Prima di iniziare a scrivere queste righe, avrei voluto ascoltare di nuovo dopo tanto tempo, il suono della piccola campana sul tetto della cappella, ma i perni non ingrassati necessitano di essere
sbloccati. Anche le mie giunture si sono in parte "arrugginite" e non sono più in grado di muovermi sul tetto con sufficiente disinvoltura. Così, sul momento ho desistito. Ma riproverò. Ricordo che il suono della campanella non ha niente di argentino, ma somiglia piuttosto al suono prodotto da un martello su una lamiera. Ma neppure nel porto, tra i cantieri, risuonano più le sirene che chiamavano al lavoro gli operai. Il dialogo - sia pure impari in quella che allora veniva definita "la Darsena rossa" - descritto da Sirio e appena riportato, tra "la sirena e la campana", emblematico del confronto serrato tra il mondo operaio e la chiesa del dopoguerra, ha ceduto il passo ad uno sbriciolamento di interessi e di relative istanze sotto la bandiera dell'individualismo in una opacità di prospettiva che, una volta schiarendosi ha reso indiscutibile l'assoluto dominio del capitale sull'umano. Don Sirio morì all'inizio del 1988, alla vigilia del crollo dell'impero sovietico. "La sirena e la campana" fu da lui scritto all'inizio degli anni '60 mentre stava prendendo corpo il Concilio Vaticano II° e un vento teso provvedeva ad aprire i finestroni dei chiostri e delle chiese per far entrare aria nuova e fresca in ambienti troppo a lungo rinchiusi su di sé. Anni, quelli della sua scelta di condivisione del mondo del lavoro, in un crescendo di guerra fredda, di cortine di ferro, di scontri in atto qua e là nel mondo, di una folle corsa agli armamenti ormai in grado di distruggere ripetutamente la terra e i suoi abitanti. Messo da parte dalla "sua" chiesa dopo tre anni di fuoco nel crogiolo dei cantieri navali, Sirio rimane tenacemente immerso in una fede sofferta ma incrollabile. La messa che continua a celebrare ogni mattina nella cappella semideserta quando i suoi compagni entrano al lavoro, è un gesto di amore che lo coinvolge totalmente e ne fa un portatore incrollabile di speranza. La mia è tutta un'altra storia. Sono stato messo da parte dalla vita che passa, dagli anni che portano alla pensione. Un distacco dal mondo del lavoro avvenuto a tappe: un primo sganciamento dal lavoro manuale e gli ultimi dieci anni della vita lavorativa progressivamente spesi nell'organizzazione e nell'impresa del lavoro di altri. Contemporaneamente sono entrato in quel tratto di vita "al singolare" che si sta prolungando in una vecchiaia di cui sperimento il calare delle energie, il bisogno crescente di tempi di inazione pena quel rimanere boccheggiante che segnala l'impossibilità di procedere oltre. Negli ultimi tempi della sua vita Sirio soleva tirarsi sù citando a voce alta quello che era sicuramente un "dittaggio" raccolto dalla bocca di altri vecchi prima di lui: "povero vecchio dalla testa bianca, il coraggio l'avresti; è la forza che ti manca!". Ora mi rendo conto che ogni tanto ripeto anch'io quella frase dentro di me, non per arrendermi, ma per resistere. Lo sguardo mi cade spesso sul motto inciso sulla pietra tombale di Sirio, già posta sull'erba del cimitero di Capezzano Pianore e traslocata con le sue ceneri nella cappella: "La morte non chiude la storia". Era il ritornello di un canto dei suoi testi teatrali, scritti e messi in scena per scuotere e rinnovare una coscienza per la pace e la giustizia, nonostante il sangue versato da testimoni martiri. Cosa mi vuol suggerire oggi quella frase? Anche se tutto è cambiato ed è "morto" tutto il contesto in cui si è svolta una storia (la sua, quella della Chiesetta del Porto come segno di una presenza amica nel mondo operaio e di una condivisione quotidiana della fatica delle mani), com'è che questa storia non si chiude e com'è che può continuare a scorrere sia pure come piccolo rivolo d'acqua sul selciato assetato di vita della povera gente? Non suona la piccola campana sul tetto della cappella. La Messa viene celebrata una volta al mese per raccogliere un gruppo di amici che continua a incontrarsi con me. Le letture della liturgia mi aprono il cuore e riverso sui partecipanti le mie riflessioni, i miei interrogativi, la sostanza delle mie preghiere. Ascoltano pazientemente quelle mie frasi in parte sconnesse, colte nel fondo dell'anima là dove a stento riesco a decifrare frasi di senso compiuto. Sono spesso solo come invocazioni di un mondo che forse esiste solo nella mia immaginazione... Ma che mi rasserena e mi conforta e non mi importa che sia intelligibile, almeno non più di quelle nenie che modulano i pastori nelle notti solitarie, alla luna e ai loro animali. Mi vergogno di questa mia pochezza e della presupponenza che non mi aiuta a cambiare, a cercare
con maggiore buon senso un dialogo, una comunicazione, una interazione capace di superare la soglia della cappella e balbettare almeno qualche parola al mondo intorno. Ma non riesco a schiodarmi di lì. Sento che sto sempre più rischiando di venir risucchiato da quel mondo di povera gente che mi gravita intorno. Gente di strada, straccata ormai dalla vita e in condizioni di non riuscire a tirarsi fuori da una ricerca della pura sopravvivenza del giorno per giorno. Finisco per vivere i loro ritmi, le loro opache vicissitudini, il loro contentarsi del momento in cui si può evadere dalla condizione di miseria per la ricchezza di un caffé, di qualche sorsata di "castellino" o di birra, per un panino. Avverto questo morire dentro. Forse è così che deve essere. E mi accorgo di avere sempre più gli occhi come loro. Occhi spenti, un po' sempre abbassati, quasi a chiedere scusa di esistere, a volte pretenziosi ed esigenti ma solo per una stanchezza infinita e una disperazione che li annega dentro. So che devo resistere - anche per loro - e cercare di rialzare la testa e il cuore. Forse è così che si muore, ma - nello stesso tempo è solo così che la storia non si chiude: quando non ci si arrende anche se ci riesce solo rimanere aggrappati a un sogno.
Luigi
in Lotta come Amore: LcA Dicembre 2017, Dicembre 2017
Luigi Sonnenfeld
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