Una mattina, tornando dalla quotidiana passeggiata, dalla pineta in spiaggia, con il cane, ho avvertito uno strano silenzio per essere una giornata di lavoro. Di solito a quell'ora cantieri e officine sono in movimento e il traffico si infittisce di mezzi di trasporto per le prime consegne di materiali e semilavorati. Sul ponticello che mi porta a casa ho incrociato due uomini con uno striscione ripiegato e ho chiesto loro "Ma che succede?". Uno di questi mi è venuto incontro attraversando la strada e mi ha dato un volantino senza dire una parola. Ho letto: "Joubert è morto".
Da alcuni giorni questo sudafricano di 23 anni era in coma irreversibile all'ospedale di Pisa dopo una rovinosa caduta dal ponteggio che fasciava lo yacht su cui era imbarcato, portato in banchina per una revisione.
Erano vent'anni che in tutta la Darsena di Viareggio non moriva qualcuno sul lavoro.
E la Darsena si era fermata tutta, come non accade nemmeno in occasione degli scioperi generali.
Sono andato incontro al corteo dei manifestanti partito dal Municipio. L'ho lasciato sfilare ed era palpabile la commozione, la partecipazione davvero non formale, quel parlare a bassa voce che si assume quasi senza accorgercene quando si sente di rasentare l'indicibile.
Eravamo veramente tanti.
Mi sono reso conto di come è cambiato il volto operaio della città. Alcuni "vecchi", da tempo in prima linea per le battaglie per un lavoro dignitoso e giusto, ma soprattutto giovani. Bianchi, olivastri, neri. Un piccolo condensato di quel "villaggio globale" che sta diventando questo nostro mondo.
Siamo arrivati a poche decine di metri dal luogo dove Joubert è caduto e hanno fatto proseguire solo il sindaco, l'assessore alle attività portuali e due delegati sindacali che hanno portato un mazzo di fiori. Sarei andato anch'io e mi avrebbero fatto passare sicuramente. Sono conosciuto, e poi un prete ha il suo ruolo quando si tratta di morte. Ma sono rimasto con gli altri, nel silenzio rotto solo da un applauso al momento in cui il mazzo di fiori è stato deposto. E lì, in mezzo ai compagni, sentendomi ancora parte di loro, ho pregato in cuor mio perché questo stillicidio di croci sul lavoro finisse una buona volta. Perché ci fosse almeno una tregua in questo eterno sfruttamento dell'uomo sull'uomo. E pregavo anche per la Chiesa, assente, sorda, impegnata solo a far valere i propri diritti, impaurita da ogni confronto sullo stesso piano, capace solo di salire in cattedra, cieca alla dimensione umana della vita. La Chiesa nata dall'acqua, dal pane e dal vino e così assurdamente lontana dalla materia per predicare una interiorità astratta segnata da tanta disumanità..
Poi il sindaco ha avuto parole forti e giuste per allontanare ogni ricorso alla fatalità e cercare risposte concrete alle domande di sicurezza sul lavoro. E così i delegati sindacali che hanno riproposto la durezza di un percorso di riconversione dell'area dalle barche da trasporto in ferro alla nautica da diporto, il silenzio dei media locali sulle condizioni precarie di lavoro più volte denunciate.
E, nel venir via a malincuore da quel "cuore" caldo e appassionato di gente che reagisce e "canta" il lamento della lotta e della solidarietà, ripensavo a quanto mi aveva detto un amico tempo addietro, Queste barche da sogno vengono realizzate per persone "rampanti" e - diceva l'amico - quando a gente veramente ricca gli viene la voglia della "barca" e vanno nei cantieri americani o nord-europei, questi mettono quattro, cinque anni a realizzarla con tutte le regole. A Viareggio, in due anni è pronta. Allora vengono qui. E qui, non c'è una vera ricetta sul come far presto se non saltando le regole, comprese quelle della sicurezza. Il lavoro arriva, la città si fa bella, ma qualcuno deve pagare. Con la vita, a 23 anni.
Luigi
in Lotta come Amore: LcA luglio 2007, Luglio 2007
Luigi Sonnenfeld
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