Storie di lavoro

Poco meno di un anno fa, sono entrato a lavorare in un piccolo cantiere navale del porto. Cu-riosità e timore mi hanno accompagnato, i primi giorni, passando da una condizione di lavoro avventizio, a giornata, senza limiti precisi, al lavoro scandito dal suono delle sirene, fatto in gruppo, assicurato e protetto da una organizzazione sindacale. Insieme, però, un grande rispetto per tutta la realtà operaia che so di amare con tutto il cuore fino a volerne condividere la condizione, la sorte, la lotta (quella quotidiana per il boccone di pane e quella di tutta la vita perché questo boccone sia sempre meno un'elemosina per divenire segno di una eguale dignità).
Mi sono trovato in un mondo particolare, non chiuso da muri o da cancelli. ma aperto, sulla strada, dove il lavoro si confonde con lo sciamare degli studenti in eterna vacanza, l'andirivieni dei camion, il traffico dei pescatori, il curiosare degli sfaccendati. Una grande bottega dai confini indefinibili che, a poco a poco, invade la banchina, straripa sulla strada, familiarizza con tutti, impone insomma la sua presenza.
Un gruppo di uomini - i miei compagni di lavoro -, messo insieme in qualche modo senza pretese d'ordine, il 'tu' e la familiarità con i padroni, uno stanzone in perenne disordine con un accenno di servizi: questa la forza che, sostenuta da elettricisti, pittori, muratori, falegnami, moto-risti, idraulici, ha aggredito una vecchia nave, sventrandola e riappezzandola a nave stalla per il trasporto di animali vivi.
Cinquanta, settanta, cento uomini, gomito a gomito, a tagliare, saldare, montare, verniciare, spazzare..., in un sovrapporsi continuo, a far disperare che si potesse recuperare il bandolo della matassa, per ultimare il lavoro e far partire la nave.
Poche macchine, molta forza di braccia, in un ritmo a volte blando che sotto il sole d'estate si fa serrato ad annebbiare di sudore la vista e il cuore, a maledire la propria sorte, ad imprecare contro chi ha la vita facile, a cercare quella riserva di rabbia con cui spingere al suo posto quella lamiera, tagliare con la fiamma i doppi-fondi marciti, asciugare le casse sepolte in fondo alla stiva.
Fino al giorno in cui, ed erano passati sette mesi, il risultato della nostra fatica ha preso il largo, incerto come un bimbo ai primi passi, per andare a stivare a Malta un carico di tremila maiali.
La banchina ha ripreso l'aspetto di sempre e sono tornati bene in vista i panfili da mezzo miliardo a ricordare, dopo questa parentesi inconsueta e per la loro nobiltà assai urtante, che negli affari le avventure contano poco e sono loro, segni di una ricchezza onnipotente, a dominare imperturbabili la scena.
Durante questi mesi, non credo di aver fatto grandi discorsi, anzi di avere parlato piuttosto poco per lasciare spazio ad un rapporto umano senza forzature.
Non sono entrato nella vita operaia con l'animo teso di chi si sente portatore di un'istanza rivoluzionaria, ma neppure per allivellare la mia vita a quella degli altri, per sentirmi uno come tutti. Da alcuni anni ho scelto una vita... di lavoro normale per essere, in questa condizione di esistenza, al servizio dì un'autentica comunione tra gli uomini, nell'accoglienza della volontà del Dio che «ha rovesciato i potenti dai loro troni ed ha esaltato gli umili, ha saziato di beni gli affamati e rimandato i ricchi a mani vuote».
Questi mesi di vita operaia mi hanno confermato in questa scelta. Anni e anni di storture, di menzogne, di sopraffazioni, di incomprensioni, di interessi, hanno aperto un baratro tra la povera esistenza umana e la fede religiosa, ridotta quest'ultima quasi un bene di consumo per chi ha un po' di soldi e di tempo libero.
