nel segreto di questi giorni di oppressione poliziesca, di torture, di fucilazioni e incarcerazioni, tanti cristiani cileni hanno pagato con i fatti il loro amore ai fratelli e a Dio. In loro - e solo in loro - la Chiesa è portatrice del seme della vita nuova che il sangue e l'ingiustizia non possono affogare.
Che la conversione non ci sia stata ne è prova il viaggio del card. Henriquez a Roma, in Vaticano, a spiegare la situazione. Ci sono parole da sole bastano a ghiacciare il cuore, cose che vescovo cristiano non dovrebbe mai lasciarsi sfuggire. Eppure così egli ha detto, prima di ripartire, riguardo ai rapporti con la giunta militare cilena: «Sono buoni, come i rapporti che ho con tutti i governi e con tutte le giunte del mondo». (Avvenire, del 6-11-73).
I generali cileni possono essere riconoscenti al loro cardinale per queste parole. Esse, da sole, costituiscono un buon servizio verso una pacificazione che se è necessaria e doverosa per i cardinali (perché anche ai nemici e ai persecutori va il loro amore), non può mai essere comprata a prezzo della verità. Perché la pace per essere autentica deve nascere dalla verità, da quella che sgorga limpida dal mistero di Dio nella storia; altrimenti è una pace marcia, fondata sul sangue e sull'ingiustizia. Come appunto è la pace cilena, quella offerta dai militari a prezzo migliaia di morti. E la Chiesa, nella persona del vescovo di Santiago, si è trovata a sostenere quella pace che non può essere quella di Cristo e del suo Vangelo di pace.
L'insidia nascosta in questo tipo di pace è tutta nel mascheramento di quella verità che nei fatti del Cile emerge in modo violento: l'esercito, la struttura e l'organizzazione militare è semplicemente da maledirsi, da respingere in forza della fede.
Per chi vuol lavorare ad un mondo fraterno perché fatto di uguali figli di Dio, deve essere chiaro che il potere militare è il segno massimo del peccato, che è divisione, rinnegamento della vita dell'amore. Perché il potere militare è solo per disperazione e per la morte. Perché l'immagine dell'uomo che più non somiglia al suo Creatore, al Padre suo, è l'uomo armato, l'uomo ricoperto dei segni della distruzione, mascherato di crudeltà fatta ragione e ordine, divenuto belva assetata del sangue dei suoi fratelli. Quest'uomo non può essere che maledetto: perché sentendosi chiamare «razza di vipere» «sepolcro imbiancato», «omicida» (e son tutte parole del Vangelo) possa ricordarsi di avere un cuore di carne e salvarsi.
Questa era la verità di cui avevamo bisogno, che volevamo sentire urlare ai quattro venti, gettare in faccia ai potenti, ai forti, a coloro che pretendono di salvare la propria patria con un bagno di sangue. Come uno di loro ha affermato: "La nostra guerra è contro il marxismo. La presa del potere era necessaria perché si era formato in Cile un cancro che doveva essere estirpato più in fretta possibile. Il dilemma era se essi avrebbero distrutto noi, o noi avremmo distrutto loro. Abbiamo scelto la seconda soluzione". (gen. Palacios). E' con gente di questo tipo che il card. Henriquez dice di aver buoni rapporti!
E' stato sostenuto che in Cile si stava preparar do un colpo di stato di sinistra. Cioè una lotta violenta, sanguinosa, per realizzare una società socialista. Un bagno di sangue tra fratelli, un assassinio in nome di un mondo migliore, più giusto. Penso che questo è falso. Ma se veramente ci fosse stato un colpo di stato guidato da Allende con dei bravi generali di sinistra (!), mi viene da credere che il card. Henriquez avrebbe detto ben altre parole. O forse avrebbe detto esattamente le stesse - dandosi da fare per salvare i vinti - in nome di quelle saggezza e prudenza che egli ha dimostrato. E questo è semplicemente terribile: perché vuol dire che il nostro cuore di «uomini di Chiesa» è duro come quello del Faraone di fronte alle piaghe d'Egitto. Siamo una generazione malvagia e adulta che non sa riconoscere i segni del tempo di Dio, il suo passo forte che ci chiama a prendere sul serio la sua Parola. A dire in faccia a chiunque veste una divisa, i gradi, le medaglie e guida degli uomini ad uccidere altri uomini: Tu sei un assassino.
Il dramma del popolo cileno ci riguarda: come uomini che vogliono aver fame e sete di giustizia, di verità, come cristiani coinvolti nelle scelte concrete della Chiesa in Cile.
Anche nei nostri cuori passa la frontiera di quella guerra fratricida e siamo necessariamente costretti a scegliere gli oppressi o gli oppressori.
E' a questo proposito che mi hanno impressionato alcuni punti della dichiarazione del card. Henriquez prima di partire da Roma. Li trascrivo perché ognuno di noi ne inorridisca, se ne angosci, si lasci turbare profondamente. Si senta in colpa, come parte di una Chiesa che va incontro al Natale senza raddrizzare le vie storte, spianare le montagne di tutti i compromessi col potere delle tenebre. «Abbiamo fiducia nel patriottismo e nel disinteresse espresso da coloro che hanno assunto il difficile compito di restaurare l'ordine istituzionale e la vita economica del paese tanto gravemente alterati; chiediamo ai cileni che, date le attuali circostanze, cooperino per raggiungere questo obbiettivo. E soprattutto con umiltà e con fervore, chiediamo a Dio che li aiuti». «Il buon senso e il patriottismo dei cileni uniti alla tradizione democratica e alla sensibilità delle nostre forze armate permetteranno che il Cile possa tornare molto presto ala normalità istituzionale, come lo hanno promesso gli stessi membri della giunta di governo, e possa il Cile riprendere il suo cammino di progresso nella pace.. Come Cardinale, a nome della Chiesa, ho offerto al nuovo governo del Cile la stessa collaborazione che la Chiesa aveva dato, in tutte le opere del bene comune, al governo marxista del signor Allende. Nello stesso tempo, cosa che le autorità hanno accettato, ho esigito la stessa libertà di azione di cui la Chiesa godeva nel governo precedente»; (Avvenire del 6 novembre 1973).
I fatti, nella loro cruda e opprimente realtà, contraddicono totalmente queste parole, che potevano essere comprensibili e giustificabili in bocca di qualche politico sempre pronto a vendersi al padrone del momento, ma non in quella di un vescovo. Anche se esse spiegano in modo quasi crudele tutto uno stile ecclesiastico che rivela la mancanza assoluta di «viscere di misericordia», di senso di paternità cristiana, di carne e sangue che si sente ferita a morte quando la spada dell'ingiustizia strappa la carne viva del proprio popolo. Rachele - per usare una immagine dei profeti - sembra consolarsi presto dei figli uccisi, anche se lo fa per preoccuparsi verso quelli vivi.
Se prendere posizione, parlare di fronte ai drammi dell'umanità vuol dire questo, allora non si può desiderare altro che il silenzio.


don Beppe


in Lotta come Amore: LcA novembre 1973, Novembre 1973

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