C'era una volta il Cinema Centrale

A Viareggio c'è una generazione cresciuta a cinema centrale e pizza da mané. E "il pidocchino" - nome comune di sala cinematografica popolare, di solito lunga e stretta - è, dagli anni del dopoguerra, uno dei luoghi familiari della città che siamo abituati a considerare inamovibili, come i monumenti nelle piazze in cui si giocava da ragazzi. Un gestore, oculato e attento, ne ha fatto una sala conosciuta oltre provincia per una programmazione di qualità, attraverso un circuito di distribuzione che propone titoli che non appaiono nel cartellone delle grandi sale, riservati a un pubblico di appassionati.
Ma - c'è sempre un "ma", anche nelle favole più belle! - la proprietà dell'immobile è di una parrocchia. Questa, retta da religiosi, ha dietro la chiesa parrocchiale il convento. E, ancora dietro, una piccola chiesa, ormai "sconsacrata" con poche stanze.
Oltre dieci anni fa la parrocchia inizia un procedimento di sfratto per il gestore del cinema. Il progetto è di vendere l'immobile e con il ricavato ristrutturare la chiesetta e le stanze annesse in modo da farne locali per la catechesi e le attività culturali e ricreative.
Il procedimento di sfratto segue il suo corso, lungo e tortuoso, tra rinvii, eccezioni e lungaggini burocratiche. Diventa infine esecutivo.
A fronte dell'imminente chiusura del cinema, viene promosso un comitato popolare che raccoglie firme per una petizione all'amministrazione comunale perché non vada perso un punto di aggregazione e di cultura della città.
Il comitato agita la stampa, la parrocchia preferisce affidarsi a uno scarno comunicato. Non c'è più il progetto di alienare il cinema, ma di realizzare una ristrutturazione dell'immobile, restringendo la sala del cinema per circa 150 posti dei 300 attuali, e ricavando locali da vendere/affittare per ripagare le spese. Il parroco, con convinzione, proclama: tutto continuerà come prima. Il cinema sarà gestito dalla parrocchia con uguale impegno e spessore culturale. Ma non spiega come.
La tensione cresce. Un primo tentativo di eseguire lo sfratto finisce con una proroga "ultimativa" fino al 31 maggio di quest'anno.
Comitato e parrocchia non si parlano. C'è sfiducia e diffidenza reciproca. L'accenno di una mediazione di un inviato del vescovo di Lucca abortisce presto. La parrocchia vuole a tutti i costi il suo cinema. Nei confronti di un comitato "di sinistra", la parrocchia si esprime, in una assemblea, attraverso le voci della "destra". La spaccatura è irrecuperabile.
Una vicenda amara, significativa di un clima più generale in cui la Chiesa cattolica, non solo nelle sue componenti di vertice, esprime tutta la sua difficoltà ad accettare di vivere una condizione in cui stima e rispetto non sono più garantiti da privilegi indiscutibili, ma si devono guadagnare attraverso atteggiamenti coerenti con la propria ragione d'essere.
Con tutto questo la parrocchia continua ad affidarsi a comunicati stampa che ripetono la stessa assicurazione che il cinema continuerà a svolgere la sua funzione di socialità e cultura.. ma allora, non si poteva lasciar tutto com'era?

