A metà ottobre avrò terminato il compito di andare sabato sera e domenica mattina a dir messa al Varignano, quartiere di periferia popolare a Viareggio. Questo a seguito dell'uscita dalla parrocchia di Claudio lì da dodici anni con un lavoro intenso e positivo di presenza generosa e impegnata nelle relazioni umane. E nell'andare alla chiesa parrocchiale, sagoma anonima di capannone affiancata da un cantiere rabberciato in cui si sta completando una barca in ferro assai grande, ho rivissuto la storia di quel quartiere e, soprattutto della parrocchia che ha visto, dagli anni '60, alternarsi tre figure di sacerdoti così diverse e, insieme, così incisive nell'impostazione, ognuna, di un diverso modello di chiesa. Delle motivazioni che hanno portato Claudio ad uscire dalla parrocchia e cercarsi una casa e un lavoro, non so niente di più di quanto lui stesso faccia trasparire nella lettera ai parrocchiani, ma la situazione che ho appena sfiorato mi ha fatto riflettere sulla condizione del parroco oggi. Innanzitutto mi è tornato alla mente un discorso di Roberto Berton, prete operaio a Marghera. Nelle sue complesse analisi critiche era arrivato a dire che i veri preti operai (che vivono la condizione di dipendenza e di sfruttamento) sono oggi i preti a parrocchia. Ben inteso quelli che si impegnano in questo compito a tutto campo, con una donazione di se che li assorbe totalmente. Non ricordo quali erano le argomentazioni che portava per giustificare questa sua conclusione, ma per me, nel passaggio dalla "cristianità" (diciamo cinquant'anni fa?) alla progressiva "scristianizzazione" (diciamo oggi?) il prete a parrocchia ha compiuto un percorso non indifferente. La professione di parroco era socialmente riconosciuta (nel paese tre autorità: il prete, il maresciallo e il farmacista). E riconosciute erano le sue mansioni da prete (e quindi le attese da parte della gente). Poi, come il maresciallo che si levava la divisa e andava a caccia, anche il prete andava a caccia, accomodava gli orologi e gli organi, insegnava latino, giocava a carte, studiava, affrontava problematiche sociali.. .ecc. ecc. Aveva cioè uno spazio pubblico in cui esercitava il suo ruolo, e uno spazio privato in cui non dismetteva il ruolo, ma comunque venivano più fuori le inclinazioni, le capacità, le scelte personali. E per il singolo prete era più facile "misurare" il proprio impegno professionale e, nello stesso tempo, esser consapevole di quanta energia poteva mettere nel fare ciò che egli stesso preferiva o a cui dava particolare importanza. Al di là di ciò che il ruolo esigeva. Oggi il ruolo del prete è molto più sfumato. Molto meno richiesto sul piano sacrale e religioso, si trova a gestire uno dei pochi "sportelli" rimasti aperti su un territorio sempre più composito e frammentato. E cioè la parrocchia. Sempre più spesso solo, il prete a parrocchia si confronta con un vasto arco di bisogni che interpellano, con martellante insistenza, la sua coscienza cristiana e la sua fedeltà ad un impegno di dedizione. Confuso, impreparato, il più delle volte si rifugia nella professionalità specifica di uomo di chiesa, al servizio di una comunità sempre più piccola e marginale, e bisognosa a sua volta di presenze e di servizi rassicuranti che lo assorbono in una routine di per se insignificante.
Quando il prete è uomo fatto di stoffa buona e generosa, per cui non riesce a stare all'interno di una onesta professionalità impiegatizia, gli si apre davanti un terreno tanto vasto quanto impervio che ne assorbe ogni energia. Sfumando lo specifico, tutto gli è richiesto e tutto appare dovuto. Coinvolto in un ruolo "di cura" si trova a condividere con la casalinga la lacerante impossibilità di sapere se l'aver cura di madre è frutto di donazione di sé o inevitabile conseguenza del ruolo. Come meravigliarsi dell'emergere, anche drammatico, di uno stato di crisi? Credo che i "responsabili del personale" della chiesa (la parola vescovo non ha forse il significato di "sorvegliante"?) dovrebbero porsi questo problema anche nel suo versante strutturale. Il prete a parrocchia non può più essere lasciato solo, a galleggiare in un ruolo tanto indefinito quanto onnicomprensivo (al di là dell'emozione che crea, ci si chiede davvero cosa ci sia dietro espressioni del tipo: "sacerdos alter Christus"?). Può essere una strada da percorrere quella di condividere il compito di "cura" con altri preti (non più un prete per ogni campanile, ma una equipe per un territorio), facendosi carico di una realtà sufficientemente ampia mentre le parrocchie ivi costituite si organizzano, per la vita quotidiana, con le energie realmente presenti (persone, famiglie che vi abitano)? Non so. Certo che nella situazione attuale non si va più in là della strategia del tappabuchi. E questo non contribuisce a frenare una emorragia che è prima di tutto di motivazioni. E di credibilità quando si chiede di impegnare la vita.
Luigi
in Lotta come Amore: LcA ottobre 2005, Ottobre 2005
Luigi Sonnenfeld
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