Don Sirio Politi, don Beppe Socci: i fedeli

È stato un piacere giorni fa ricordare don Sirio e don Beppe a Lucca, nella bella libreria Luccalibri dell'amico Ciancarella. L'occasione era data dalla presentazione di "Figlio del Concilio", l'autobiografia di Roberto Fiorini uscita pochi mesi fa, interessante e vivace come tutti i racconti di vita. Il libro ci fa ripercorrere un pezzo di storia italiana intrecciata alla sua: dalla decisione di farsi prete a quella di entrare nel mondo del lavoro come infermiere, all'impegno sindacale, a quello ecumenico.
Alcune pagine sono dedicate a Viareggio, alla sua particolare atmosfera, alla convivialità che si respirava alla Chiesetta del Porto e al Capannone, laboratorio artigianale dove preti operai, giovani e handicappati lavoravano insieme.
Come spiegavo quel pomeriggio, guardando indietro c'è una considerazione che emerge chiara fra tutte: don Sirio e don Beppe, e in genere i preti operai, sono stati dei fedeli, tanto che ho scelto la fedeltà come chiave di lettura per ricordarli e insieme riscoprirli. Rovesciando il cannocchiale dell'indagine e percorrendo una storia a ritroso, appare forse più chiara la qualità del percorso, quell'adesione fedele a un'ispirazione iniziale che spesso coincide con la parte più autentica della propria personalità
I nostri due amici, per me cari fratelli, sono stati fedeli a un particolare tipo di visione: stare dalla parte degli anelli deboli della società.

Beppe di questa fedeltà è stato un campione: gli ultimi la sua affettuosa e partecipe compagnia. In lui esisteva un'antenna capace di captare quel particolare brusio indistinto e sommesso che sale dal basso, lo stesso suono che talvolta anche noi udiamo, ma che non ascoltiamo.
Lui lo sapeva fare, aveva cominciato ancora seminarista chiedendo di passare l'estate - lui fiorentino - a Viareggio per lavorare con don Sirio, scaricatore di porto a giornata. Gli si affiancò e da allora la voce di chi lavora nelle stive, divenne la sua stessa voce.
Più tardi la sua antenna entrò in sintonia con il richiamo dei bambini con i quali aveva una particolare, gioiosa affinità di cuore. Eravamo nella seconda metà degli anni '70, quando si seppe che in seguito a un grave fatto di cronaca quattro fratellini (dai 5 ai 12 anni) erano stati affidati a una struttura per l'infanzia a Viareggio, essendo stati arrestati la madre e il fratello maggiore. Beppe andò a trovarli e dopo pochi mesi annunciò a Don Sirio, Luigi e me una grande decisione. Lasciava la Chiesetta del Porto per andare a formare la sua famiglia, chiedendo di avere l'affido dei quattro bambini. Il Tribunale dei minori di Firenze gliela accordò e da allora cominciò il suo cammino di famiglia.
Molti sacerdoti nella storia della Chiesa si sono occupati dell'infanzia, formando anche ordini religiosi al servizio dei piccoli. La particolarità di Beppe è che lui ha fatto famiglia, era famiglia, sulla stessa linea percorsa dai preti operai che non erano accanto al mondo del lavoro, ma diventavano lavoratori. Varcando il diaframma fra il dentro e il fuori e collocandosi dentro, con tutte le dinamiche e le turbolenze comportate dalla nuova condizione.
La sua famiglia lo mette in contatto con molte altre di Viareggio e di diverse città in un movimento di condivisione concreto e sincero che usava il medesimo linguaggio fatto di gesti quotidiani, di gioia sorridente, di preoccupazioni simili. La sua voce diventa una fra le tante di chi cresce i figli, la sua antenna registra nuovi accordi.
Lungo la vita dei figli, l'universo delle voci ascoltate si amplia: incontra dapprima la dimensioni dell'handicap perché la sorellina più piccola è spastica a causa di una nascita difficile, più tardi quella della tossicodipendenza, triste mondo attraversato nell'adolescenza da uno dei fratelli.
Beppe morirà ancora giovane, a soli cinquantanove anni, d'infarto, senza preavviso, senza segnali: un cuore troppo dilatato, senza più spazio possibile? La fedeltà ai deboli di questo mondo lo ha accompagnato tutta la vita.

