an Pietro a Vico è un paese della periferia nord di Lucca che conta circa tremila residenti disseminati per antiche corti intervallate da complessi industriali in parte decotti, in parte ancora vivi e produttivi. Una antica parrocchia che affonda le sue radici nell'VIII secolo, istituita come beneficio da un vescovo longobardo per sua figlia. Per me, S. Pietro a Vico era soprattutto la parrocchia di don Beppone Giordano, lucchese come me, tre anni più giovane, famiglie che si conoscevano avendo casa dentro la cerchia muraria non più di trecento metri di distanza. Una amicizia fin dagli anni di seminario, rinsaldata da una comune ricerca di una vita sacerdotale assai poco clericale, fatta di lavoro manuale, privilegiando le relazioni dal basso. Più di dieci anni fa, don Beppe fu nominato Cappellano della Casa Circondariale di Lucca e richiese il mio aiuto, attraversando quel carcere un lungo periodo di affollamento, con il contributo sostanziale di versiliesi che scontavano lì reati di diversa caratura. Lavorare insieme almeno tre giorni la settimana portò a stringere tra noi amicizia e collaborazione, fino al punto che il vescovo di quei tempi, scherzando (ma non troppo...) si riferiva a noi con il titolo di un film "attenti a quei due!". Così, fino a sei anni fa. Fu un Natale faticoso, quello del 2012, per Beppe. L'amico medico gli fissò alcune visite presso l'ospedale cittadino. Era il primo sabato dell'anno, vigilia dell'Epifania. La giornata si concluse con il ricovero di Beppe e io a dir messa nella chiesa di S. Pietro a Vico. Così la domenica, le due messe. E lunedì di nuovo a Lucca, in carcere, per la messa settimanale. Iniziò così per me una girandola continua tra Viareggio, la Chiesetta, e Lucca, la parrocchia, il carcere, l'ospedale. Mentre Beppe moriva nell'Hospice di Maggiano , nell'area del grande complesso dell'ex manicomio, dove aveva mosso i primi passi, lui figlio di uno dei medici che vi lavorarono dal dopoguerra fino alla chiusura. Dopo il suo funerale, pensai che il vescovo o chi per lui mi avrebbe chiamato per ringraziarmi e comunicarmi la fine di quel periodo per me doloroso e faticoso insieme. Non fu così. In quel mese e poco più, l'immersione era stata violenta e intensa oltre ogni limite. Mi resi conto di non aver frenato in tempo e di essere stato proiettato in un contesto e in un ruolo, sia in parrocchia che in carcere, da cui non sarei riuscito a staccarmi facilmente. In ambedue gli ambienti ero stato praticamente "adottato" come segno di continuità e anch'io avevo bisogno di elaborare un nuovo lutto che mi consegnava di nuovo alla dimensione di chi rimane solo. Confermai, quindi ai miei superiori, la disponibilità a continuare il servizio in parrocchia con la nomina ad Amministratore parrocchiale con la legale rappresentanza e in carcere come cappellano volontario. Dopo alcuni mesi don Simone Giuli, giovane parroco della periferia est di Lucca, mi disse del suo interessamento al lavoro del carcere e fui felice di poter condividere con lui il tempo necessario per un avvicendamento sereno e positivo che mi portò, dopo un anno, a dimezzare i miei spostamenti da Viareggio a Lucca e a focalizzare le mie energie in relazione alla parrocchia. E lui a lavorare tuttora come Cappellano, riconosciuto e amato. Amministratore parrocchiale Il lavoro in cooperativa, con il quale ero andato in pensione pochi anni prima, mi aveva dato le basi per quello che considerai il mio compito. Da una parte cercare di essere presente, prima di tutto con
il cuore, sapendo che avrei dovuto attingere a una sostanziale sincerità nelle relazioni personali e "pastorali" (il ruolo di pastore, non riesco a immaginarlo per me senza virgolette!). Dall'altra - pur con il poco tempo a disposizione - cercare di riallacciare i fili amministrativi dell'ente parrocchia. Beppe era lì da trent'anni. Nel frattempo gli adempimenti burocratici, le registrazioni catastali, il regime tributario... tanta acqua era passata sotto i ponti. E i suoi ultimi anni erano stati particolarmente faticosi, per lui che si era dedicato anima e corpo al carcere e alle persone che lo abitavano, senza distinzione tra carcerati e personale. E poi, dopo trent'anni vien fatto di affidarsi alla memoria e al "tasto" mentre la penna pesa sempre più... Mi aiutava - a mantenere l'equilibrio, pur con il tempo che mancava sempre - l'esperienza vissuta in altri contesti che mi aiutavano a identificarmi - come mi piaceva definirmi - con "un parroco a distanza". Ricordo che, in ben altra epoca, ma sempre con Beppe (il Beppino Socci questa volta) avevamo deciso di rispondere alla richiesta di tre uomini inviati per cercare un prete che accettasse di occuparsi di un paese ritenuto "difficile". E il vescovo del tempo, spazientito, aveva urlato loro: "e allora