stessa "superbia di sè"
L'esperienza quotidiana del carcere mette in contatto con un'umanità molto più vicina alla nostra di quanto si possa pensare. Nascere in una famiglia piuttosto che in un'altra (cose che non scegliamo), in un ambiente culturale rispetto ad un altro, in un paese povero, ti mettono già in una posizione precisa alla "partenza" della vita.
Tu ricevi un'educazione in cui certi comportamenti (reati) sono normali stili di vita, e a volte non hai nemmeno scelta e ci dovrai mettere un bel po', ammesso tu ci riesca, a vedere la vita in un'altra prospettiva, assumendo nuovi valori e rifiutando i dis-valori..
In questo percorso, apparentemente in modo paradossale, a volte si inserisce il carcere.
Per una persona che corre come un treno su determinati binari, senza essere mai sceso e credendo che quella sia l'unica linea di viaggio che esista, a volte il carcere diventa una fortuna; un incidente di percorso, che ha fermato il treno e ti ha costretto a scendere, una possibilità.
Tutti sappiamo, almeno dal dibattito civile, che il carcere così come è concepito come realtà detentiva e poco rieducativa è, non solo incostituzionale, ma superato.
Non svolge cioè quel ruolo di riabilitazione umana, come si fa negli ospedali per chi esce da un grave incidente e deve di nuovo, ad esempio, imparare a camminare. Ri-abilitazione, cioè recuperare o addirittura scoprire per la prima volta, di avere delle "abilità" umane, relazionali, sociali, rispetto alle abilità furtive.. o di altro genere apprese fino a qual momento.
La mia esperienza in carcere, avuta in "dote" come cappellano dai miei predecessori, don Beppe Giordano e don Luigi Sonnenfeld, e li ringrazio per questo.. mi dice che la sfida è cercare di accompagnare le persone che finiscono in carcere, in un possibile cammino di riabilitazione umana e spirituale.
Certamente è necessaria la collaborazione e la volontà degli interessati, ma per fortuna in questi quattro anni, ho incontrato individui che, quantomeno, si sono concessi la possibilità di pensare e sognare una vita diversa.
Persone che in carcere hanno iniziato a scrivere, altre a leggere imparando a nutrire l'anima, altre a pregare con semplicità cercando al forza per ripensare le proprie scelte. Certo, molti altri vivono il carcere per quello che è, un parcheggio in attesa di tornare a fare la vita di sempre, per poi magari tornare di nuovo dentro.
Ricordo che la prima cosa che mi colpì del carcere fu, non il rumore delle chiavi o le sbarre, ma il cortile del passeggio, quello che si vede spesso anche nei film, che mi diede la sensazione della libertà persa, questo camminare reclusi.
Dove per tutti noi fare una passeggiata è libertà e a volte "evasione" dagli impegni quotidiani, li è misurazione a lenti passi del limite imposto, ogni giorno.
Inoltre c'è la realtà interculturale e religiosa, per via della presenza di molti detenuti extracomunitari, molti dei quali di religione musulmana. A questi ultimi non è facile proporre un percorso riabilitativo, perché tendono a isolarsi e a stare tra loro e chi di essi si stacca dal branco non è ben visto dagli altri.
Ma a volte ci sono piccoli segnali incoraggianti, ad esempio dopo gli attentati a Parigi dello scorso anno, un giovane detenuto musulmano venne con coraggio alla messa per chiedere scusa di quanto era accaduto e ci fu un dialogo bello con gli altri detenuti presenti all'eucarestia.
Una cosa importante sono le attività di volontariato, attraverso le quali si cerca di favorire la scoperta di sé, la riflessione sull'origine dei propri comportamenti, il confronto con la Parola di Dio capace di illuminare l'esistenza.
A proposito, l'apostolo Matteo oggi rientrerebbe in una categoria criminosa, in quanto appartenente al gruppo dei pubblicani (spesso corrotti riscossori delle tasse per conto dei Romani, considerati dal resto del popolo ladri) eppure Gesù lo ha chiamato fra i dodici (anche Zaccheo era un pubblicano, addirittura il capo):
Andando via di là, Gesù vide un uomo, seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì.
Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». Gesù li udì e disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori». (Matteo 9,9-13)
Mangiare con pubblicani e peccatori.. forse è possibile anche per noi, solo se riconosciamo il crimine che è in ciascuno di noi, che è il peccato che abita il cuore dell'uomo: la superbia.
Abbiate pazienza, desidero condividere con voi su questo, una parte di un interessante articolo di Massimo Recalcati:
"Al posto del culto di Dio avviene il culto del proprio Io assimilato alla potenza di Dio. Non è forse questo il peccato principe del nostro tempo? Egocrazia, Iocrazia afferma Lacan. L'ordine della creazione viene capovolto: l'uomo compete con Dio - come figura radicale dell'alterità - negando il suo debito simbolico. Farsi un nome da sé senza passare dall'Altro è la cifra più delirante del nostro tempo. Il culto superbo di se stessi implica, infatti, il disprezzo cinico per l'altro. La vita umana smarrisce ogni senso di solidarietà per dedicarsi a senso unico al potenziamento di se stessa. Per questa ragione Lacan ha associato al culto narcisistico per se stessi la tentazione suicidaria e la pulsione aggressiva come due facce di una sola medaglia. Il superbo può essere facilmente preda dell'ira perché il suo bisogno di attaccare l'Altro coincide con il suo rifiuto di ogni esperienza del limite. Il superbo come l' iracondo si considera sempre dalla parte del giusto. La sua esaltazione di se stesso mostra una totale assenza di autocritica che può sfociare facilmente nella paranoia e nella megalomania. Il superbo è esente da critica perché è sempre innocente e ingiustamente perseguitato, allontanato, emarginato, escluso. La colpa è sempre degli altri che non riconoscono mai appieno il suo valore assoluto. Non è un caso che la clinica psicoanalitica abbia individuato - in linea qui con la grande saggezza buddista - nell'eccessivo attaccamento al proprio Io il denominatore comune delle malattie mentali. Ma, al tempo stesso, la vita del superbo è una vita triste perché egli si trova nell'impossibilità di entrare in relazione con un Altro che disprezza supremamente. Il suo destino non può che essere quello del più acuto isolamento".
Ecco, il lavoro in carcere è l'incontro con volti altri, segnati come noi da questa superbia.
Penso che Lotta con Amore, in questo caso, si possa declinare come guarire insieme, camminando insieme, per uscire dal cortile del nostro Io, imparando quella solidarietà che è possibilità di liberazione della nostra umanità.
In carcere, come fuori, penso che il lavoro sia lo stesso.
Allora entrare in contatto col carcere, per la società civile, è il riconoscimento che non basta il "sacrificio" (la pena), ma la misericordia (percorsi rieducativi) "Misericordia io voglio e non sacrificio", la strada per la scoperta di una vita gioiosa, capace di trovare nuove strade, scelte altre..
Nella possibilità di un vero possibile riscatto.
Aiutando al contempo le persone che hanno commesso reati a rendersi conto del male che hanno inflitto agli altri, pensare quindi strade per una "giustizia riparativa": per quanto possibile "riparare" il male compiuto.
Come Zaccheo, il pubblicano, che decise di riparare restituendo a chi aveva rubato anche più del dovuto, facendo frutti degni di conversione:
<Entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand'ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomoro, perché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch'egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».>
(Lc. 19,5-10).
don Simone Giuli
in Lotta come Amore: LcA Dicembre 2016, Dicembre 2016
Luigi Sonnenfeld
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tel: 058446455