Ricordo molto bene quando ci fu una svolta nel mio rapporto con la donna. Ho tuttora difficoltà a
tenere in ordine le mie cose personali, a fare una valigia o un sacco da montagna: il mio è sempre
rimasto un pigiare alla rinfusa finché, dopo infiniti tentativi, la cerniera scorreva fino in fondo o i
lacci riuscivano a stringere la "bocca" dello zaino. Da ragazzo era mia madre che mi preveniva
sempre. E mi "preparava la valigia" per assicurarsi che non mi fossi dimenticato nulla di ciò che
riteneva indispensabile. Rito che mi diceva ogni volta (in un linguaggio che ho capito sempre
troppo tardi) di come mai avrebbe voluto lasciarmi andare.
Dunque: vivevo i primi anni di sacerdozio ancora da studente nelle facoltà teologiche romane e non
mi rendevo conto che mi stavo allontanando dalla possibilità di iniziare, come i miei compagni, il
ministero sacerdotale attraverso un incarico pastorale, una casa sia pur piccola da abitare e da
gestire, un ruolo sia pure in subordine che allora diventar parroco era una carriera da fare. Abitavo -
dopo la "licenza" in teologia - presso la Comunità di Bicchio, vicino a Viareggio. Ospite, amico di
don Rolando e di Sirio, e pian piano - visto che la mia permanenza si prolungava -, inserito nella
vita quotidiana e nei lavori dell'accoglienza e della casa. Passando i mesi, mi si presentarono i primi
accenni di una autonomia per me problematica nell'accudimento del mio - peraltro essenziale -
guardaroba. Tra un atto e l'altro della vita giornaliera ne parlai con le due ragazze che completavano
allora la Comunità e ne ebbi una risposta chiara e indiscutibile: dovevo imparare a fare da me. Al
più mi avrebbero dato delle dritte, per esempio come attaccare un bottone. Fu così che - al netto
delle ricadute in pigrizia e bambinismo - evitai di cercare nella donna, insieme all'affetto, quella
cura materna che oggi - in un contesto culturale molto diverso da quello degli anni '60 dello scorso
secolo - può stare ancora nelle aspettative dell'uomo.
Credo che risalga ad allora una specie di contrappasso nei meccanismi poco decifrabili dei miei
innamoramenti per cui spostai inconsciamente la mia attenzione su donne "difficili" dal punto di
vista maschile: indipendenti, poco disponibili a rimanere in secondo piano, capaci di sostenere un
confronto di volta in volta faticoso eppure ricco di sviluppi e prospettive. Compagne, direi. Rapporti
affettivamente coinvolgenti, ma, per più ragioni non maturati e non richiesti a livello di coppia.
Il mondo del lavoro manuale in cui ero entrato al compimento dei miei trent'anni, intriso di materia,
per niente sindacalizzato, che spietatamente metteva a nudo la mia impreparazione, assorbiva quasi
del tutto le mie energie. La mia identità sacerdotale ("chi Luigi, ... il prete?), sia pure ridotta
all'osso, costituiva per me la traccia della mia vita in quell'altalena tra ambiente universitario e
immersione in un mondo di polveri niente affatto sottili e marciume rugginoso. Ricordo che -
manovale non specializzato, su una piccola nave da trasporto in trasformazione -, inforcavo ogni
mattina gli occhialetti dorati con la montatura ben fissa sugli orecchi che mi ero fatto fare per
andare in montagna, ma che - in quell'ambiente - mi davano un'aria da intellettuale appena uscito
da un deposito di carbone... Lo facevo come una sfida, per dichiarare a me stesso e all'ambiente cui
ero ormai legato chi ero e da dove venivo... Sbaglierò, ma, in questi giorni, me l'ha ricordato - da
lontano, vero! - l'orgoglio e insieme la leggerezza con cui una ragazza nordafricana che fa servizio
volontario nel trasporto dei disabili, porta il velo in capo sulla divisa dell'associazione cattolica per
cui fa servizio..
Eppure, in quegli anni, due amici - con i quali avevo condiviso gli ultimi tre anni di vita di
Comunità -, due amici preti operai, iniziavano una vita di coppia e mettevano su famiglia.
