Preti operai: storie vissute nelle periferie

Parlare oggi dei preti operai può apparire come tracciare una strada tutta al passato. Una storia che ha avuto momenti "gloriosi", ma che ora è praticamente finita. Per più motivi; perché in Italia sono anni che non ci sono quasi più, con il clero destinato ormai a ridursi drasticamente di numero nel futuro prossimo e perché anche la figura dell'operaio appare sempre più relegata ai margini del mondo del lavoro.
Eppure questa storia, come forse tutte le storie vissute nelle periferie del mondo, nel suo morire lancia bagliori che ne illuminano il senso profondo e la restituiscono all'eterna storia della vita.
L'autobiografia di Roberto Fiorini recentemente uscita per le Edizioni Paoline e intitolata "Figlio del Concilio, una vita con i preti operai" riporta le tappe principali di una esperienza viva e vivacissima tra gli anni '70 e i '90 del secolo scorso. Lo fa soprattutto attraverso i "convegni" e i seminari nazionali dei preti operai italiani che rispondono a domande di senso che spaziano dalle problematiche innescate dalla appartenenza religiosa a quelle dettate dalla condizione economica e sociale del paese, in una progressiva - anche se non sempre lineare - "cucitura" di fede e di vita. Il tutto nella cornice organizzativa "leggera" di quello che si è chiamato il "movimento" dei preti operai italiani.
Ma chi sono i preti operai? O meglio, cosa è che contraddistingue un prete operaio da un prete e basta? Se si parte dal criterio del Vaticano che, attraverso il Sant'Uffizio nel 1959 ribadì quanto già indicato tre anni prima, e cioè la proibizione per i preti di esercitare lavoro dipendente per più di un giorno la settimana e di iscriversi e tanto meno militare in attività sindacali, si ha da intendere il prete operaio come un prete assunto con un contratto di lavoro (manuale) come dipendente e nel pieno godimento dei diritti anche sindacali previsti dalla contrattualità in vigore.
Faceva da apripista la situazione francese che vide, nell'immediato dopoguerra (anni '40 e '50 del secolo scorso) un consistente numero di sacerdoti entrare nelle fabbriche, nei cantieri, nei porti e nella movimentazione merci su strada sull'onda delle problematiche riassunte nel libro manifesto del cardinale di Parigi Suhard, "La Francia, paese di missione". Ancora una volta furono gli eventi di quegli anni ad aprire nuove strade allo spirito. I tedeschi invasero la Francia e, per ripopolare le loro fabbriche rimaste semideserte per le necessità di sempre nuove leve per l'esercito, deportarono interi villaggi di uomini giovani. Non pochi preti non rimasero a casa con le donne, i bambini e i vecchi, ma in clandestinità seguirono gli uomini facendo propria la loro condizione e il loro destino. Quei preti che riuscirono a tornare in Francia, dopo una simile esperienza, non vollero - per la maggior parte - rientrare nella condizione dello stato clericale (abitazione canonica accanto alla chiesa, mantenimento da parte delle comunità, condizione di lavoro "non servile"...). Cercarono lavoro e abitazione nei quartieri popolari, insieme ai loro compagni come in Germania durante la guerra. Come detto sopra, dapprima nel 1956 e definitivamente nel 1959 questa esperienza, quasi del tutto radicata in Francia e in Belgio, fu troncata dalla Chiesa. I preti che non obbedirono furono ridotti allo stato laicale.
In Italia l'editto del Sant'Uffizio incrociò il percorso di due preti - entrambi toscani, che però non sapevano l'uno dell'altro - don Bruno Borghi a Firenze e don Sirio Politi a Viareggio.
Il Concilio Vaticano II fu una ventata potente dello Spirito che aprì porte e finestre nella chiesa cattolica. Paolo VI restituì dignità e libertà al percorso dei preti operai ed è alla fine degli anni '60 del secolo scorso che anche in Italia questa esperienza di vita fece breccia tra i preti. Se ne contarono oltre 300 negli anni '70, ma resta difficile far conti esatti su una realtà dai contorni tutt'altro che ben definiti.
Roberto Fiorini, nella sua autobiografia ricorda diverse figure di preti operai. Tra questi, particolarmente commovente, l'ultimo incontro con don Giuseppe Giordano nell'hospice dove era ricoverato pochi giorni prima della morte, vicino Lucca. Giuseppe - Beppe, per gli amici - ha lavorato per diversi anni come artigiano fabbro e idraulico. Una malattia lo ha fermato sui 40 anni e restituito all'insegnamento e alla divulgazione nei restanti 30. Eppure agli amici preti operai ha sussurrato: "Sono felice - e lo era davvero e gli occhi risplendevano e sono rimasti ridenti per tutto il tempo -; voglio essere seppellito con una tuta da lavoro. Perché è nella storia dei preti operai che io mi riconosco" (op. cit. p. 26).
