In ogni tempo vi è sempre un carico di problemi che non può non dare un senso di sopraffazione in chi quel peso deve portare. Il suo esistere lo lega a quel preciso tempo, lo costringe a quelle situazioni storiche, gli viene inevitabilmente addosso la montagna che sta franando in quel momento.
L'esperienza della propria inutilità, o addirittura della propria pazzia a tentare di fermare la frana, accresce paurosamente l'assurdità della fatica, fino a ripiegarsi a condizioni di stupidità, stupidità personale e ideologica, di impegno individuale o di gruppo e di speranze a livelli di umanità.
Bisognerebbe avere la Fede - è l'unica possibilità di equilibrio - capace di dire a quella montagna: levati di lì e gettati in mare. Ma non sempre questa Fede pazza è possibile, e rifugiarcisi a cercare la forza per tirare avanti non sempre è facile. Forse impedisce questa Fede e l'energia che ne deriva, come l'acqua limpida da una sorgente dalla spaccatura della roccia, lo scontro quotidiano nella concretezza delle cose, la constatazione amara della legge - disumanità che domina il mondo e imperversa fino al punto che sembra rimediabile soltanto dalla stessa legge anche se con finalità opposta: la ricerca, la lotta per l'umano bisogna che passi inevitabilmente dal disumano.
L'Amore diretto, immediato, a cuore aperto, come mi viene sempre da dire, è sempre più un'utopia, se non si rassegna prima ad essere, almeno momentaneamente (cioè per il tempo necessario, e chi può stabilirlo questo tempo?) ad essere disamore, cioè odio per l'Amore, guerra per la pace, rivoluzione violenta per la giustizia, oppressione per la libertà, violenza per la vita, ecc.
E' la famosa legge dei contrasti che, applicata alla storia, si risolve in un ricominciare sempre da capo, appena che la terra ha finito di risucchiare il sangue, e una nuova generazione ha seppellito la storia tessuta dalla generazione precedente.
La mia Fede di sempre è in crisi. Inevitabilmente. Vi sono logoramenti che non si possono né si devono forse evitare.
Il passare degli anni approfondisce te capacità d'intuizione e piano piano si arriva sempre più allo scoperto, dove è impossibile non vedere immediatamente le cose, quasi con crudeltà, spietatamente, senza possibilità di ombre, di nascondigli, di un guardare da un'altra parte e tanto meno indietro.
L'avvicinarsi all'essenziale, fino a subirne la necessità e quasi rimanerne affascinati, è pericoloso, può essere drammatico, certamente è perdere la pace, la possibilità di starsene in pace.
E l'essenziale vuoi dire sapere ciò che è l'apparenza e la verità delle cose, qual'è il segno e il suo significato, cos'è ciò che si vive e cos'è ciò che decide.
A questo punto - e lo sto dicendo balbettando e quasi come a cenni - si aggiunge il passaggio obbligato dal particolare all'universale, e cioè da me, da te, da noi alle misure di umanità.
Quando la dimensione perde la concretezza, la possibilità di una misurazione, di un contenimento, allora entra nell'anima l'esigenza e il dovere di vedere sempre al di là.
L'accettare di avere i piedi qui e vivere in conseguenza nell'impegno totale di se stessi è un grande aiuto e risolve molto il problema della propria pace.
Il quotidiano è capace di contenerci e d'esaurirci: quando tutto va bene, possiamo anche arrivare ad essere soddisfatti di noi. Cosa importante per vivere con entusiasmo. Basta dimenticare che questo quotidiano porta già con sé la propria ricompensa e sta chiudendoci nel suo egoismo, nel suo limite e cioè nel poter esser tranquilli. Il quotidiano ci dà, per esempio, la gioia di essere stanchi, di esserci spesi tutti in una laboriosa, intensa giornata, assolutamente lontani dal considerarci «servi inutili» e cioè nemmeno servi ma padroni di se stessi, fino alla programmazione di come spenderci e esserci poi spesi fino all'ultimo centesimo. Allora si può chiudere la porta di casa, recitare le pre-ghiere della sera e addormentarsi in pace...
Ho creduto molto in questo cristianesimo e forse sotto sotto ci credo ancora e non vivo altro che di questo cristianesimo.
Però molte «sistemazioni» religiose, cristiane, sacerdotali, da tempo si sono rotte, frantumate.
Non è che sia venuto fuori qualcosa di nuovo e forse nemmeno di diverso, eppure molto è cambiato.
La soddisfazione di sé è molto difficile, ormai, e tanto meno la pace.
Un senso di vergogna mi perseguita come un'ombra e mi richiama continuamente a qualcosa d'altro che non so precisare, non so in che cosa può realizzarsi, ma so che esiste e mi provoca.
E' come sentirsi chiamati continuamente fuori casa, e poi fuori della propria città. La patria è valore assurdo, ormai. La ridicolezza dei confini insignificanza della propria gente, della cultura, della civiltà, ecc.
