Ho imparato a fidarmi più del corpo

che della mente

In quella "terra di mezzo" che furono per me gli anni tra la metà degli '80 e gli ultimi anni '90
accaddero tante cose nella mia vita in generale ed anche nella mia vita affettiva. Due volte piansi a
dirotto, di quel pianto prolungato che nasce dal cuore e stenta a fermarsi perché le lacrime
contengono tutto il non detto e forse l'indicibile di anni. Una prima volta accadde alla mia prima
partenza per Assella in Etiopia dove iniziai un servizio che si prolungò nei cinque anni successivi
con rientri a Viareggio ogni 5/6 mesi. Alla Chiesetta, in quel tempo, vivevamo stabilmente Sirio ed
io. All'ora della partenza, ci abbracciammo, Sirio cominciò a piangere e io con lui. Rimanemmo a
lungo così senza dire parola. Abbracciati e piangenti. Sirio iniziava il suo ultimo percorso di dura
malattia che lo portò alla morte... io tagliavo il cordone ombelicale che tanta vita fino ad allora mi
aveva trasmesso. Una seconda volta, ad essere travolto dalle lacrime che mi scuotevano dentro e
che non riuscivo (né tentavo) di fermare, fu appena dopo la morte di Beppino, una decina di anni
dopo. Vivevamo insieme, dopo il suo ritorno alla Chiesetta al termine dei suoi davvero impegnativi
dieci anni da "ragazzo padre" e dopo la morte di Sirio. Beppino morì dieci anni dopo nel corso di
una mattinata drammatica; il cuore - il suo grande cuore - schiantato da un infarto devastante.
Pochi giorni dopo, durante un lungo percorso analitico che mi aiutò a a mantenere il timone alla via,
scoppiai subito a piangere e consegnai all'analista un'ora di pianto dirotto, irrefrenabile, continuo;
cui fece seguito un ritorno alla Chiesetta quieto e raccolto. Infilai la chiave nella toppa e aprii la
porta. Non ci sarebbe stato più nessuno ad aprirmela dall'interno. Come a non pochi uomini accade,
per lutti o abbandoni, iniziai alla soglia dei 60 anni a vivere da solo.
Alla mia partenza per l'Etiopia, anni prima, lasciavo - tra le altre cose - anche una dichiarazione
d'amore in piena regola che non interruppe una serena amicizia e una reciproca stima, ma mi
permise la consapevolezza di poter comunicare le mie emozioni, anche le più intense senza che
prendessero il sopravvento sul livello più profondo del mio sentire. E una disponibilità a vivere la
sfera affettiva senza raccontarmi una cosa per un'altra, lasciando comunque che a decidere la
direzione delle relazioni fosse, in ultima analisi, il dialogo, il confronto, la comunicazione reciproca
anche nel ribollire della emotività. Con tutta l'approssimazione, le incertezze, fragilità e
contraddizioni dell'umano procedere.
Tra le altre cose che lasciavo, non vorrei dimenticare... una figlia!
E' vero che, a quel tempo, era già cresciuta, dagli anni in cui mi ero vista saltare sulle ginocchia la
piccola figlia di una coppia di amici in via di separazione. La piccola si era rassicurata con la mia
presenza e aveva comunicato alla madre tutta contenta: "ora ho due babbi!". Poco tempo dopo,
mentre eravamo in viaggio per una breve vacanza in montagna, mi fermai a una stazione di servizio
per far benzina. Alla pompa c'era un giovane che fu attirato da quella creatura con gli occhi a
mandorla sdraiata sui sedili posteriori e mi disse: "Bellina! O dove l'ha trovata?". E io, d'impulso:
"Trovata? Come trovata? E' mia figlia!", cogliendo contemporaneamente nello specchietto
retrovisivo il volto di lei illuminato da un sorriso solare. Fu così che in una successiva
conversazione telefonica con mia madre le comunicai che un amore antico aveva prodotto un
giovanissimo frutto. Ero abituato, con mia madre, a giocare con le sue apprensioni sul mio conto
raccontandole cose strampalate che provocavano un accenno di preoccupata paura che svaniva
come nebbia al sole quando la misura dell'invenzione risultava evidente. Quella volta. no. Segno
che avevo incrociato il suo immutato giudizio ché la mia vocazione fosse dovuta ad una delusione
d'amore. E comunicò trionfante alle mie sorelle e fratello che l'elenco dei nipoti andava aggiornato,
cosa che lei fece puntualmente con tanto di foto nel novero dei volti di famiglia e la celebrazione,
con puntuale regalo, del compleanno come a tutti gli altri familiari.
