"Un comune cittadino, con un percorso di vita ordinato, una persona cioè che mai ha travalicato il limite della legalità, quale trattamento dovrebbe pretendere per chi, a differenza sua, ha commesso reati? Proviamo a partire da quelli che potrebbero essere le emozioni e i sentimenti più immediati provati da questo ipotetico cittadino nei confronti del suo <opposto sociale>.
La tentazione forcaiola, manettara, quella del 'chiudiamolo dentro e buttiamo la chiave' è comprensibilmente umana. In altri contesti e in altre epoche, infatti, compito dei
governi e della politica sarebbe quello di promuovere l'educazione della parte giustizialista che è in ognuno di noi, informarla, placarla, contenerla e renderla marginale. Negli ultimi anni, invece, assistiamo al comportamento contrario: il cittadino <incluso> viene fatto sentire via via più insicuro, assediato, in pericolo, e nonostante questa insicurezza non sia reale (a partire dagli anni Novanta la criminalità ha fatto registrare una netta e continua diminuzione sia dei reati contro il patrimonio sia degli omicidi - cfr. Rapporto Bes 2013, capitolo 7 "Sicurezza" http://www.istat.it/files/2013/03/7_Sicurezza.pdf), nei discorsi pubblici si utilizzano aspri toni vendicativi e molte competizioni elettorali si giocano e vengono vinte su promesse quali tolleranza zero, condanne esemplari, certezza della pena.
Ma cosa c'è di sbagliato in questa spirale crescente di domanda e offerta carceraria?
La risposta è davvero semplice: il carcere non funziona". (o. cit. pag. 52 e s.)
Non vi sono molti dati da consultare, anzi. Ma lavorando su alcuni numeri si hanno indicazioni univoche. Tra coloro che vengono scarcerati in fine pena, scopriamo che, in una indagine parziale svolta nel 1998, quasi sette condannati su dieci commettono nuovi reati. Mentre, tra coloro che sono sottoposti a misure alternative al carcere la recidività scende a due su dieci. Qualcosa vorrà pure dire per dare ragione di una differenza così elevata!
Durante le lunghe ore di carcerazione in cella, l'argomento più gettonato è la descrizione delle proprie "gesta" alla ricerca dei punti deboli, dei difetti da cercare di eliminare in successivi tentativi da realizzare una volta "fuori". Ricordo un giovane detenuto dell'Est europeo che mi diceva candidamente che nella sua famiglia solo il padre lavorava, mentre fratelli, cugini e parenti erano tutti ladri di professione e che una volta uscito avrebbe ripreso a rubare forse in un altro paese dove - per sentito dire - le leggi non erano così dure come da noi (sic!).
Inoltre, nello specifico delle Case Circondariali come quella di Lucca, convivono insieme detenuti in attesa di giudizio e detenuti giudicati. Questo mette insieme due tipologie di detenzione che hanno reazioni diverse nei confronti del loro comune stato di vita. I detenuti in attesa di giudizio, infatti, sono sotto l'influenza degli avvocati e dei familiari che, di solito, cercano nei colloqui di alleggerire la posizione del recluso dandogli motivi di speranza sia per affetto che per motivi professionali. E ciò impedisce o almeno rallenta la presa di coscienza personale delle proprie responsabilità. Poiché spesso la detenzione prima del giudizio si prolunga per mesi, il detenuto difficilmente si mette in questione. Se c'è qualche possibilità che la reclusione induca un ripensamento è una volta che il detenuto può cominciare a contare i giorni che lo separano dalla liberazione. Ma anche qui, la lentezza dell'apparato nel determinare i cumuli di pena per altri reati o accessori allo stesso reato per cui si è condannati, non facilitano questo percorso in cui "si rientra in se stessi".
Un'altra ricerca che conferma la "inutilità" del carcere è quella di Giovanni Torrente della università di Torino per conto della associazione A Buon Diritto. (o. cit. pag. 56):
Lo studio ha mosso le sue ipotesi iniziali partendo dall'idea che il 'panico' percepito dopo l'approvazione dell'indulto (legge 31 luglio 2006) non fosse in realtà supportato da dati oggettivi. Per andare alla ricerca di evidenze scientifiche, quindi. Torrente ha condotto un monitoraggio in varie fasi per contare quanti dei beneficiari dell'indulto avessero fatto ritorno in carcere. Le rilevazioni sono state fatte a 6, 17, 26, 35, 38 e 60 mesi e i risultati dicono che dopo cinque anni dall'entrata in vigore del provvedimento di clemenza è tornato in carcere il 33,92% dei beneficiari; la recidiva, quindi, è stata poco più della metà di quella registrata dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria in riferimento a chi sconta interamente la pena in carcere (vedi indagine del 1998 appena sopra), l'incremento mensile dei recidivi diminuisce con il passare del tempo, confermando che i mesi immediatamente successivi alla scarcerazione sono quelli in cui il rischio di delinquere nuovamente è più alto; gli italiani sono più recidivi degli stranieri (38,11% contro 25,36%); chi ha beneficiato dell'indulto in misura alternativa ha un tasso di recidiva molto inferiore rispetto a chi era detenuto in carcere (21,97% contro 31,15%).