Il criterio principale dell'appartenenza ai preti operai è quindi soggettivo: riconoscersi dentro questa storia. Non c'è un albo, non l'obbligo di iscriversi ad una associazione, non una "patente" data da altri.
E se gli anni '60 e il nord del paese ci consegnano ancora la realtà delle fabbriche con molta mano d'opera, progressivamente il lavoro emigra dall'agricoltura ad industrie medio piccole, all'artigianato, ai servizi, al precariato..., già a seguito dell'incontro nazionale dei preti operai a Firenze nel 1986, Roberto Fiorini scriveva: "Non è nato un modello univoco di preti operai. Se mai c'è stata questa idea, la realtà dei fatti non ha durato fatica a smentirla. Assumendo come punto di osservazione la collocazione materiale, tra noi ci sono: disoccupati e garantiti, artigiani e contadini, metalmeccanici e lavoratori dei servizi, precari e prepensionati, operatori tecnologizzati e addetti alle pulizie... Siamo uno spaccato abbastanza fedele dei lavoratori italiani" (op. cit. p. 134).
E così prosegue, riconoscendo il valore positivo di tante differenze: "Forse dobbiamo assumere, per una lettura corretta e feconda della nostra storia comune, la categoria dell'alterità e della somiglianza. Siamo profondamente simili per la comune esperienza della "cameretta" (del seminario) nella quale per anni siamo stati educati; lo siamo per l'esodo in campo aperto... però tutto questo si esprime nella esistenziale alterità di distinti irriducibili e che appartengono, inoltre, a mondi vitali diversi. In concreto questo vuol dire che ciascuno di noi ha pieno titolo di appartenenza alla vicenda dei preti operai italiani, ma nessuno può avere la pretesa di indicare il modello ideale al quale tutti gli altri dovrebbero attenersi" (op. cit. p. 135).
La rivista "Pretioperai", nata proprio in quell'anno su proposta di don Sirio Politi e portata avanti da subito dalla nuova "segreteria" del movimento formata appunto da Roberto Fiorini e Gianni Alessandria rende conto negli anni di questa pluralità di "modelli di vita" in particolare attraverso la rubrica "Sguardi dalla stiva" (vedi archivio della rivista in www.pretioperai.it).
Ed è intorno a questi racconti di vita di preti operai che, all'esaurirsi del movimento strozzato, prima che dai profondi cambiamenti del mondo del lavoro e del reclutamento del clero, da una decisa virata dell'episcopato italiano che, dismesso il cardinale Ballestrero (a favore del nuovo presidente della CEI Ugo Poletti su nomina di Giovanni Paolo II), mostrò nei fatti che la nuova strategia della CEI non intendeva perdere tempo con chi non era allineato, i preti operai continuarono a incontrarsi e continuano tuttoggi. Prima a Viareggio in occasione del 10° anniversario della morte di don Sirio Politi e poi, dopo alcuni anni, a Bergamo nell'ospitale cornice della Casa "al Paradiso".
Anche quest'anno, dall'11 al 13 giugno, preti operai e loro amici hanno dato vita ad un incontro e un confronto vivace e appassionato. Ormai collocati in un arco temporale dai 70 agli 80 anni e oltre non hanno ceduto di una spanna nella speranza e nella fiducia di una vita che risponde al vangelo. Così come concludeva un suo scritto nel numero "zero" della rivista Pretioperai Roberto Fiorini che si cita nella sua autobiografia (op. cit, p. 135): "Noi pensiamo al convegno innanzitutto come all'incontro delle nostre vite e delle nostre persone; lo pensiamo come gioia del ritrovarsi e dello stare insieme nell'ascolto di ciascuno che schiude il suo mondo di valori e significati, di oscurità e di luci. Aldilà di quanto riusciremo a <produrre> come riflessione e progettazione del futuro, vi è la gratuità e la bellezza del rivedersi per comunicare con chi si condivide moltissimo nel tentativo di incarnare il Vangelo nella condizione materiale di chi lavora".
E l'anno prossimo saranno 30 anni che queste cose sono state scritte e vissute con tenace pazienza, crescente fragilità e in sorprendente continuità.


Luigi


in Lotta come Amore: LcA settembre 2015, Settembre 2015

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