Non siamo più belli come una volta...

Quando ho saputo della morte di Carlo Carlevaris, decisi di andare a Torino, al suo funerale. Non ero nelle migliori condizioni e, dopo un'inutile occhiata all'orario dei treni, partii prima dell'alba da Viareggio con la mia macchinetta, da solo, cercando di capire - km dopo km - se ero in grado di continuare o se fosse stato necessario fermarsi e tentare di rientrare. Non potevo mancare a questo ultimo appuntamento con Carlo, dopo una lunga storia di conoscenza e di amicizia fin dai primi anni della Comunità di Bicchio a Viareggio, lui della stessa generazione di don Sirio e don Rolando, i seminaristi e i preti operai torinesi della stessa mia generazione. Sirio, Rolando, come Carlo ed altri preti come loro per ricerca di fede ed età, cui ho voluto un bene dell'anima: Gino Piccio, Michele Do, Arturo Paoli... Mi separavano da loro circa una ventina di anni, giusto il tempo - in quell'epoca che aveva conosciuto per la seconda volta la grande guerra -, per un ragazzo di diventare uomo. Con la confidenza dell'amicizia e insieme il rispetto per la maggiore età, salutai Carlo (e non ebbi più occasione di rivederlo) in uno dei corridoi del vecchio seminario del Paradiso a Bergamo, durante uno degli ultimi incontri che annualmente riuniscono i "resti" dei preti operai. "Coraggio!" gli dissi nel mio consueto intercalare, e lui - inaspettatamente - mi rispose: "Eh, non siamo più belli, come una volta...". Carlo era già molto silenzioso. Partecipava alle riunioni, ascoltava, ma dava già segnali di stare staccando la spina dell'attenzione, del coinvolgimento. Mi sorprese quella frase, che mi porse guardandomi negli occhi con uno sguardo sereno, lui che ho sempre conosciuto come persona riservata. E la portai con me. Mi ritornò in mente mesi dopo. Un'amica mi raccontò di essere stata a trovarlo a casa sua, a Torino. E di essere stata ospitata una notte, trascorrendo poi con lui la gran parte del giorno seguente. Ancora dolcemente stupita di aver trovato un uomo, non solo gentilissimo e ospitale, ma anche così aperto e, in modo semplice, capace di raccontare di sé come se tra loro ci fosse un'intima conoscenza di anni. Non ero nuovo a simili contesti emotivi, ma fui ugualmente contento che Carlo mi avesse aperto un piccolo spiraglio di sé. Lui, molto spesso - troppo spesso? - avvolto di razionali strategie. Nel mio viaggio verso il suo funerale, questo ricordo affiorò ancora una volta e mi aiutò a trovare le ultime energie per consegnarmi a un taxi e raggiungere nel tempo più veloce e sicuro possibile la chiesa del Cottolengo. Nell'interno cercai i volti dei tanti presenti. Pochi quelli riconosciuti subito per continuità di frequentazione. Altri, ritrovati dopo brevi e intensi percorsi della memoria attraverso i tratti appesantiti dagli anni. E mentre la dignitosa omelia di un vescovo risuonava fredda nella chiesa, capii che quello che andavo cercando erano le tracce della bellezza di Carlo. Di quel sogno che lo ha animato e lo ha reso "bello" negli anni pienamente vissuti della sua vita, oltre i tratti della
bellezza fisica, nell'ideale, nella generosa dedizione del servizio, nello spirito forte e coinvolgente. Anche se il sogno di Carlo non collimava con il mio. Troppo innervato sulla Chiesa e la sua struttura, il suo, caratterizzato dal vento forte dello spirito del Cardinal Pellegrino, per trovare non più che alcune rispondenze nel mio sogno povero di una chiesa lontana e assente quando non dichiaratamente contraria ad avventurarsi oltre i confini del sagrato. Un sogno, quello di Carlo, reso sempre più faticoso da tempi non più così ariosi della chiesa torinese, dall'usura di storie dolorose per la morte o il forte affaticamento di alcuni suoi compagni, fino all'opacità del presente che lo chiudeva sempre più nei limiti della sua storica mansarda in via Belfiore. Fino a concludersi nel suo funerale. In chiesa, certo, alla presenza di vescovi e numerosi preti e laici che potevano testimoniare il lungo e fecondo cammino di fede di Carlo. Ma - insieme - evitando accuratamente che risuonasse nella chiesa anche solo il nome dell'esperienza cardine della sua vita quale "prete operaio". Prete operaio, operaio prete... tentativi di indicare percorsi di vita di fede ed esperienze di vita sacerdotale nell'ambito di un periodo storico collocabile nel mondo occidentale nell'arco della seconda metà del 20° secolo. Sogno di una chiesa che rilegge con la vita l'esperienza di Nazareth e la coniuga con la testimonianza profetica che prende le mosse da tutto ciò che è considerato scarto dal potere costituito. L'unica volta in cui ho avuto occasione di passare tanto tempo insieme è stato quando ho trascorso con Carlo un mese, vivendo con lui e con don Renzo Fanfani nella Casa missionaria francescana di Seoul in Sud Corea. Era il 1990 e partecipavamo con impegno al Convegno mondiale ecumenico delle Chiese: "Pace, giustizia e salvaguardia del creato". Il gruppo italiano dei preti operai aveva appena superato un momento critico della sua storia che mi permetto di riassumere così, pur sapendo che vado incontro a inevitabili generalizzazioni: lo scontro tra chi credeva di poter trovare spazi per una pastorale operaia in un dialogo d'insieme con i vescovi e chi, nell'arco di storie personali e relazioni anche fortemente contrastate con la gerarchia locale, collocava la testimonianza dei preti operai nell'ambito più generale della sfida al potere nella chiesa, della crisi del ministero ordinato, dell'opzione preferenziale per i poveri. Ci immergemmo così in un mondo - quello sud coreano - così lontano da noi e in un ambito - quello del Convegno mondiale - composto dalle costellazioni le più diverse dell'universo cristiano. Insieme con Carlo - utilissimo per me e Renzo nell'intavolare incontri e confronti con i gruppi JOC locali e i gruppi molto giovani delle Piccole Sorelle - ci immergemmo in quella realtà composita e fluttuante dimenticando letteralmente le nostre controversie, le specificità, le distinzioni. Fu un bel momento di tregua tra noi, un respiro ampio che, forse, ci permise di evitare dolorose rotture anche se, quando tornammo ci rendemmo conto che non era più "come prima". Era ormai tramontata ogni ipotesi di "movimento dei preti operai italiani" in grado di focalizzare obiettivi comuni da raggiungere nella sia pur complessa galassia ecclesiastica. Iniziava il tempo - e ancora oggi è questo - intorno alla rivista "Pretioperai" e "degli incontri e convegni al Paradiso di Bergamo", dove c'è spazio per raccontare e raccontarci, e la vicenda di ognuno con le proprie motivazioni diventa materiale di un confronto continuo che si allarga alle dimensioni del mondo e della chiesa ovunque viva. Non saremo più belli come una volta, avrebbe continuato a ripetere Carlo, pur non condividendo quella traccia che si allontanava così tanto dalla sua lotta tutta interna alla chiesa, sia pure intesa come spazi da occupare per una dimensione operaia con piena cittadinanza al suo interno. Ma la dignità e l'accoglienza nella piccola "mansarda" dei preti operai in Italia, sarebbe stata, ancora per qualche anno, quella dei tempi migliori.


Luigi Sonnenfeld


in Lotta come Amore: LcA Ottobre 2019, Ottobre 2019

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