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Nonostante la sua intollerabilità, il carcere è ancora oggi l'istituzione principale del sistema penale, non solo in Italia. Ma non in tutti gli ordinamenti la reclusione ha l'indiscussa centralità che ha da noi. Si pensi, ad esempio, che se in Italia l'82,6% dei condannati sconta la pena in carcere, in Francia e Gran Bretagna la percentuale scende al 24% e che uno degli indici di recidiva più basso d'Europa (30-40% nei primi tre anni) è ottenuto in Svezia, soprattutto attraverso il lavoro all'esterno e con pene non carcerarie. In Gran Bretagna e in alcuni Stati americani le attività rieducative sono state recentemente valorizzate attraverso i social impact bond, ovvero progetti d'investimento sociolavorativo dei detenuti, con una remunerazione del capitale di rischio proporzionale al perseguimento del fine del reinserimento sociale (ne è derivata una riduzione del rischio di recidiva del 7,5%).
Insomma, negli altri ordinamenti vi è un ampio ricorso alle pene non detentive, dimostratesi molto più utili nella prevenzione della recidiva e nel reinserimento sociale. In questo senso si muove anche l'Unione europea, che sin dalla decisione quadro 2008/947/Gai ha sollecitato un'ampia applicazione delle misure alternative alla detenzione e dei vari istituti volti a consentire il differimento dell'esecuzione della pena, al fine di verificare le possibilità di reinserimento sociale dei condannati. Le misure non carcerarie sono valorizzate anche dal Consiglio d'Europa, che sin dalla Raccomandazione 16/1992 ha auspicato l'ampliamento del novero delle misure alternative negli Stati membri, tra le quali anche le community sanctions, che <mantengono il reo nella società con l'imposizione di alcuni obblighi e condizioni> secondo un indirizzo po ripreso, con riferimento alla liberazione condizionale e all'affidamento in prova, dalla Raccomandazione 22/2003.
Una più ampia applicazione delle misure non carcerarie, dal contenuto prescrittivo, interdittivo e risarcitorio (e la loro introduzione, se ancora non previste dalla legislazione di riferimento, come nel caso delle pene principali diverse da detenzione e multa), potrebbe dunque servire, almeno in una prima fase, per ridurre l'incidenza della reclusione. Successivamente, queste diverse sanzioni dovrebbero sostituire del tutto il carcere, consentendone l'abolizione e rafforzando il contenuto rieducativo della pena. Sin dalla sentenza 313/1990, infatti, la Consulta ha chiarito come le istanze di risocializzazione non siano limitate alla sola fase esecutiva della pena detentiva ma debbano, invece, ispirare anche la scelta della sanzione, potendo attingere a un ventaglio di misure, privilegiando quelle da scontare in liberta. (o.cit. pag. 73 e s.)
Il primo ma indispensabile passo da fare è dunque verso la riduzione del diritto penale. Un diritto penale minimo nella sua sfera di intervento, nella sua effettiva attivazione, nelle sue previsioni punitive. Questo primo passo è essenziale per ridare credibilità al sistema penale nel suo insieme e quindi, consentire l'abolizione dell'istituto che più di ogni altro lo delegittima, ovvero il carcere, per come è e per come non può non essere.
Pertanto, secondo questo programma minimo di avvicinamento all'abolizione del carcere, le pene non detentive dovrebbero rappresentare la soluzione da preferire in linea generale, riservando il carcere ai soli reati non punibili altrimenti, commessi da soggetti la cui pericolosità sociale ne giustifichi una detenzione temporanea. Anche se riservata a questi limitati casi, la pena detentiva dovrebbe comunque essere profondamente riformata nei contenuti e nelle modalità di esecuzione. Altrettanto (e anzi, ancora di più) residuale dovrebbe essere effettivamente la custodia cautelare in carcere. (o.cit. pag. 86 e s.)
in Lotta come Amore: LcA Dicembre 2016, Dicembre 2016
Luigi Sonnenfeld
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