Accade spesso di iniziare un discorso, specie con gruppi di giovani, che, attraverso varie fasi, arriva a stringersi nell'esigenza di un impegno. A quel punto, inevitabilmente, è d'obbligo rifarsi alla parabola dell'invito a nozze: chi ha comprato cinque buoi e ha da venderli, chi ha preso moglie, chi è in viaggio, ecc.
Tutto crolla come un castello di carte messo su con gran buona volontà, ma incapace di resistere al primo alito di vento. Si riesce a prenderci gusto, perfino a scaldarsi in dialoghi serrati e problematiche universali, ma poi? Come chi torna dal dolce far niente delle ferie, si ritrova, svegliato di colpo dal suo sogno, nel bel mezzo delle preoccupazioni quotidiane, così ci ritroviamo legati da mille obblighi fino ad esserne praticamente soffocati.
Finisce sempre che le scelte fondamentali della vita si fanno sulla base di criteri di convenienza secondo una logica tutta nostra, avvallata da un quadro che la società si offre in assoluta normalità. Ci troviamo celibi o sposati, ingegneri o impiegati, più o meno benestanti a cercare di far quadrare questa situazione con la vocazione e l'impegno cristiano. Ed è beato chi riesce a far tornare i conti di una vita in cui l'opera cristiana ha il suo bravo posto a rifinire una esistenza felice ed equilibrata, assicurata contro ogni incertezza, contro ogni dramma. Per molti, al contrario, questo costituisce spesso una frustrazione continua, un senso di scontentezza per una tensione che si presenta difficilmente componibile. Le spiritualizzazioni della parola di Dio sono i 'calmanti' più usati per una vanificazione dell'impegno ridotto a problemi di etica professionale o familiare. E' rarissimo incontrarsi, invece, con chi ha ribaltato questo ordine di valori e la cui esistenza fluisce, sia pure come continua lotta, da una riflessione seria sulla fondamentale vocazione cristiana.
Eppure quest'ultima sembra essere la condizione alla quale siamo stati chiamati e consacrati per il battesimo che abbiamo ricevuto. Fino al punto che a chi mi chiedesse spiegazioni sul mio modo di affrontare la vita e le scelte che essa comporta non dovrei trovare normale rispondere che, per esempio, sono sposato e lavoro in fabbrica, ma che sono 'cristiano'. Il che non avviene per tutta una squalificazione che il termine 'cristiano' (e stendiamo un velo pietoso sul 'cattolico') ha avuto ad esclusiva responsabilità di chi portandolo lo ha sentito più come doveroso titolo di merito che valore determinante della propria esistenza.
D'altra parte, per chi cercava un minimo di qualificazione del proprio essere cristiano, si spalancavano le porte di conventi e seminari pronti ad inquadrare di nuovo la vita imprigionandoli in schemi di assoluta sicurezza.
Mi sembra che ciò che è richiesto, da sempre e quindi per noi oggi, sia di operare una scelta, prima di tutto, di fronte all'essere 'cristiano'. Non ci si battezza, ed è chiaro, per essere iscritti nel libro dei buoni e garantirsi la paternità di Dio. L'essere battezzati, e più in generale ancora l'esser 'cristiani' non è l'esser segnati su un registro parrocchiale o fare la propria offerta alla Chiesa, non è qualità che una volta acquisita rimane, ma esistenza alimentata da Cristo stesso, fino a chiamarsi 'cristiana' non perché costellata da opere cristiane, ma perché viene proprio da Lui, dalla sua Parola, dalla sua vita.
Nella fede e nella conoscenza di questo grande mistero può crescere la consapevolezza di camminare all'ombra della Croce in una conformazione che significa assumere nella propria esistenza tutta una lotta ed un'autentica liberazione.
Non lotta per la vita, a rivelare tutta una serie di piccole o grandi meschinità per la conquista di un posto, la ricerca di appoggi, la necessità assillante di raggranellare qualcosa, la difesa della propria intimità, l'egoismo nei propri affetti.
Non lotta per la vita, ma vita per la lotta, esistenza allargata oltre ogni problematica a ritorno personale. incapace di preoccuparsi delle cose per uno spirito sacerdotale che cresce fino alla consacrazione della propria esistenza come spazio e tempo in cui avviene questa lotta e questa liberazione a dimensioni universali, e vi è annunziata per la speranza degli uomini.
E questo partendo da qualsiasi situazione purché si abbia il coraggio di rompere con le proprie paure, le inettitudini, le sicurezze. Non ci sono strade preordinate: solo l'indicazione di risalire alla sorgente della nostra vita per riprendere freschezza e vigore gettando via ciò che grava per stanchezze indicibili sul nostro rapporto con Dio e con gli uomini.
Uomini e donne preparati per una lotta cristiana in questo mondo, catechisti capaci di prendere sul serio le parole di Gesù: «Ecco, io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi... ». Preti, frati, suore, diaconi? Non so e neppure davvero sconto questo soffocante inquadramento ecclesiastico cui poco importa l'annuncio del Regno dato che la più grande preoccupazione è quella di rimpinzare di catechesi libresca il popolo 'cristiano' blandito e viziato da tutta un'attenzione che nel Vangelo non riesco proprio a rintracciare.
E' una responsabilità che ci coglie alla radice da cui tutto deve crescere, anche il modo di impostare la vita, il rapporto con la Chiesa e con il mondo. .
Chissà chi si sentirà su questa linea, quanti saremo, se sarà possibile incontrarci, fare insieme un poco di strada? Già da anni, ormai, questa luce è posta su in alto anche se accompagnata da tante amarezze, delusioni, fallimenti.
Intendo riaccenderla ancora perché sia di richiamo a chi cerca, a chi è sulla strada. Seme gettato di nuovo perché marcisca nel cuore di chi lo accoglie. La grazia di Dio porterà il suo frutto.
don Luigi
in Lotta come Amore: LcA ottobre 1972, Ottobre 1972
Luigi Sonnenfeld
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