cercatevelo voi, un prete!". Uomini pratici l'avevano preso sul serio ed erano venuti una sera a bussare alla Chiesetta. Sirio aveva commentato: "se ce chiedeva il vescovo, potevamo obiettare. Ma siccome ce lo chiede la gente, <vox populi, vox Dei>, e a Dio non si può dire di no". Beppino ed io ci alternavamo da un anno ad andare a Casoli di Camaiore, mezz'ora di macchina da Viareggio. Ci sembrava che tutto andasse liscio. Un anno dopo (ce lo raccontarono una volta presa la decisione) si riunirono come "capi di famiglia" del paese e all'ordine del giorno c'era un solo punto: questi preti sono bravi, ma non abitano qui. E il paese di sotto ha un prete, vecchio certo, ma ci abita! E anche noi vogliamo un prete che ci abiti! Dopo una nutrita discussione, il buon Michele decretò la parola fine alla discussione: "Ma li vogliamo meglio di così?! Quando n'hai di bisogno, gli telefoni, e in mezz'ora sono qui. Quando ti darebbero noia, non ce l'hai tra i piedi!". Siamo rimasti in quell'incarico per 18 anni... fin quando Beppino non è morto. E io ho cercato, anche a San Pietro a Vico, di dare meno noia possibile... La distanza (a volte, certo) aiuta. La distanza fisica mi fece riflettere su alcuni riscontri all'apparenza banali. Il gruppetto di donne che si riunivano in chiesa per le pulizie settimanali, mi telefonavano a Viareggio per chiedermi di avvisare le catechiste che avevano deciso di cambiare giorno perché non programmassero lo stesso giorno attività in chiesa con i ragazzi. Così io avrei dovuto "rimbalzare" la notizia telefonando da Viareggio a S. Pietro a Vico. Certo, il telefono non bada alla distanza (ci mandiamo messaggini anche essendo fianco a fianco...!), ma essendo nato e cresciuto nel tempo precedente i cellulari, ho conservato una qualche abitudine a far due passi per dire cose ai miei vicini piuttosto che affidarmi a whatsapp. E allora perché si privilegia il ruolo (.. lo dico al parroco...) rispetto alla relazione e alla comunicazione diretta (.. sai, mi son fermata un attimo per dirti che...)? Non è solo la pigrizia alimentata dalle moderne tecnologie. C'è qualcosa di più; ed è l'immagine del mondo che fu, insieme alla difficoltà ad accettare di prendere visione dei cambiamenti che pure sono sotto i nostri occhi. La riforma della Chiesa prodotta dal Concilio di Trento fu il frutto di una vera e propria elaborazione di sistema che ci ha accompagnato fino ai nostri giorni. Il parroco residente nella casa canonica a servizio e contigua alla chiesa parrocchiale, è stato come il perno della ruota: figura centrale in grado di connettere ogni singolo punto del cerchio e i singoli punti tra loro. Il territorio, il paese, la parrocchia erano l'ambito di esercizio dell'articolazione della struttura clericale nella dimensione religiosa e civile solidarmente unite. E la figura del prete, all'ombra del campanile, era centrale e funzionale alla comunicazione tra soggetti diversi, per condizione sociale, età e genere. Con l'aggiunta della dimensione sacra simboleggiata dal segreto confessionale. Ciò che ha messo in crisi questa organizzazione che ha retto per alcuni secoli sono stati alcuni fattori, tra i quali - a mio parere - la rottura del ruolo centrale del "territorio". S. Pietro a Vico che è sempre stato un territorio sparso tra corti contadine e laboratori lungo il "canale", vera e propria linea di forza motrice che traversa tuttora anche Lucca ed era essenziale per
le sue filande che tessevano e coloravano preziose stoffe conosciute in tutta Europa. Il fenomeno dell'urbanizzazione non ha risparmiato la Lucchesia e i territori vicino Lucca hanno assunto sempre più le caratteristiche della periferia urbana. La zona di S. Pietro a Vico, ancora in parte immersa nel verde, conosce la mescolanza tra industria e residenze ed è, anche per questo, segnata dal costo inferiore delle abitazioni in contesti meno affollati. Qui, tanti abitanti ci vengono in pratica solo a dormire. Non esiste quindi più da tempo "il paese", ma singoli agglomerati di case senza servizi, negozi di vicinato, luoghi di ritovo... E da sei anni, non c'è più nemmeno un parroco residente. Si continua però a cercare il parroco come figura di snodo delle comunicazioni. Tra enti o servizi pubblici come tra gruppi di parrocchiani che svolgono servizi nella e per la chiesa. Non sono solo le donne delle pulizie che mi telefonano perché avvisi chi fa catechismo del cambiamento del giorno in cui la chiesa è inagibile. L'altro giorno, per esempio, i vigili del fuoco chiamano dalla caserma: "scusi, ci hanno avvisato che ci sono scariche elettriche lungo la linea che passa vicino alla chiesa; potrebbe dare un'occhiata per capire se e come intervenire?". Con tutta la buona volontà, da Viareggio è dura riuscire a vedere... "ah, scusi, sa, credevo...". Ma, quando