Potrà pure continuare anche meglio di prima il cinema, ma nel frattempo non si è forse perso qualcosa di "importante"? Avremo una parrocchia che gestisce un cinema, sia pure attraverso un comitato. Ma è questa una direzione davvero significativa per una presenza di fede nel contesto della città? Nonostante il "progetto culturale" della C.E.I., mi permetto di dubitarne. Certo, la mia è opinione trascurabile e viziata da una storia personale di marginalità ecclesiastica e di consuetudine di frequentazione di ambienti e persone di stampo "laicista". Ma non riesco a togliermi dalla testa che con questa operazione può darsi che la parrocchia possa fare le tanto attese ristrutturazioni di ambienti da investire nella aggregazione giovanile e non solo, a "costi" che sul piano dell'annuncio evangelico mi sembrano davvero elevati.
Intanto, nel sollevare la questione un po' da tutte le parti, parrocchia compresa, ci si è inchinati di fronte al valore pressoché assoluto della "proprietà privata". Nessuno è andato al di là del supino riconoscimento che la proprietà del cinema è indiscutibile e che la parrocchia può disporne come vuole. Si è fatto un discorso di opportunità dai "pro" come dai "contro"; di eventuale accordo tra le parti. Ma senza discutere il sacro principio della proprietà privata. E questo "assoluto" - come ogni assoluto, del resto - con il vangelo non quadra proprio. Diviene ostacolo in sé dell'annuncio di una realtà completamente nuova, di cui ogni annunciatore (e la Chiesa quindi) non può esserne più che sacramento e lievito, consegnandosi ad una povertà del proprio diritto che sempre deve lasciar trasparire l'universale destinazione dei beni. E un cinema, sia pure benedetto dal progetto culturale dei vescovi, non mi pare che sia un bene così essenziale alla missione della Chiesa su cui poggiare il proprio buon diritto, difeso dalla ragione della legge, del tribunale e della forza pubblica, alla libertà dell'annuncio del vangelo.
E qui si passa a quello che mi pare l'equivoco che ha animato la "lotta" della parrocchia: il cinema come strumento di evangelizzazione. Non lo è di per sé. E non lo è perché dipende da una parrocchia. Può esserlo se aiuta a crescere la dimensione umana e sociale di un ambiente, di un territorio. Se cioè incrementa lo spessore umano della consapevolezza capace di ascolto e di accoglienza della "buona novella". Ma se questo viene riconosciuto alla storia del cinema centrale fino al punto che si comunica pubblicamente che il cinema continuerà ad erogare cultura alla città, come prima, a maggior ragione la parrocchia poteva riconoscere nel "suo" cinema - così come è stato in questi anni - un progetto valido da affiancare con un sapiente annuncio del vangelo, senza bisogno di fare piazza pulita. E questa contraddizione lascia campo libero a supposizioni che dietro l'operazione ci sia "dell'altro" o "qualcun altro". Altro, rispetto a scivoloni della gestione del tipo "Carne tremula" di Almodovar proiettato in orario pomeridiano accessibile anche a giovanissimi.
Si parla di evangelizzazione e non ci si rende conto che l'annuncio del vangelo inizia proprio con una esplicita chiamata alla conversione. In un clima di esplicita contrapposizione e di accusa di offese ricevute, la conversione diventa qualcosa di più di un riconoscimento dei propri limiti (e chi non ne ha?). Essa diventa pratica di perdono e di concreto tentativo di battere vie nuove alla ricerca di un dialogo difficile, ma mai impossibile a priori. Pace non è esser lasciati liberi di fare e disfare a proprio piacimento, ma elaborazione nonviolenta dei conflitti alla ricerca di livelli di vita sociale che esprima meglio la ricchezza delle differenze in un clima di confronto costruttivo.
L'assenza di una pratica, sia pure imperfetta, dell'esercizio del perdono e della pace, mi pare la "ferita" più difficile da guarire di questo episodio affatto esaltante della vita della città e della presenza di chiesa nella città.
La contrapposizione per parti, così ricalcata sulla contrapposizione politica, vanifica e sterilizza ogni seme di "novità", di cui tutti abbiamo così tanto bisogno per una speranza rigenerata, una fiducia più forte. E l'annuncio del vangelo soffoca in una dimensione così priva di respiro perché l'unica certezza, a questo punto, è la chiusura del cinema.
La parrocchia potrà poi fare miracoli - e spero davvero che li faccia nel recupero di un atteggiamento positivo, aperto, sinceramente accogliente. Ma quello che non potrà cancellare è la negatività di questo scontro. Per come è stato voluto, condotto e combattuto. Se ci son voluti anni per rientrare nel pieno possesso del cinema, ci vorranno anni perché si ristabilisca terreno fertile alla fiducia, all'incontro, all'ascolto. E "seminare" sarà più duro per tutti.



Luigi


in Lotta come Amore: LcA luglio 2007, Luglio 2007

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