L'orizzonte è come un velo che si è alzato, una nebbia che si è dissipata, scoprendo la vastità del mondo.
E non soltanto in senso fisico, materiale, ma come umanità e umanità non vista in cifre, nemmeno in moltitudini sconfinate, ma come umanità unitaria, una realtà immensa, ma precisata in un valore unificato e così tanto da accogliersi in cuore, ma specialmente da rimanerne sopraffatti, inghiottiti, risucchiati.
Umanità sentita e vissuta come il proprio corpo, una presenza che raccoglie tutta l'attenzione fino a provarne ogni vibrazione, ogni sussulto, ogni emozione, ma specialmente ogni dolore, ogni disperazione.
Rimbalzano dentro perfino i millenni passati, è come se fossero oggi, anche perché ciò che è d'oggi è ciò che è stato nei millenni.
E' terribile perdere la propria identità e ritrovarla, sentirla chiara e viverla in quella del mondo, dell'umanità intera.
A questo mi ha portato la ricerca cristiana e la fatica di Fede e di Amore, a guardare sempre al di là delle cose che sono d'intorno, delle persone con le quali ho vissuto, delle realtà particolari nelle quali mi sono impegnato.
Guardare al di là secondo la misura dello sguardo di Dio e sulla linea del suo Mistero (così chiaramente precisato in Gesù Cristo) vuoi dire rischiare di perdere contatto con ciò che si vede e si tocca e cercare comunione con ciò che è molto più lontano dalla mano e perfino dal cuore, senza dubbio al di là di ogni possibilità di poter fare qualcosa in questa immensità, dove è dato e dove è possibile soltanto perdersi e cioè morire in croce per esservi seriamente dentro e viverci con un rapporto concreto.
Quando maturano queste sensibilizzazioni o si aprono queste visioni delle cose e il mistero della vita si svela in tutta la sua profondità (e forse perché Dio ha manifestato Se stesso e la Sua luce ha illuminato il mondo davanti ai nostri occhi) allora il minimo che succede è che ci si sdoppi, si cominci a vivere una doppia vita: quella di tutti i giorni, nelle solite cose, nella vicenda più o meno interessante o banale del quotidiano, e l'altra vita, quella che è smarrita nel mondo, ad ascoltare l'umanità, a raccogliere l'universale, a intuire la sintesi, a partecipare la drammaticità. Perché di tragedia si tratta, a vivere le cose del mondo.
L'inconciliabilità di una vita con l'altra (anzi spesso è un vero e proprio problema di contrasto, di opposti) diventa una sofferenza senza fine, tanto più che l'immediato, il concreto, il quotidiano si mangia tutto il tempo, tutte le forze in un tentativo implacabile e impietoso di succhiarsi tutto il vivere, anima e corpo, ideali, speranze, sogni ... fino al tentativo di spengere, di soffocare l'altra vita, quella che, in fondo, sentiamo come la vita vera, quella per cui si può e si deve vivere.
Il dovere immediato, le convenienze, l'ambiente, la mentalità, l'andamento stabilito, la forza delle cose, delle persone, delle mille difficoltà, ecc., e poi la paura, la vigliaccheria, il non sapere cosa fare, cosa decidere il rotolare da un giorno all'altro ... tutto uccide la mia vita, quella vera, quella per cui sono nato, quella che Dio ha segnato come mio destino. Sono già morto e forse da molto tempo.
L'ho visto bene quando si è trattato del Vietnam e poi del Cile e poi della guerra arabo-israeliana... per citare qualcosa di quello che avviene continuamente nella mia umanità, quella spaventosa e orrenda compravendita dei miei fratelli che avviene nella politica, nella ragione economica, nella guerra, nel benessere, nella fame, nell'oppressione, nella liberazione, nella vita, nella morte...
Mi sembra di stare a guardare.
Seduto su una comoda poltrona come al cinema. Oppure se ne parla, se ne discute come durante un gioco, anche se a carte scoperte.
Dopo, me ne ritorno alle mie cose. Contentandomi di un po' di S. Vincenzo dei Paoli nei miei rapporti con la storia, rassicurandomi nell'adempimento del mio dovere quotidiano.
Detesto ormai una Chiesa che mi aiuta in questo cristianesimo e a questo cristianesimo mi ha educato. E questo cristianesimo e questo sacerdozio unicamente mi chiede.
Ora sono in crisi. Le molte rotture non sono valse ad altro che a scavare profondità incolmabili di sofferenza e di vergogna. Perché mi hanno dato di conoscere una strada: da un pezzo mi sembra di non conoscerla più. Certamente non vi sto camminando.
don Sirio
in Lotta come Amore: LcA ottobre 1973, Ottobre 1973
Luigi Sonnenfeld
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