Lavorare insieme uomini e donne

Negli anni a cavallo del secolo la mia collocazione lavorativa si spostò - sempre nello stesso
contenitore del "capannone" - dal lavoro artigianale a lavoro di cura nel sociale. La forma
organizzativa nascente della cooperativa, mi catturò tutta l'attenzione e l'energia.
Lavoravamo insieme, uomini e donne. Con storie, sensibilità, attitudini diverse all'interno di un
incubatore - il "capannone di via Virgilio" - fecondato dalle energie di vita del percorso di Sirio e di
noi preti operai, suoi amici che abbiamo condiviso con lui la nascita di quel antico sogno nuovo
nella centralità di un lavoro condiviso e aperto alle nuove generazioni.
Così scrivevo su questo giornalino dieci anni fa, nel ricordo di quegli anni vissuti in un fermento di
larghi orizzonti.
Giuliana Martinelli
Un sabato pomeriggio, colorato di sole ancora caldo di questo bel mese di ottobre, ero a Stiava
vicino Viareggio per l'intitolazione del locale Centro di Socializzazione a Giuliana Martinelli. Nata
e vissuta a Stiava, nel Comune di Massarosa, educatrice, morta un anno fa dopo un lungo e
doloroso calvario, lasciando il marito e una bambina di quattro anni. Mi hanno chiesto un
intervento, ma quando ho iniziato a parlare un fiume di ricordi mi ha travolto e sono riuscito solo a
balbettare il sogno che quel luogo fosse seminato di rispetto, sincerità accoglienza e incontro. Ho
lavorato con Giuliana dal 1999 al 2002, quando entrò in maternità per la sua bambina. Erano anni
di crescita della cooperativa per gli inserimenti lavorativi, anni di lavoro duro in cui si alternavano
avventure esaltanti e disavventure davvero disastrose. Io ero il boss e Giuliana mi era stata
indicata dalla direttrice della cooperativa di assistenza come una educatrice che poteva essere
invitata a completare la sua formazione con una esperienza di gestione del personale. C'era un
lavoro di coordinamento da iniziare da zero con una squadra di una quindicina di spazzini molto
eterogenea e con esperienze lavorative che lasciavano immaginare solo difficoltà. Giuliana accettò
l'incarico. Ebbi modo di apprezzare la sua professionalità, in un contesto votato alla confusione.
Annotava tutto e rielaborava le note. Lasciava poco al caso, ma la sua partecipazione
all'evoluzione dei problemi era sempre calda, mai distaccata. Non è stato facile per nessuno
lavorare con me: poche parole, un lasciare intendere più per silenzi che le cose andavano, precise e
immediate le disapprovazioni. Sono sempre stato uno "scorfano". Sembrava non soffrire di questo
mio carattere. Forse avvertiva (non solo lei, spero) che la fiducia era a tutto tondo. Due logiche
diverse le nostre. Da parte mia la preoccupazione della gestione complessiva, della riuscita del
lavoro, del contenimento dei costi; da parte sua i lavoratori (uomini e donne), con i loro profili
spesso assai problematici, la difficile composizione delle squadre, l'assillo del controllo,
l'attenzione alle motivazioni personali e del gruppo. E' con Giuliana che credo di aver vissuto con
più chiarezza l'incontro/scontro del maschile e del femminile riguardo al lavoro e alle relazioni che
nel lavoro si esprimono. Era anche il tempo in cui in cooperativa e non solo, si poneva attenzione a
quelli embrioni di gestione "al femminile" che parevano suggerire modi "altri" che non fossero
quelli verticistici e competitivi tipici del modello maschile. Si ragionava, nelle pieghe del lavoro, di
quel "rimescolamento delle carte" che il lavoro sociale, connotato dall'aver cura tutto al femminile,
poteva introdurre attraverso l'interpretazione al maschile. E di quella contaminazione provocata
dall'introduzione nel lavoro sociale di criteri di efficienza, di compatibilità, di obiettivi da
raggiungere, tipici del lavoro di produzione. Anni, quelli di fine ed inizio secolo, in cui nel nostro
ambiente di lavoro si respirava ancora il fervore tipicamente artigiano dell'impresa in cui investire
tutto di sé. Una presunzione di "innocenza" di chi è rivolto al bene, se vogliamo; un atteggiamento
del cuore ancora tutto fasciato di fanciullesca onnipotenza e, insieme, i tratti adulti di chi non
rinuncia all'idea che lo "star bene" richiede apertura alla condivisione e alla solidarietà. Per
Giuliana si è aperta la durissima strada della malattia. Non ci siamo più visti. Non ho difficoltà ad
ammettere che il mio rinunciare ad andare a trovarla, nei periodi di remissione, a casa sua sa di
