La lingua batte...

Questo formato - che riprende le dimensioni di Lotta come Amore tra il 1979 e il 1992 - vuoi essere indicazione di un nuovo tratto di strada nei quasi cinquanta anni di vita di questa "voce" della Chiesetta del porto. Un formato più raccolto, bianco e nero (il rosso rimane comunque sulla busta!) un profilo più asciutto quasi a voler raccogliere energie nella fiducia di poter raccontare qualcosa di nuovo, magari con un terzo numero annuale. Difficilmente sarà così questo anno dato il ritardo di questa prima uscita del 2005, ma lasciamo spazio alla fiducia e alla speranza. Intanto ringrazio di cuore tutti coloro che hanno voluto farmi giungere piccoli grandi segni di amicizia e di sostegno per questa pubblicazione. Spero di essere fedele nel coltivare questi preziosi semi nella serenità della relazione positiva. Durante questo tempo mi è accaduto più volte e in contesti del tutto diversi, di sentirmi dire che nel mio parlare e nel mio scrivere non è raro trovare delle "sottili venature di malinconia" (così si esprime un'amica in una lettera a me cara). E, ancor più recentemente, un amico ha rilevato - con tutto il rispetto e l'affetto - che sentendomi parlare in quella circostanza, sembravo uno che non avesse fede. Ho messo insieme questi due aspetti per una breve riflessione che vorrei condividere con voi, amici lettori.
Ricordo quella "preghiera per il ritorno dall'esilio" che è il Salmo 126: "Muta, o Signore, la nostra sorte, come i torrenti del Negheb. Quelli che seminano fra le lacrime, mietono poi fra lieti canti. Nell'andare va piangendo chi porta il carico del seme, ma nel tornare torna cantando chi porta i propri covoni". E, allora, piuttosto che soffermarmi su una mia dose di "malinconia" esistenziale che può essere la cicatrice ancora dolente di chissà quale antica ferita, mi pare più interessante chiedermi se e che tipo di seme sto portando nella fatica di ogni giorno. Anche se il carico può apparirmi così pesante da costringermi a chinare la testa e a scorgere a mal pena dove metto i piedi, senza lasciarmi l'agio di guardare molto avanti con solare fiducia. Da oltre un anno ho lasciato l'incarico di parroco; da poco meno non sono più il presidente da sempre di Crea; dall'inizio di quest'anno sono praticamente "pensionato". La fatica attuale è soprattutto quella di abituarmi a questa "nudità" nei confronti dei ruoli che rivestivo fino a poco tempo fa. Lo smontaggio di una architettura fortemente giocata in ogni aspetto del ruolo, anche se interpretato in maniera creativa, ripropone per me il contatto diretto, emozionale e istintivo con la realtà. Mi comincio a rendere conto di quanto mi sia mancato il sole, la pioggia, l'aria fresca, il camminare sulla terra erbosa, ma soprattutto la possibilità di guardarsi intorno, di invertire -almeno un poco! - la direzione dello sguardo lasciandolo vagare nei particolari, nelle figure marginali, iniziando dai piedi e non dalla testa. Uno sguardo che parte dal cuore prima che dal cervello. Non mi manca la fiducia, la speranza, una qualche propensione alla battuta e allo scherzo, ma è come se dovessi di nuovo imparare a camminare tenendo conto di una mia fragilità del tutto ignota prima. Può darsi che questa sensazione mi faccia apparire più grandi di quanto in realtà siano le difficoltà del percorso. Può darsi che, se è vero che la lingua batte dove il dente duole, lo "strappo" dai ruoli ricoperti e riconosciuti mi faccia ancora male... Ma voglio bene alla mia condizione attuale, al suo progressivo silenzio, a questo tratto in ombra della mia vita. Forse che la vita non nasce in umidi luoghi dove non batte il sole? E il seme che sto portando non è forse quello di essere una creatura umana definita dai propri limiti al di là di ogni ruolo?
In questo numero
Questo numero l'ho "costruito" partendo da una lettera di Grazia Maggi ritrovata durante uno degli - sporadici - tentativi di dare un ordine - apparente - alla mia camera. L'ho voluto pubblicare perché ricorda tempi belli qui alla Chiesetta e il miracolo ricorrente dell'amicizia: Con voi ho trovato un riferimento onde ripartire, una purificazione per cui "lo scarlatto
diventa bianco come lana " e la mia tenebra si è fatta "azzurra". Sono riuscito finalmente anch'io a "ripartire" e a dare un primo timido segnale di disponibilità. Così, per una sera al mese, la Chiesetta torna ad essere calda e accogliente in un incontro per la messa, seguita da una cena. Ho ripreso lo scritto di fratel Arturo da Oreundici del febbraio scorso. Ormai siamo d'accordo così, e mi è sembrato inutile insistere per avere un pezzo esclusivamente per il nostro giornaletto dal momento che è attraverso la pubblicazione diretta da don Mario de Maio che arriva in Italia la voce e la persona stessa di Arturo.