Vissi con questa mia figlia, incontrata per caso, tutto l'arco dei sentimenti paterni, innamorato,
geloso, preoccupato, protettore di lei fino al fatidico momento tanto atteso e temuto nello stesso
tempo da ogni padre (immagino!) quando lei mi disse: "Luigi, ti devo dire una cosa. Non importa
che ti preoccupi più di portarmi alle feste e di venirmi a prendere... Ora c'è il mio uomo".
Compagno, fidanzato, cavalier servente, figura paterna, nonno... quanti ruoli ho rivestito con donne
diverse, con maggiore o minore linearità, con tutti i miei limiti, la mia approssimazione umana... Mi
sono chiesto, a volte, perché. Posso pensare che sia stato tutto un tentativo di rientrare nella pancia
della mamma qualunque fosse, volta volta il suo nome: persona, gruppo, istituzione... chissà? Posso
pensare di aver risposto con fiducia a richieste inespresse eppure presenti nel percorso delle
persone... chissà? Non posso negare di aver a volte fatta confusione pur nella speranza di non aver
fatto danni gravi alle persone se non per il riflettersi di stati d'animo complicati dal sovrapporsi di
intenzioni che potevano dar luogo a letture dal risultato in fin dei conti indecifrabile. A migliorare la
lettura dei miei stati d'animo e della collocazione dei miei sentimenti, ha - almeno in parte -
rimediato, da parte mia l'accettare di ricoprire comunque un ruolo e attenermi a quello. Come nel
caso corrente di un donnone dalla pelle nera che mi ha scelto come figura paterna e io - rassegnato e
ringhiante - accolgo i suoi baci delicati e il suo sguardo struggente come espressione trasparente di
spirito filiale.
Tornai dall'Etiopia imbarcato in fretta e furia nell'areoporto di Addis Abeba su un aereo che aveva la
benzina appena sufficiente per raggiungere lo scalo estero più vicino. Ormai l'esercito di liberazione
eritreo e tigrino dilagava dal nord e solo la fuga del dittatore Menghistu garantita e imposta dalle
potenze che curavano i propri interessi economici e politici dell'area, salvò la popolazione della
capitale da un ulteriore bagno di sangue. Ciò che avveniva all'esterno trovava un'eco profonda
dentro di me. Durante i miei lunghi soggiorni ad Assella si erano spente molte luci. Nonostante il
successo (lo posso dire...) del mio lavoro nel cercare di realizzare una formazione pratica che
aprisse porte concrete al lavoro senza dimenticare di incentivare le motivazioni personali in un
contesto culturale e sociale dalle radici antiche, altre rispetto a quelle europee, devastate da anni di
costrizione forzata a collettivizzazioni di stampo staliniano, ne uscii con le ossa rotte. Non solo
fisicamente, ma soprattutto moralmente. Non voglio dilungarmi sui motivi di questa mia
depressione che mi afferrò fin quasi da subito di quei cinque anni di lunghi soggiorni, sulla
possibilità di nuovi cammini umani che non fossero l'arrivare dove già eravamo noi occidentali
nell'esaltazione dell'individualismo, la competitività, il merito, l'economia, il denaro, il potere... La
chiesa missionaria, pur nel rispetto e nel riconoscimento del valore e dell'abnegazione dei singoli,
nell'amicizia fraterna con molti dei suoi membri, mi fece tornare indietro agli anni del mio
inserimento nel mondo del lavoro e alle riflessioni condivise negli incontri dei preti operai. A quel
"eravamo partiti per evangelizzare e siamo stati evangelizzati" che ben descrive l'essere entrati in un
mondo altro in punta di piedi e scoprire che quello che credevamo di portare come novità di vita era
già presente e sorprendentemente ci veniva incontro.
Come poteva portare il vangelo ai poveri, accogliendolo a sua volta da loro, una chiesa come quella
etiope che contava allora circa 300.000 fedeli (su 40 milioni di abitanti) di cui i 2/3 religiose,
religiosi e chierici? Moltissime le opere, certo! A vantaggio di una popolazione stremata dalla fame
endemica e da malattie cronicizzate. Ma la gran parte a senso unico, rivolte a soddisfare il bisogno
per giustificare la presenza in campo agli occhi (e ai ricatti) del potere al comando.
Ne sono uscito con molte "cicatrici", ma vivo, per una buona condizione fisica e psichica
nonostante l'inevitabile scontro con la malaria. Ma soprattutto per il forte legame con la mia
