Vecchio e celibe: la vita come vocazione

Continuo a guardarmi indietro, non per nostalgie ricorrenti, ma per convincermi che la mia realtà
attuale non è la sommatoria di eventi di diverso spessore e direzione che si sono accatastati l'uno
sopra l'altro nel tempo, come tronchi d'albero ammassati nel letto del torrente della mia vita da
successive piene. Nella consapevolezza di dover resistere all'idea che tutto sia accaduto solo per
caso e cercare di individuare quei fili che misteriosamente mi portano oltre me stesso. Può essere
tutta una illusione questa mia, ma è lì che ho affidato tutta la mia vita che si è snodata fin dalla
prima età adulta nella fiducia di rispondere ad una vocazione, ad una "chiamata".
Scrivo queste righe iniziali al mattino nella solitudine della grande canonica di S. Pietro a Vico,
dopo una domenica di incontri, sollecitazioni le più diverse, una volta si sarebbe detto da quelle
materiali a quelle spirituali. Anche se, da tempo, la linea di demarcazione tra il materiale e lo
spirituale non mi pare più così netta, a favore di una confluenza che non si limita a mescolare le
carte, ma produce nuova energia e ribollire di acque di vita.
Ho appena preso un caffè, e l'odore che sprigiona la vecchia moka mi ricorda che sono ormai quasi
vent'anni che ho perso il gusto dell'ovvio quotidiano quando non vivendo da solo, come mi
accadeva senza soluzione di continuità per sessant'anni fin dalla nascita, era normale che il caffè al
fuoco, annunciato dall'odore che si spargeva per la casa, costituisse un punto di incontro tra più
persone. Perché "pareva brutto" farselo per proprio conto, anche se il rito veniva consumato nel
silenzio di una comunicazione impedita sia pure solo dalle rispettive preoccupazioni.
Sensazioni di ogni convivenza...
Un pensiero tira l'altro... come le ciliege!
Cosa c'entra l'odore del caffè con il mio entrare ventunenne in Seminario e il mio consegnarmi
all'impegno del celibato? Con tanto di meditazioni nei cinque anni tenute da diversi predicatori sulla
totale dedicazione di sé all'annuncio del Regno ed al primato della santità "rituale" nel servizio
sacerdotale?
L'invito all'integrità sessuale senza la minima concessione alle relazioni umane, alle emozioni e ai
sentimenti si incastrava bene con l'entusiasmo giovanile dell'offerta di sé e dell'impegno totale.
Credo che nella mia vocazione sacerdotale un ruolo non secondario l'abbia giocato quel misto di
paura e di orgoglio insieme che, di fronte alla complessità del futuro, cerca di fare un salto che
semplifichi le scelte di vita nel nome di un ideale superiore. Lasciando così incompiuti percorsi di
crescita che solo l'aderenza alla realtà del quotidiano nelle sue mille diramazioni, può assicurare.
Uno di questi è stata sicuramente l'educazione affettiva e il rapporto uomo-donna. Condizioni del
proprio essere che sono snodi importanti se non decisivi dalla nascita all'adolescenza e non si
recuperano più, se non attraverso una lunga opera di compensazione affidata alla vita, così come
difetti fisici che ci accompagnano dalla nascita e che riescono ad integrarsi in un corpo complesso
che si costruisce nel tempo.
Ho vissuto quindi gli anni del Seminario in quell'ardore che contiene lo slancio della ricerca di
perfezione e i momenti neri dell'esperienza del limite e della caduta. Il tutto calmierato dalla
possibilità, sempre a portata di mano, della confessione dei propri peccati e da quell'essere rimesso
sulla linea di partenza dalla relativa assoluzione in una condizione spesso più fragile e confusa di
prima.
D'altra parte il "mondo" in cui ci si muoveva non operava sulla distinzione, ma sulla separazione e,
dove era possibile, sulla rimozione e sul silenzio. Sono stato "accompagnato" in seminario dal
gruppo scout cui appartenevo da ragazzo e dal "rito" della partenza: era ancora - sia pure per poco
tempo - un gruppo strettamente al maschile. Pochi anni e si sarebbe concretizzata la pratica della
co-educazione e i gruppi misti al maschile e al femminile. Ma, in seminario, il nostro insegnante di
teologia morale, arrivato ai Comandamenti, dovendo affrontare il Sesto (che nella formulazione