Da un altro mensile che mi piace ricevere e leggere, Koinonia, ho tratto un articolo di Alberto Simoni dal titolo "Voci della chiesa sommersa": Per chi come noi vive ed osserva la condizione di non visibilità ecclesiale, è stata una gradita sorpresa riascoltare la voce di una comunità cristiana sorella, come quella del Luogo Pio di Livorno, che ci riporta con la memoria al carissimo Martino Morganti...l\ confronto è sempre tra modelli diversi di Chiesa che Alberto Melloni nel libro più volte citato, "Chiesa madre, chiesa matrigna", così identifica: "Tutto il cattolicesimo deve decidere se, superata l'apocalittica soglia del millennio e la misura biblica del quarantennio a valle del Vaticano II, lo sviluppo della sua identità deve andare verso un grande network di 'siti religiosi' riservati ad una clientela registrata o verso un 'santuario' aperto, umanizzante, ospitale, che accoglie - come diceva l'antica anafora di san Basilio - ciascuno col suo dono, ciascuno col suo peso"(pp. 91-92). Il numero di dicembre di Jesus apre un dibattito su questo stesso libro, sollecitando a ripensare i quaranta anni dal Concilio e a rimettere in discussione scelte, acquiescenze, rese e successi, speranze e rinunce che hanno intessuto un periodo così controverso e così facilmente liquidato o nel senso del fallimento o nel senso del pieno successo. E Cettina Militello così interviene: Mi piacerebbe pensare la Chiesa come un luogo aperto e accogliente nel quale ciascuno porta il suo dono e ogni dono costituisce una ricchezza per l'altro/altra. Non riesco a rassegnarmi a una Chiesa estranea alla ricchezza che ciascuno è per Valtro/a, nella sinergia dell'essere un medesimo corpo, un medesimo popolo. La Chiesa ha un solo modello possibile: quello della Trinità e trovo sconsolante che faccia tanta fatica a riconoscerlo e a metterlo in pratica.
Anche a me piacerebbe... E a voi? In casa di Renzo Fanfani, ad Avane di Empoli, oltre la grande consueta cordialità, ho trovato una lettera di mons. Raffaele Nogaro, vescovo a Caserta, che mi ha particolarmente colpito. La lettera è stata scritta in
occasione della Giornata per la Vita di questo anno. Il 3 dicembre scorso, all'indomani della grande "marcia della pace", che sembrava definire il volto umano della città, viene firmato un "Protocollo di intesa fra la Provincia di Caserta e il Distretto militare locale", che approva un calendario di interventi nelle scuole superiori, per presentare ai giovani le opportunità occupazionali offerte dalle "Forze Armate"... Non si può affermare che si "chiamano alle armi" i giovani e le donne, perché si vuoi dare loro lavoro e dignità. Allora tutti i valori della vita diventano insensati. E mons. Nogaro fa un'affermazione veramente forte: Allora si ha la babele delle lingue, per cui l'invasione militare di un paese diventa "missione di pace ", le armi diventano "oggetti sacri e benedetti", perché servono a "distruggere le tirannidi" e a portare "democrazia e libertà " ai popoli oppressi. E' vero, la chiesa italiana sembra tollerare certe espressioni sociali, che sono delle equivocità dissacranti. Nel libro "Contemplazione e secolarità - dei laici sulle orme di Charles de Foucauld" che Franco Tenna mi ha gentilmente inviato e che narra l'esperienza spirituale della Fraternità secolare italiana, si parla ad un certo punto (pag. 48) di "ispessimento della mediazione ecclesiastica della fede e della vita cristiana" e si cerca di spiegarla come "inclinazione implicitamente autoreferenziale che l'inerzia catechistica del regime di cristianità proietta anche sugli atti dell'evangelizzazione. Atti che l'abitudine mentale consolidata dei credenti e dei non credenti intende come immediatamente funzionali all'obiettivo dell'aggregazione ecclesiastica. Mentre di per sé l'attitudine della Chiesa a rendere più evidente e accessibile la qualità evangelica della relazione di Dio con la vita dell'uomo, dovrebbe già essere apparsa, in tutta lievità e semplicità, nella persuasiva qualità umana e religiosa dell'esistenza cristiana più comune" (pag. 49). In parole più semplici si ripropone l'interrogativo di fondo (e quindi le diverse concezioni di chiesa...): si vive per andare in chiesa o si va in chiesa per vivere? La vita confluisce nella chiesa, intesa come gruppo che raccoglie, identifica, ospita, protegge, ecc. oppure è la chiesa, intesa come comunità di persone diverse, unite nella comune testimonianza, a confluire nella vita come il lievito nella pasta?


Luigi


in Lotta come Amore: LcA maggio 2005, Maggio 2005

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