"famiglia" della Chiesetta del Porto sia pure provata dalla malattia e dalla morte di Sirio proprio in
quegli anni. E decisiva è stata l'amicizia con una collega nella missione di Assella con la quale
condividevo la stessa posizione di "personale aggregato" e, nonostante avessimo vissuto fino ad
allora in paesi diversi, scoprimmo di avere anche storie e sensibilità con molti punti di contatto.
Man mano che il regime dittatoriale ad Addis Abeba perdeva colpi, si indurivano le condizioni
generali del paese e anche la vita alla missione di Assella risentiva di restrizioni nei movimenti,
difficoltà di approvvigionamento, complicazioni nei rapporti interni, rarefazione della
comunicazione in genere. Messi in difficoltà da questa situazione, abbiamo cercato di far fronte ai
rispettivi compiti quotidiani aiutandoci reciprocamente a sostenere l'isolamento e le motivazioni che
ci avevano portato lì in una relazione sempre più aperta, intima e fiduciosa. Una volta rientrati a
casa con percorsi e in tempi diversi, facendo i conti - ognuno nei propri ambienti - con la difficoltà
di riassorbire le ferite aperte dagli scontri con la realtà attraversata, scontri tanto duri da mettere in
questione l'assetto della vita precedente l'esperienza etiope, ha preso forma la domanda se andare
verso una futura vita di coppia.
Ha, di seguito, prevalso la serena consapevolezza di voler proseguire l'avventura della vita nella
fragilità della solitudine confortata da una intimità di cuore che la distanza non avrebbe cancellato.
Durante quel tratto di vita, ho imparato, sia nella malattia che nella relazione affettiva, a fidarmi di
più del corpo, a non temerne le improvvise sorprese, a decifrarne il linguaggio. Ho scoperto nel
corpo una bontà sorgiva, una capacità di farsi carico di tanta sofferenza pur di richiamare la mente
al suo compito di cercare la ragionevolezza e il bene complessivo, piuttosto che lasciarsi tentare da
proiezioni sempre più ardite nel mettere al centro della vita l'idea più che la persona. Far dialogare
la mente e il corpo in reciproco ascolto, - anche se non esime (tutt'altro...) dalla fatica della ricerca,
dell'imboccare strade che si perdono e del dover ricominciare a orientarsi -, produce un equilibrio
interiore che fa sì che non si perda il buonumore alla base di ogni serena umana avventura.
E il mio sacerdozio? E il celibato?
Credo che la mia netta non-voglia di festeggiare l'anno scorso i 50 anni di ordinazione sacerdotale,
per cui mi limitai ad accettare un semplice pranzo familiare di un decina di persone, sia dipesa non
solo dalle mie (un po' sciocche, devo ammettere) ritrosie, ma da un capovolgimento maturato in me
a poco a poco e consolidato non saprei io stesso quando. Il fatto di essere stato ordinato sacerdote e
poi, tutto sommato, tenuto spesso in panchina dai vescovi che si sono succeduti anche perché
sostanzialmente (se il paragone può rivelare qualcosa di me) contento di poter giocare "da prete"
quando richiesto per sostituzioni temporanee in incarichi parrocchiali o di insegnamento, ma
contento ugualmente di continuare "ad allenarmi" anche senza giocare da titolare in squadra, ha
provocato in me la ricerca di uno spirito sacerdotale assai poco riferito al fare e piuttosto incentrato
sull'essere. In questo assai vicino a quello che viene chiamato sacerdozio battesimale o dei credenti.
Fino ad esprimere il mio sacerdozio ministeriale nelle circostanze in cui non c'erano altri preti o
comunque si trattava di condividere con altri preti un impegno di cura, insegnamento, presidenza
ecc. E il mio celibato è il risultato non tanto di un impegno preso e difeso da sempre e per sempre,
quanto una condizione accettata come una delle regole di fatto per esercitare il sacerdozio
ministeriale cui non sono venuto meno forse solo perché lo svolgersi della vita concreta mi ha
mostrato il celibato a poco a poco come consono al mio modo di essere. E, di converso, al modo
con cui esercito il sacerdozio ministeriale quale servizio povero e ascolto sincero dell'esercizio del
sacerdozio battesimale dei credenti.

Luigi


in Lotta come Amore: LcA Giugno 2017, Giugno 2017

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