Usando nuovamente la chiave di fedeltà a una visione voglio parlarvi di Sirio, il fedele visionario.
In un suo scritto a proposito della pace, parlava dei "valori che stanno avanti, prima". Prima di cosa, mi domandai leggendolo la prima volta: parlava dell'infanzia?... no, si riferiva all'origine, al nucleo, quel timbro impresso in noi fin dal grembo materno, come un marchio di fabbrica: la presenza di Dio, il suo soffio.
Era questa la visione che costantemente lo ispirava.
Era l'uomo degli ossimori, usati frequentemente negli articoli, nei libri, nelle conferenze: un termine e il suo opposto, come lui, spirito e materia singolarmente intrecciati. Uno stile di linguaggio che gli fioriva con immediatezza perché lo rappresentava.
Come avrà retto due spinte opposte è un mistero che solo la scelta coraggiosa del suo cammino chiarisce. Nei lontani anni '50, lascia la tonaca per andare ad indossare la tuta (un altro prete, don Borghi, in quegli anni faceva un esperienza simile a Firenze, ma non si conoscevano, né si conobbero in seguito).
Trova il suo movimento, un modo di stare saldo sulle gambe, scegliendo nel giorno dopo giorno il punto di incontro fra l'uomo di istinto, di carne e si sangue, un artigiano che amava il suo lavoro, un tenace marciatore per la pace e l'uomo che aveva il suo centro fuori da questo mondo.
Il movimento fra queste contraddizioni trova il suo punto di congiunzione nella solidarietà: una costante di tutti coloro che sono stati dei fedeli; con essa si accentua la volontà di lotta, don Sirio era un uomo che si batteva per ciò in cui credeva.
L' esperienza operaia lo segnerà profondamente, spingendolo verso l'impegno profondo, il prendere parte, lo schierarsi. Il titolo di uno dei giornalini che in quegli anni crea e dirige è un altro ossimoro: "Lotta come amore".
I gravi problemi della realtà sociale e politica degli anni '70 e '80, lo spingono a impegnarsi per i temi della pace, dell'antimilitarismo e della difesa della natura. Era convinto che per trovare una soluzione alle contraddizioni che emergevano, occorreva tenere conto del contesto umano, il parametro "uomo" sempre più emerge a tutto tondo come la prima realtà.
Sognava tenacemente di potere condividere con tutti l'utopia che vedeva come un bambino che piange e sorride, ma cresce inarrestabile.. una forza nascosta nell'immaginario, nella fantasia, nei sogni impossibili, nell'inconscio del cuore che può cambiare, rovesciandole, la storia, le leggi e la cultura dominante ed arrogante.
Nel lungo cammino è stato guidato da quelle che lui chiama "istintività interiori", ne parla come di realtà che gli crescono dentro e gli si impongono più della fame e della sete: l'ennesimo ossimoro che lo definisce più di tante parole . Col passare degli anni, si lascia sempre più andare a un coinvolgimento con il mistero che lo occupa, conducendolo in una dimensione che per lui è quiete interiore, preziosità dilatata, trasparente visione. Finché, dopo una lunga malattia approda dopo tanto pellegrinare e vagabondare al luogo che misteriosamente "avverto come quello in cui sono nato, la mia terra, dove mi è dato e donato vivere pienamente: qui è il bisbigliare dell'erba, il campo dove seminare per il pane e l'aria freme chiara e trasparente".





Maria Grazia Galimberti


in Lotta come Amore: LcA settembre 2015, Settembre 2015

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