La VITA dentro la vita

Vi è un momento nella vita nel quale non ci accade più come a quei bimbi della favola che sperduti in un bosco ritrovano la strada per tornare a casa seguendo i sassolini seminati di nascosto: quei piccoli sassi tenuti gelosamente nella mano, quelle croste di pane che un po' ci nutrivano un po' ci rassicuravano, i sogni, gli ideali, una visione delle cose capace di tutto spiegare, «unica», non infranta, che come un filo di Arianna ci aiutava a capire, a affrontare le difficoltà, a ritrovare la via, sono spariti.
Non ci siamo neppure accorti come sia accaduto, o a volte lo sappiamo, li abbiamo buttati via in un momento di rabbia, li abbiamo donati tutti in un atto di amore, o ci siamo semplicemente stancati di tenerli in mano; o forse abbiamo perduto l'incanto della casa lasciata, il bisogno di pensarla e desiderarla, di sentirla come il rifugio al quale prima o poi saremmo tornati, il più presto possibile: è stata come una nascita nuova e abbiamo perduti i veli che ci avvolgevano dall'infanzia e che si erano lentamente diradati finché non ne rimaneva che uno, il più importante, quello che ci permetteva una visione trasfigurata della realtà dandoci di vivere. E' caduta l'ultima difesa e ab-biamo dovuto pagare il prezzo più alto per diventare quello che la gente normalmente chiama "persona di questo mondo", esseri comuni che non riescono più a capire il senso del loro vivere e del loro morire.
Dopo un lungo patteggiamento con la vita, dopo le delusioni, gli slanci, le ritrosie nel decidersi di appartenerle senza difese (che lotta senza quartiere fra me e la vita che si voleva imporre), qualcosa a poco a poco si è imposto. Si è lasciato, a volte per disattenzione, un angolo senza difesa, e la vita è entrata ad invaderci impadronendosi di noi. E' solo allora, prima non potevamo saperlo, che il vivere diventa nemico. Ci livella, ci opprime, ci accontenta, ci soddisfa e in-tanto scava a tradimento un vuoto sotto i piedi; ci mostra un volto tanto conosciuto, così quotidiano, così rassicurante e insieme qualunque, insignificante e vago che non lo riconosciamo più. Ma cos'è la vita? E' come se il dialogo a lungo vissuto fra noi e il mondo, fra noi e quanto intravedevamo di valido nell'esistere si fosse interrotto; dove è quella voce che ci attirava e insieme ci faceva soffrire?
Eccoci, siamo arrivati al bivio e non sappiamo più quale strada prendere; conosciamo la spaccatura, la divisione, il doppio volto di una realtà insieme così semplice (il mangiare e il dormire, gli amici, il lavoro, la casa, la famiglia) e così mistificante. Ogni cosa ha perso il suo sapore e non riconoscendone più l'origine viviamo nel dubbio. Anche noi ripercorriamo dolorosamente l'antico cammino dell'uomo che ha perduto la innocenza primitiva, l'idea unica, l'intuizione immediata e profonda di quel «perché» dal quale nasce facile e immediato il «come».
E per sentirci vivi nella vita di tutti i giorni sentiamo la tentazione dell'idolatria, il rifugio nel mondo delle cose, gli oggetti che ci circondano, quelli semplici, sempre maneggiati, fedeli e uguali che portano la nostra impronta e che dimensionano uno spazio troppo grande adattandolo a noi.
Cos'è la vita? Nessuno può più dircelo, più profondo è il dramma, non più ostinazione rifiutiamo ogni aiuto: perché la perdita dell'origine porta immediati i frutti più dolorosi, tutto quello che era per la comunione è diventato segno di contraddizione, e se il tempo era il luogo che mi insegnava il motivo profondo del ritmo della vita, è ora diventato solo l'arco che segna il nascere e il morire; lo spazio mi rende più solo e perfino l'uomo, la creatura offerta per la comunione acuisce il senso del vuoto: chi sei tu che mi puoi dire qualcosa?, non riconosco più un volto amico «non c'era compagno degno di lui». Solo alcuni attimi di quell'amore vissuto nella Verità possono darci di sentirci vivi: sei forse carne della mia carne e ossa delle mie ossa? Lentamente si intuisce qualcosa, si intravede una strada di unione che ci leghi nuovamente alla vita, ma allora più che mai un'onestà di ricerca ci fa domandare - cosa dobbiamo fare per afferrare, per continuare a vivere nell'amore?