vengo raggiunto per telefono dal fisso della parrocchia per trasferimento di chiamata al cellulare e mi viene chiesto qualcosa come orari, spiegazioni, richieste di certificati, colloqui... e io premetto: "abbia pazienza, io abito a Viareggio e vengo quasi solo la domenica... vediamo un po' come si può fare...", al 99% mi rispondono serenamente: "lo so che sta a Viareggio, certo, vediamo come si può fare...". Mai una parola seccata, una critica, un senso di imbarazzo. La mattina della domenica e delle feste comandate, metto le sveglie alle 5.30, parto dalla Chiesetta del Porto verso le 6.15, faccio una sosta al panificio del paese per il pane da congelare per la settimana e qualche sfizio di dolce, entro in casa a S. Pietro tra le 7 e le 7.10, faccio una veloce colazione, preparo certificati e sacchetti di cibo per aiuti e puntualmente alle 7.45 apro la catena del piazzale per le auto, il portone della chiesa, alcune luci e mi preparo ad accogliere le persone che vengono per la messa delle 8.30 con calma e serenità come se stessi aspettandole dalla sera prima... Buongiorno! Due anni fa, ho chiesto e ottenuto il decreto che mi nomina parroco a tutti gli effetti. Non ha cambiato niente per quanto riguarda doveri e poteri. Consideratelo pure come una mia vanagloria (udite, udite, c'era in ballo il titolo di Priore..., la mantellina viola e il pompom dello stesso colore sul tricorno!). Ma, per me, ha significato la fine del ruolo di tappabuchi e il riconoscimento di una relazione stabile di corresponsabilità con la comunità cristiana di S. Pietro a Vico, nonostante la distanza e la residenza altrove, sempre alla Chiesetta del Porto. Ho quindi iniziato un percorso al positivo. Come fare per cambiare verso allo schema tutto piramidale dell'organizzazione clericale ben definita nel Diritto Canonico, quello su cui ho studiato negli anni '60 del secolo scorso, definendo la modalità del procedere in "processione" con i laici schierati "bini bini duce clero"? Ben consapevole che i cambiamenti che coinvolgono culture sedimentate hanno da iniziare da leggeri movimenti appena accennati, ho continuato a trattare le cose di parrocchia in incontri per e con gli "operatori pastorali" (catechiste/i, coro, pulizie, affari economici, lettori...), accentuando l'accoglienza di semplici progetti e di modalità emergenti dalle dinamiche tra loro. Proponendo ogni tanto gesti e segni durante le liturgie proposte ed accolte da loro, riducendo le contrapposizioni tra le persone con l'aiuto e la sensibilità di chi non solo stava al gioco, ma lo apprezzava. Come quando invito le persone presenti in chiesa a parlare tra di loro, iniziando da quelli che condividono la stessa panca. Perché magari si conoscono, ma non hanno mai avuto occasione di andare al di là di un formale cenno di capo. Si stringono la mano al momento della pace, ma non conoscono i rispettivi nomi... E così ci sono degli scongelamenti, piccoli piccoli che diamine! Non cambia nulla, ma alcuni di loro si fermano un poco all'uscita fuori della porta continuando a chiacchierare. E poi, volete mettere? Sia pure per dieci minuti cambia l'orientamento. Da "verticale" e cioé dalla panca all'altare, al sacerdote... a "orizzontale", e cioé tra di loro. Poco poco,... ma non così poco! Ora poi mi è venuto in mente di proporre al gruppettino dei ragazzi/e che hanno fatto la cresima
negli ultimi tre anni e che vengono ancora alla messa, raccolti nel coro o coinvolti dai genitori, di andare in sacrestia mentre io faccio la predica dopo il vangelo. E quando ho finito li richiamo e chiedo loro se vogliono dire qualcosa (in sacrestia si organizzano), fare domande, apprezzamenti o critiche al nostro modo adulto di celebrare, osservazioni che riguardano fatti del giorno o problematiche in cui si sentono coinvolti. Non importa quello che dicono o se si chiudono in silenzio. Non importa rispondere alle loro domande, in diretta. Basta la piccola cosa che consiste nel dar loro la parola, nel considerarli, nell'includere la loro presenza in quella dei ruoli attivi. Ci sono anche i giovani e la loro parola non deve essere per forza l'eco delle parole dei grandi. Così vado avanti, consapevole che sono troppo vecchio e incapace di impostare una formazione articolata e funzionale. Non so immaginare il futuro. So solo voler bene al mondo che verrà nella fiducia che il Signore Gesù benedice la vita, incessantemente. Non sarò mai un buon parroco; vorrei essere ricordato solo come un parroco buono. Strano, poco comunicativo, con i suoi lunghi discorsi fatti di pezze a stento cucite tra loro come il vestito di Arlecchino, ma capace di credere la speranza.
don Luigi
in Lotta come Amore: LcA Ottobre 2019, Ottobre 2019
Luigi Sonnenfeld
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