Non li ho affatto sentiti allontanarsi né venir meno ad un impegno fino ad allora condiviso. E' vero
che la Comunità di Bicchio stava iniziando a scomporsi, fedele ad una delle pochissime regole non
scritte: che cioè ogni membro della Comunità doveva anteporre alla Comunità e alle sue esigenze le
proprie scelte personali e il proprio percorso di vita. Ma il loro cammino personale e di coppia mi
ha sempre destato non solo rispetto, ma anche ammirazione sincera per come hanno sempre
indirizzato le loro famiglie in esistenza povera, condivisa, sempre accogliente.
Uno di questi due amici chiese ed ottenne (appena in tempo, perché le autorità ecclesiastiche, subito
dopo, si sono dapprima irrigidite e poi - mi sia permesso dirlo - imbarbarite) la dispensa necessaria
per il matrimonio religioso. Invitato, andai volentieri e, dopo che lui ebbe parlato manifestando tutta
la sofferenza del suo animo sinceramente sacerdotale, pronunciai anch'io poche parole di augurio,
stima e fiducia. Poi aggiunsi, rivolto all'amico: "Non ti preoccupare troppo... quando sarà la nostra
ora e arriveremo di fronte a S. Pietro, non ci verrà chiesto se siamo stati preti, laici, o che so io. Ma
semplicemente, "sei stato un uomo?".
Non saprei davvero dire perché non cercai anch'io di intraprendere la loro strada. Da una parte,
forse, avevo ancora bisogno di aggrapparmi a una identità sia pure divenuta estremamente precaria.
E' stato quello il tempo in cui mi sono sentito più interpellato da una domanda spesso ripetuta nel
giro dei preti cui periodicamente mi avvicinavo: "ma tu, lavorando per così tante ore, quando lo
trovi il tempo per fare il prete?".
Seguirono per me anni (la prima metà degli anni '80) in cui mi raccolsi intorno a me stesso. Anni in
cui intuivo che qualcosa stava muovendosi in me verso un dipanarsi del mio groviglio interiore. Ho
letto, proprio in questi giorni, dei post su facebook che (non ho avuto voglia di verificare, ma va
bene così) parlavano delle aragoste che, man mano che il corpo cresce, bisogna che abbandonino il
loro guscio divenuto stretto e si nascondono per fuggire i predatori in anfratti di roccia in attesa che
il nuovo guscio prenda forma e le difenda. Ripensandoci è un po' quello che è successo a me in quel
periodo vissuto nella rarefazione del quotidiano di una vita vissuta alla Chiesetta del Porto in cui
eravamo come una famiglia, perché ognuno di noi stava approfondendo il solco personale del
proprio impegno e della propria ricerca. Anch'io percepii, in qualche modo, la direzione della
corrente. Soffrendo per la mancanza di quel nido, caldo di affetti e di rassicurazioni, che era stata la
Comunità, cercai di superare le mie paure e di abituarmi al volo. Il mio corpo, - povero corpo
intelligente e buono! -, mi dette una mano e accolse tutta la mia sofferenza immettendola in una
grave polmonite che mi costrinse, per oltre due mesi, in ospedale e in una vera convalescenza, ad
affrontare la solitudine e a prendere maggiore consapevolezza delle mie capacità e dei miei limiti
nel far fronte alle durezze dell'esistenza. Fu in quegli anni che mi venne in mente di spendere tutte
le ferie in un colpo solo e viaggiai (con il furgoncino della ditta) per un mese in solitaria, passando
da un B&B all'altro tra Inghilterra del nord, Scozia e Galles. Scopo del viaggio: scoprire "chi sono
io per me stesso" e, quindi, "sono in grado di sopportarmi?". Forte della esperienza di convivenza
con il mio io, tornai a Viareggio. Ignaro che, nel giro di tre anni sarei ripartito per una nuova e assai
più lontana avventura.
Luigi
in Lotta come Amore: LcA Giugno 2017, Giugno 2017
Luigi Sonnenfeld
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