Una volta che Simone ebbe l'incarico dal vescovo e fu accettato dal direttore, si concluse il mio "servizio" nel carcere di Lucca.
Conclusi con un progetto, un mio progetto, l'unico che sia riuscito a presentare nei mesi precedenti e che riuscii a portare a termine. Proposi a una decina di detenuti di lavorare in gruppo sulla nascita/uscita dal carcere. Per dare concretezza a questo itinerario, posi come scopo del lavoro l'incontro con un gruppo di disabili, cioè dar loro un motivo per uscire dal Centro in cui passavano le giornate ("loro", nel loro corpo e nella loro mente, sono in un "carcere" dal quale non possono uscire mai). Inoltre poiché facevano bei lavori di cucito proposi ai detenuti che parteciparono di scrivere su stoffe una parola che esprimesse il loro pensiero sempre incentrato sul tema nascere/uscire. Alla fine sarebbero stati i disabili a cucire i diversi pezzi di stoffa insieme ai loro che rispondevano così alle "provocazioni" che giungevano dal carcere. Venne fuori un arazzo di notevoli dimensioni e davvero un bel colpo d'occhio. Lo portarono i disabili venuti dalla Versilia in pulmino a Lucca. E fu presentato a due voci, dagli autori e dai disabili intervenuti, di fronte a un gruppo di detenuti. Furono fatte osservazioni e commenti caldi e spontanei. Ad un certo punto il gruppetto di detenuti che faceva musica si è messo a suonare un ballabile e sembrò che tutti, ospiti e detenuti, operatori non aspettassero altro. Nel teatrino del carcere si ballò a lungo e fin dall'inizio ci si rese conto che tra noi mancavano le guardie. Gli agenti ci avevano lasciati incredibilmente soli... Anche per loro nascere/uscire descriveva la possibile libertà nella vita carceraria. Con Simone comunque, come ultimo atto insieme, partecipammo nell'ottobre del 2013 al Convegno nazionale dei Cappellani delle carceri a Roma. Erano anni che mancava questo incontro, occasione di approfondimento e di scambio tra esperienze e modalità diverse di rispondere alle sollecitazioni della detenzione e delle problematiche conseguenti. Furono fondamentali in quel Convegno le testimonianze dirette dei familiari protagonisti di percorsi di quella che viene definita "giustizia riparativa". Una giustizia che non termina con la condanna definitiva del colpevole, "giustizia è fatta" secondo il rituale del tribunale. Ma comincia proprio là dove si definiscono secondo la legge i ruoli rispettivamente della vittima e del colpevole. E della ricerca di una, sia pur parziale, riparazione da parte del colpevole nei confronti della vittima, attraverso un cambiamento di vita che evidenzia il pentimento che si esprime in atti concreti di segno opposto rispetto a quanto agito nella azione delittuosa. L'ultimo giorno del Convegno si aprì la possibilità di un incontro particolare del gruppo dei cappellani con Papa Francesco. Rimanemmo mezz'ora con lui che volle scambiare poche affabili parole con ciascuno di noi. Nell'indirizzo di saluto il nostro coordinatore espresse il desiderio che il papa sostenesse pubblicamente il percorso di "giustizia riparativa" come segno di misericordia e di perdono tale da mettere in questione la pratica carceraria come risposta al desiderio di vendetta che azioni odiose provocano nell'animo umano. Nella breve risposta Francesco - realisticamente è bene dirlo - descrisse questo nostro desiderio come utopico e davvero da sogno. Vidi la stanchezza di un uomo provato anche dall'età, e avrei voluto amichevolmente prenderlo sottobraccio e ricordandogli i suoi interventi a favore dell'accoglienza e delle misure umane nei confronti dei migranti, avrei voluto dirgli: "Francesco, non ti sembra che - giocando con le parole - cencio dica male di straccio?".
Queste due esperienze mi hanno accompagnato nei mesi seguenti e hanno costituito per me fonte di riflessione e di confronto con l'idea stessa di carcere e carcerazione. Con questo non voglio dire che tutto ciò che viene fatto da uomini e donne che cercano attraverso di umanizzare le strutture carcerarie, non serva a niente. Tutt'altro. La realtà del carcere è attraversata da tanti che ci lavorano e portano la loro umanità nell'azione professionale e quelli che offrono la loro disponibilità e il loro tempo perché il carcere non sia solo detenzione e privazione della libertà, ma anche, nella misura possibile, occasione di incontro, di riflessione e di cambiamento nell'atteggiamento di fronte alla società, agli altri, a se stessi per persone che hanno compiuto azioni dis-umane.
Ma occorre chiedersi se "non ci appare stupefacente che in tanti secoli l'umanità che ha fatto tanti progressi in tanti campi delle relazioni sociali non sia riuscita a immaginare nulla di diverso da gabbie, sbarre, celle dietro le quali rinchiudere i propri simili come animali feroci?" (G. Zagrebelsky).
Luigi
in Lotta come Amore: LcA Dicembre 2016, Dicembre 2016
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455