Tentare di colmare questo baratro, significa accogliere la tensione tra fede e vita come convergenti tra loro, prima di tutto nella propria esistenza. Porsi nella condizione (non solo per quan-to riguarda il problema del lavoro, ma il quadro quotidiano della vita e le esigenze che ne possono nascere) dì poter leggere il Vangelo e non trovare niente che nell'esistenza propria vi contraddica apertamente. Perché Cristo torni ad essere, in qualche modo, credibile e vivibile e non un idealista crocifisso ed ogni giorno messo in croce proprio da coloro che se ne proclamano seguaci.
Perché rinascendo una fiducia nella parola e nella vita di Gesù, cresca anche la fiducia nell'affrontare a viso aperto la vita, allargando il cuore oltre il proprio problema personale e familiare. Piccolo fuoco a sciogliere il ghiaccio di egoismi e di chiusure impressionanti, piccolo fuoco nel cuore del testimone, del credente, del cristiano e, per tutta una partecipazione al mistero di comunione, del prete.
Non attraverso i discorsi e le chiacchiere più o meno azzeccate, ma con l'intera esistenza pronta a calarsi in altre esistenze per una comunione di vita.
In questa prospettiva è sufficiente un sorriso, un'occhiata d'intesa, un discorso colto a mezz'aria, due riflessioni messe insieme tra il rumore assordante e l'odore acre delle saldature. Ci vuole così poco perché avvenga una lenta, invisibile comunicazione di doni, di sensibilità, di valori, di energia per lottare la vita.
Ci vuole così tanto poco perché la vita parla quello stesso linguaggio fatto di sudore, di umiliazione, di fatica, di quel tirare avanti oltre ogni sopportabilità, quasi da bestie.
Ci vuole così tanto poco, eppure è fatica di anni. Come Gesù: non è apparizione miracolosa di Dio nel mondo a risolvere con un tocco di bacchetta magica tutti i problemi, ma lento penetrare nell'esistenza umana, accogliendo il ritmo della vita perché fosse autentico mistero d'incarnazione.
Ci vuole così tanto poco, eppure richiede una fedeltà umile e coraggiosa, una scelta di povertà senza compromessi, un'accoglienza della solitudine come condizione per un amore veramente libero.
Ci vuole così tanto poco, eppure sembrano storielle spirituali queste, di fronte a tutta una pastorale organizzata, di fronte a preti che pure da opposte trincee portano in tasca le soluzioni più ardite e decisive.
Una vita povera, dispersa, una verginità che la segna unicamente di fede perché sia indicazione del mistero di Dio. Ho capito che solo così potevo vivere la vita operaia e meritare, da uomo serio, quell'amicizia così sacra per me, così indicativa nei confronti dell'accoglienza del mistero di Cristo, sforzandomi nella vita unicamente di balbettarne la Parola.
* * *
A seguito di queste scelte mi trovo oggi in una condizione di lavoro di nuovo avventizia. Non più nella corrente di gente che al mattino si precipita al lavoro, per ritrovarsi sulla strada a mezzogiorno ed incrociarsi ancora la sera, ma con il problema quotidiano del lavoro da cercare, da chiedere, da inventare. Non più la busta paga a fine mese, ma le mille lire raccolte ora per ora a pa-gare il prezzo di una disponibilità maggiore per una lotta allargata e continua, senza soste, neppure quelle in cui si può lavorare in pace.
Un impegno serio cui mi trovo davanti con il timore di venire risucchiato da una vita tranquilla, senza scosse. Pure un impegno che voglio vivere in serenità di spirito, in fedeltà alla classe operaia, per scelta irrinunciabile al lavoro dei poveri e degli umili, al loro modo di campare la vita. Un impegno ad essere, nella povertà e nella incertezza di questa condizione, segno di fede in Dio ed in Lui solo.
Non poter rispondere qualcosa di preciso a chi mi chiede che lavoro faccio, è il segno della disponibilità affinché nulla che sappia di efficacia, salga su dalla mia esistenza, ma tutto possa richiamare il Dio cui nulla è impossibile.


don Luigi


in Lotta come Amore: LcA ottobre 1973, Ottobre 1973

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