La storia di un viaggio

Quando ho saputo dal giornale che a Roma, per un'intera settimana, si sarebbero riuniti tutti i vescovi italiani in discussione comune sull'impegno della Chiesa per portare avanti l'annuncio del Vangelo fra gli uomini di oggi, una piccola speranza è affiorata nel fondo dello spirito. Una speranza debole e fragile come il primo germoglio di un seme, ma che non sono riuscito a respingere del tutto: la situazione che stiamo vivendo è talmente carica di tensioni, il momento storico così travagliato - dal Vietnam, al Brasile e a tutto l'arco del mondo - che mi è sembrato giusto sperare contro ogni speranza.
Sapevo che cercare di portare ai vescovi problemi urgenti, colmi d'angoscia perché fatti di carne, di lacrime e di sangue, e credere che il loro cuore si sarebbe commosso e che avrebbero raccolto il grido che sempre più sale da ogni angolo della terra, era come intraprendere un viaggio nel deserto - senza scorte d'acqua - e sperare di non morire di sete.
Ma poiché si trattava di problemi vasti quanto la sofferenza di tutto il popolo che da trent'anni non conosce pace, sopraffatto da un crescendo spaventoso di morte e di disperazione; o come quella di centinaia di uomini torturati dalla polizia politica e trattati come animali dalla spietatezza della repressione, ho preferito affidarmi alla debole e fragile speranza piuttosto che all'evidenza di una realistica valutazione delle cose. Anche perché mi sembrava giusto - su un piano di Fede - fare ciò che sentivo come un dovere di fraternità, anche se tutto aveva l'apparenza di un gesto inutile.
Così me ne sono andato a Roma e mi sono mescolato per qualche giorno 'al folto gruppo di vescovi che svolgevano la loro assemblea nella tranquillità della «Domus Mariae» (che tutto può essere meno che «Casa di Maria»): mi ero messo in testa di incrinare, anche se appena appena, quel loro tranquillo radunarsi, gettando nel loro cuore un fascio di preoccupazioni che per milioni di uomini sono una crocifissione quotidiana. Pensavo che in qualche modo l'appello avrebbe dovuto far breccia, trattandosi di uomini chiamati a continuare la missione apostolica.
Ho trovato un vescovo dal cuore largo che ha subito accettato di :portare in assemblea il grido di aiuto e di denuncia lanciato da 12 vescovi e molti cattolici americani contro la guerra del Vietnam e da Helder Camara e il suo ausiliare di Recife per la repressione poliziesca in Brasile. Insieme alla notizia che nel carcere Carandiru di S. Paolo alcuni detenuti politici, fra cui tre religiosi domenicani, avevano ripreso un duro sciopero della fame per protestare contro la eliminazione criminale di prigionieri in atto nelle carceri brasiliane.
Nella sala immediatamente precedente all'aula delle assemblee, i documenti son scivolati piano piano nelle mani di quasi tutti i vescovi, molti dei quali non ne conoscevano neppure l'esistenza.
Documenti a parte, almeno per il Vietnam la stampa e la radio-televisione (anche se in modi addomesticati) hanno sempre riferito ampie notizie: come può un cristiano non sentire arrivare, tra le righe di un giornale, il grido terribile di tutto un popolo violentato nel suo diritto alla libertà e alla vita da chi è talmente potente da poter decidere la carneficina di un'intera nazione o l'abbruttimento di coloro che - affamati e assetati di giustizia - lavorano per la liberazione e la dignità della propria gente.
La richiesta fatta ai vescovi era precisa: dare un appoggio pubblico e comune alle denunce fatte da altri fratelli vescovi, sulla base dei loro documenti, per creare un movimento di opinione che spingesse sempre più i responsabili ad abbandonare i loro piani criminali; e per aiutare tutti i credenti in Cristo ad uscire dalla propria egoistica tranquillità e schierarsi con chi è appeso alla croce su tutte le strade della terra.