E' duro combattere questa battaglia, non si può tornare indietro nemmeno volendo, non si può sognare la pietra magica che ci dava di aprire ogni porta, di capire gli uomini e le cose, di sfamarli con il nostro pane, di possedere i segreti del cuore di Dio, la sicurezza della sua protezione ovunque. Siamo diventati uomini fra gli uomini, eppure siamo in un deserto; l'unica cosa che ci è dato di fare è non difenderci, accettare di non avere più una logica, senza volerne acquistare una di contrabbando.
E' in questo mondo di sicurezze sradicate che la salvezza ci scopre, solo allora la riconosciamo diffusa ovunque.
Abbiamo perduto la nostra individualità, ma ora ci scopriamo "insieme", come un immenso campo di grano dove cresciamo e senza bisogno di vegliare, dove altri pensa al sole e alla pioggia, alla semina e. alla mietitura. Una Vita che cresce senza lasciare indietro nessuno.
E' come un fiume sotterraneo, eppure chiaro e trasparente quando lo si è conosciuto, diffuso ovunque a raccogliere la vita, a nutrirla a riportarne alla luce l'unità perduta che noi non potevamo donarle. E' un'acqua che lambisce ogni terra, non si può fermare, avanza dolcemente e insensibilmente, non si può nemmeno farla nostra, solo lasciarsene impadronire. E allora si benedice l'avere lasciato l'isola felice nelle quale abitavamo e l'essersi perduti nella folla, l'averne acquistato il volto, un volto modellato lentamente, simile per ognuno eppure diverso, un'identità non più nostra, una solidarietà imposta della quale ora riconosciamo il perché: il livellamento era perché tutti siamo uno stesso corpo; e lo smarrirsi perché un Altro ci doveva trovare; la morte per un nascere diverso che non potevamo più compiere tornando nel seno di nostra madre tenendo stretti nella mano lembi di ricordi e di speranze, poteva essere solo dall'Alto.
E questo crescere nuovo non ci allontana dal seno della vita, non ci porta via, non ci sradica, ci leva, invece, il timore dell'assurdo, del vivere vuoto l'affanno del nostro volto perduto: ci nutre.
Venite a me voi che siete affamati e assetati, chi beve della mia acqua non avrà più sete in eterno. La sete terribile di chi cerca analizzando e dividendo e tenta disperatamente di aprirsi un varco fra la folla e così costruisce nuovi sentieri sui quali crede di camminare al sicuro, sentieri che lo dividono sempre più dagli altri, che snaturano la terra e sparpagliano il gregge, costringendoci ad andare smarriti come pecore senza pastore.
L'unica condizione per lasciarsi lambire dall'acqua buona è quella di mettersi in cammino perdendosi nella folla degli uomini perché qualcuno possa ritrovarci e posare il suo sguardo su noi tutti e compiacersi nel riconoscerci suoi figli, consentendo al nostro trovarci insieme, uomini di ogni razza e paese, resi una cosa sola al di là del tempo e dello spazio, più ancora che dal vivere e dal morire, più che dall'angoscia del perché; da questo essere portati via e cresciuti da un Altro. Fino a non avere altra ragione né speranza di vita che il fare la sua volontà.
E' battesimo raccolto e vissuto nella prospettiva più sostanziale di un'esistenza che si snoda in un morire vinto unicamente da un'esistenza nuova, non cercata né preparata perché unicamente donata.


Maria Grazia


in Lotta come Amore: LcA giugno 1973, Giugno 1973

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