Il "caso" di P. Diez-Alegria
L'intera vicenda di Padre J. M. Diez-Alegria, gesuita allontanato dall'insegnamento e dal proprio ordine religioso in seguito alla pubblicazione del suo volume - atto di fede"Credo nella speranza", ci ha fatto riflettere sul senso della nostra presenza nella Chiesa, certamente più umile e modesta del noto professore dell'università Gregoriana. .
Non abbiamo letto il libro e quindi non intendiamo entrare in merito a giudizi sul contenuto. Intendiamo solo proporre alcune riflessioni stimolate da un brano di Padre Diez-Alegria, riportato dalla rivista IDOC, sul senso e il valore della sua appartenenza alla Chiesa.
Sono considerazioni che condividiamo nella loro serietà e che sostanzialmente sono presenti nel nostro quotidiano cammino nella fede. All'interno della comunità, di questa Chiesa storica, non possiamo anche noi non confessare la nostra fede in Gesù Cristo. E' offerta che ci nasce dal cuore e la sentiamo umile dovere come credenti e come comunità sacerdotale. Vorremmo che fosse così per tutti i cristiani, per una vita di fede molto più cosciente e responsabile, per un annuncio molto più impegnativo e coraggioso, per una Chiesa da prendere più sul serio come lievito di speranza nell'umanità.
da «Credo nella speranza» di J. M. DìezAIegria trad. di IDOC n. 5.1973
La mia situazione attuale nel seno della comunità cristiana è paradossale. La mia fede in Cristo Gesù mi mantiene in questa comunità. Ma la mia comprensione della fede in Gesù Cristo mi fa sentire estraneo in questa comunità che nel suo insieme e nella linea rappresentata dallo «establishment» ecclesiastico, mantiene un atteggiamento religioso prevalentemente (se non esclusivamente) cattolico-culturalista (che cerca cioè una salvezza individuale, da realizzarsi fuori. dalla storia e che si esprime soprattutto nel culto, n.d.r.).
La soluzione di questo conflitto non è, per me, ridurre la comunità cristiana al piccolo gruppo di quelli che incontro e che la pensano come me, e cercare di costituire con loro una nuova «Chiesa». Questo fu, più o meno, l'orientamento dei riformatori del XVI secolo.
I grandi riformatori contavano su molto di più che un piccolo gruppo. In ogni modo, né l'esperienza storica e psicologica dei movimenti riformatori, né la mia propria riflessione sulla fede, né l'impulso dello Spirito (che spero non mi manchi del tutto) mi spingono a rompere con la comunità dei credenti. Perché, dal principio alla fine, la fede degli uni e degli altri (più o meno imperfetta, più o meno imbastardita) nella misura in cui tuttavia è «fede» non ha il suo termine nella nostra dottrina e nel nostro intendimento della fede, ma in Gesù Cristo morto e risorto, che sta al disopra di tutti e di tutti i nostri "intendimenti".
Non trovo la soluzione neppure nel rinnegare la comunità storica dei cristiani per rifugiarmi in una specie di idea platonica di Chiesa. L'atteggiamento religioso etico-profetico, messianico ed escatologico, che è quello della Bibbia, non ci permette di uscire in questo modo dalla realtà storica.
Io sono cristiano perché credo in Gesù Cristo. Sono storicamente dentro la comunità dei credenti (reale, storica) e in concreto nella Chiesa cattolica.
All'interno di questa comunità non posso non confessare la mia fede. Una fede, che si sente in conflitto col modo in cui la maggioranza dei miei fratelli di fede vedono e vivono il loro cristianesimo,
Una fede che aspira, nei limiti della mia piccolezza reale e da me sentita, ad aiutare altri a vivere la fede e a trovare la vena etico-profetica del vero cristianesimo.
Non posso fare altra cosa.
Vivo così umilmente l'esperienza di San Paolo, che continuava la sua corsa per vedere se riusciva ad afferrare Cristo Gesù, a causa di un fatto fondamentale: che Cristo lo aveva "afferrato" a sé.
in Lotta come Amore: LcA aprile 1973, Aprile 1973
Luigi Sonnenfeld
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