vigliaccheria.
Avevo - ma non vuole essere una scusante per ciò che non ammette scuse - l'impressione che
ognuno di noi fosse avviato in un percorso in cui la vita, per strade diverse e, ahimè la sua di vera
croce, ci stesse proponendo un confronto in cui le idealità tanto amate dovevano passare al vaglio
della carne e del sangue diventando parte viva di noi. Non più nella trasparenza non corrosa dal
tempo del pensiero e dello spirito, ma nella opacità feconda della materia vivente affidata alla
storia di ogni essere.
Per me, la fatica di un quotidiano che si prolunga in una non-decisione rispetto a dove gettare il
cuore oltre. Per lei un andare incontro alla consumazione affinando la capacità di starci tutta in
quel corpo esausto e mangiato dal male. Nel mio balbettio, davanti alla piccola folla riunita per
ricordare Giuliana, dicevo del "tirare alla fune" tra le nostre rispettive differenze e concludevo che
quasi sempre era lei a vincere.
Anche ora ciò che le invidio di tutto cuore è la convinzione di ogni sua cellula che "nulla va
perduto della nostra vita, nessun frammento di amore e di bellezza, nessun sacrificio nascosto,
nessuna lacrima e nessuna amicizia".
Lotta come Amore,
dicembre 2007
Nel corso della mia vita lavorativa ho avuto modo di rinnovare questa esperienza di collaborazione
stretta con donne facendo tesoro delle differenze di genere e portandomi dietro amicizie semplici,
nella fiducia a tutto tondo; da "vecchi" camerati abituati alla convivenza e insieme al rispetto più
assoluto delle rispettive vite private. La cooperativa che ho raccolto dalla esistenza sulla carta
contribuendo a farla crescere fino ad una realtà complessa e articolata, è stata sostenuta e alimentata
insieme a me da due donne che, dopo di me, si sono fatte carico, in tempi e modi diversi, della
responsabilità della conduzione. Talvolta, parlando con loro tra le pieghe del lavoro delle relazioni
affatto facili in un contenitore di lavori diversi, come il nostro, con decine e decine di persone
impegnate, mi veniva da rilevare come noi tre non fossimo stati intraversati nel nostro lavoro più di
tanto da innamoramenti e storie sentimentali. Nonostante l'affetto ben radicato al di là degli scontri
e delle tensioni provocate dalle rispettive personalità, scelte di vita, responsabilità.
Mi è sempre rimasta in mente quello che mi confidò tanti anni prima una carissima amica
infermiera che nei turni di notte si fermava a parlare con i degenti che non riuscivano a dormire. In
uno di questi colloqui sottovoce, un uomo ormai vecchio le raccontò del suo lavoro di ballerino e di
aver ballato una vita con sua moglie. "Tante volte, la sera, andavamo a letto stanchi della giornata.
E non facevamo all'amore non perché c'era qualcosa di storto tra noi, o troppo stanchi. Eravamo
giovani e innamoratissimi. Ma nel ballare, accompagnati dal ritmo, ci eravamo così tanto uniti nel
movimento armonico della danza, da sentirci un unico corpo e da non provare più il bisogno di altra
unione...".
Ora, non è che il nostro lavoro, nelle sue diverse sfaccettature, avesse una tale carica emotiva e
fusionale, si intende! Rimane però vero che se si lavora ad un progetto comune, concreto e ideale
nello stesso tempo, questo non lascia molto spazio a quei ripiegamenti sul "personale" che spesso
costituiscono la fatica di tirare avanti anche delle coppie più collaudate. Quando dal corpo si
pretende un supplemento che manca allo spirito, o si arriva a pensarlo come un complemento
inevitabile. Lo dico, non dall'alto di una saggezza astratta, ma dalla mia navigazione di vita che ha
conosciuto e continua a conoscere faticose derive pur di mantenere la rotta e un arrendersi a stare "a
ridosso" quando la tempesta supera le forze per poter rimanere orgogliosamente "in mare aperto". Il
"progetto", qualsiasi progetto, ha bisogno di essere ravvivato da verifiche e spirito di
comunicazione in una relazione tra persone di differente genere, piuttosto che affidato alle carte e
alle regole organizzative con un inevitabile cedimento alla razionalità "maschile". Ed è ugualmente
importante la tenuta del ruolo lavorativo cercando il più possibile di non alterarlo con
sovrapposizioni dettate dal desiderio, sia pure legittimo, di rappresentare altro per le colleghe e i
colleghi di lavoro.

Luigi


in Lotta come Amore: LcA Giugno 2017, Giugno 2017

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