stessa consegnava ogni minimo accenno di infrazione alla "purezza" alla stessa misura di gravità:
"Non commettere atti impuri"), prima di tutto fece chiudere i vetri delle finestre, aperte perché si
succedevano dolcissime mattinate di una primavera solare, per evitare che possibili (ma per niente
probabili...) ascoltatori potessero carpire chi sa quale segreto; poi, dopo alcune sue caratteristiche
contorsioni seduto in cattedra, ci ammannì questo discorsetto in tono complice e confidenziale: "
Siete tutti grandi, vero? Le sapete da voi queste cose... passiamo al Settimo Comandamento!". E
noi, ancora oggi, ci meravigliamo se larghissime quote del corpo clericale, non solo quello
conservatore e bigotto, sono inclini al silenzio e alla rimozione di tutto ciò che ha a che fare con il
sesso?
Sono passati 50 anni da quei tempi per me iniziali. La strada tracciata dai solerti predicatori degli
esercizi spirituali prima dell'inizio delle scuole in seminario, esemplificata nella concretezza della
giornata tipo del presbitero formato don Abbondio, è rimasta nell'archivio della mia memoria come
tutto ciò che a me non è mai accaduto. Posso dire quindi che mi è accaduto di tutto, eccetto forse
quello che ci si aspetterebbe da un prete così come lo si dipinge convenzionalmente, nel privato e
nel pubblico.
Per quanto riguarda il celibato posso dire che - sia chiaro, nel mio caso,- lo leggo sempre più come
una vocazione e sempre meno (ma in me questo ha sempre contato il giusto) come un dovere di
stato.
All'inizio della mia vita sacerdotale la condizione celibataria faceva parte del "pacchetto" che mi
avrebbe portato verso nuove "terre" idealmente immaginate della condizione umana. Poi, man
mano che entravo in contatto con la realtà multiforme dei destini personali e la complessità delle
storie di vita di donne e uomini, nel pieno dell'età adulta ho iniziato a percepire un solco fertile là
dove, nello sfumare del mio sogno idealizzato di vita "altra", mi sembrava di vedere solo una ferita.
Quanti uomini si trovano nella condizione di non poter vivere e quindi sperimentare quella
completezza umana che solo l'incontro uomo-donna può dare? Ho vissuto e lavorato nel mondo
dell'handicap fisico e mentale, ho ascoltato per lungo tempo le pene di chi sente urlare nella propria
carne il bisogno di un affetto e non trova risposta per via di una instabilità psichica che ne mina
ogni capacità di normale relazione. Ho conosciuto storie incredibili di fedeltà e di astinenza da parte
di lavoratori del mare con imbarchi di lunghi mesi in mare; e quell'arrangiarsi per un'illusione di
amore che ti lascia più solo che mai, umiliato nel sentirsi preda di un istinto animale... Sono sceso
nei bassifondi di una umanità abbandonata al proprio destino, vi ho incontrato dei fiori di una
purezza indicibile in tanta melma. E palate di sofferenza alla ricerca di redenzione. L'essere meno
uomo accettando di non entrare nel percorso umano di completamento dell'essere nel "noi" e di
affrontare la solitudine del singolo, mi ha consegnato ad essere parte di una compagnia eterogenea e
multiforme di quella porzione di umanità diffusa che sono "i poveri della terra" e che "nessuno può
contare".
Sento di essermi consegnato poco alla volta a questa condivisione, inizialmente accettata, e poi non
voluta e non cercata ma che ha acquistato campo in me attraverso le mie fragilità e le mie
debolezze. E ora, con mille titubanze, la sto riconoscendo e accogliendo. Tutto questo può essere
anche solo frutto della mia ormai conclamata senescenza... certo! Eppure guardandomi indietro
leggo quelle che possono essere chiamate, se prese una per una, quali sbandate condite di delusioni,
fughe dettate da vecchie paure, indecisioni puerili, come un filo sottile, un sentiero incerto eppure
battuto che mi porta a casa. Quando ormai scende la sera della mia vita, è vero. Uno tra gli ultimi, è
così. Ma a casa. Quando non ci sarà più né uomo né donna...
Luigi

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in Lotta come Amore: LcA Giugno 2017, Giugno 2017

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