La richiesta era per il Vietnam e per il Brasile (certo, se avessero voluto, anche per la Grecia, la Lituania, la Palestina, il Sudamerica, il Burundi, l'Irlanda, il Mozambico, e tutti gli altri calvari aperti): perché ci sono delle croci che hanno braccia enormi e i cui crocifissi non si contano più ed hanno il volto di madri, di bambini, di vecchi, di poveri soldati ingannati e mandati al macello.
Di fronte a tutto questo, ho cercato di tenere in vita la piccola speranza che mi portavo dentro, mentre continuavo a reggere il fragile tessuto dei poverissimi contatti che sono riuscito ad avere con i vescovi più attenti all'uomo ferito dai banditi lungo il viaggio da Gerusalemme a Gerico.
Ho sperato fino all'ultimo, anche se mi rendevo ben conto dei mille ritrovati della sapienza umana che sa difendersi dal grido dei poveri e trova le ragioni giuste per voltarsi dall'altra parte della via e non vedere il sangue uscire dalle piaghe di chi rantola colpito a morte. E mi ricordavo con profonda tristezza che Gesù aveva detto che proprio un sacerdote e un levita - sulla strada di Gerico - «passarono oltre, dopo averlo visto».
Nemmeno una parola è stata spesa per problemi così seri e terribili, non un accenno in quell'arido e inutile comunicato finale che i vescovi hanno firmato e diffuso. Tutto è scivolato via come acqua sul marmo. E' stato come gridare nel deserto, dove nessuno ti sente e il vento disperde la voce.
Certamente i vescovi avevano i loro problemi, le loro preoccupazioni, le programmazioni per la pastorale nazionale: non hanno potuto trovare un angolino, un pezzo di cuore che raccogliesse il grido di Abele colpito dalla violenza omicida dei propri fratelli.
Ci sono delle cose che si possono sperare, ma, che non si possono pretendere; una capacità d'Amore che si può desiderare appassionatamente, anche se poi bisogna accettare - sia pure con profonda amarezza - le misure che ognuno porta dentro di sé. Non si può tuttavia fare a meno di chiedersi quale «evangelizzazione» possono portare avanti uomini così imprigionati negli schemi di una visione della vita che non si sa quanto abbia a che fare col Mistero dell'Incarnazione.
Così me ne sono tornato a casa, a mescolare la vita con la povera gente di tutti i giorni, dopo aver fatto un viaggio inutile. Un viaggio però che non mi ha impedito di sognare ancora più profondamente un cielo e una terra nuovi; una Chiesa nuova - che lo Spirito sta costruendo nel tessuto dell'umanità povera, fra quelli che non contano nulla, fra gli ultimi, fra i senza potere, fra i miti e gli affamati di Giustizia. Una Chiesa fatta di uomini dal cuore largo, capace di contenere il vino nuovo del Regno di Dio.
Il vino nuovo di un Amore che s'espande a misura universale, pronto a raccogliere le lacrime del povero che incontra appena fuori dall'uscio di casa, come I'angoscia disperata di chi è bruciato dal napalm a migliaia di chilometri di distanza.
Il vino nuovo di una testimonianza cristiana, di un annuncio del Vangelo che venga su da una sempre più intima incarnazione nella vita, perché la luce della Resurrezione sia accesa al centro della Passione di tutti.
Il vino nuovo di una Chiesa, Corpo di Cristo e Popolo di Dio, che abbia la Fede e il Coraggio di uscire dalle mura della città e salire il Calvario insieme con chi è condotto al patibolo dagli Erode e i Pilato di tutti i tempi. Una Chiesa, perciò, che abbandoni le vie dei saggi ragionamenti, della prudenza e della scienza, dell'equilibrio e della falsa cultura imparati nel circolo chiuso del proprio mondo, e si mescoli - come sale e lievito, come luce e fuoco - alla folla degli uomini, sulle strade e nelle piazze, davanti ai palazzi dei capi, dei potenti, per annunciare solamente lo scandalo e la follia, ma anche l'immensa Speranza, del Cristo crocifisso.
Poiché questo è l'unico Vangelo che porta la Liberazione, l'unico Sacramento che fa germogliare la Salvezza fra l,e zolle di una terra sempre più bagnata dal sangue e inaridita dall'ingiustizia.


don Beppe


in Lotta come Amore: LcA giugno 1972, Giugno 1972

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