Quale terra abito lo dice la mia modesta pensione "a tre cifre", una pensione fatta - come il vestito
di Arlecchino - di tanti pezzi di lavoro dotati dei relativi contributi che lasciano intendere intervalli
non indifferenti di lavori forzatamente "al nero".
Ho iniziato a "vendere le braccia" in agricoltura, per poi passare all'industria e, causa una delle tante
ricorrenti crisi del settore nautico, approdare all'artigianato come fabbro carpentiere. L'incontro con
la disabilità e la marginalità mi ha portato a concludere la mia storia lavorativa come operatore nei
servizi sociali e infine come amministratore di cooperativa. Nella mia microstoria mi sono reso
conto alla fine di aver percorso la stessa strada della maggior parte del popolo italiano:
dall'agricoltura ai servizi, passando per industria e artigianato.
Questo mio migrare da un lavoro all'altro senza mai appartenere ad una "categoria" economica e
sociale, questa mia oggettiva debolezza di fronte alle crisi occupazionali, era dovuta essenzialmente
a due motivi. Il primo rappresentato dalla difficoltà del convertire in lavoratore manuale una
persona come me segnata da tanti anni di vita intellettuale "prestata" alla manualità. Il secondo
rappresentato dalla evidenza consapevole che, pur abitando insieme ad altri e con gioia, non avevo
nessun carico familiare proprio da difendere e da nutrire, per cui se c'era qualcuno che doveva
lasciare il lavoro ero tra quelli.
Ho sofferto, all'inizio, le pene dell'inferno per lo sradicamento da un ambiente, dai compagni di
lavoro, da una - sia pure minima - competenza acquisita sul campo, per ricominciare di nuovo tutto
da capo, a partire da quel dover dar conto della mia storia di prete finito lì balbettando alla meglio
quei motivi incomprensibili a chi avrebbe dato soldoni per poter andare a lavorare da un'altra parte.
Solo in seguito ho capito che c'era anche un aspetto positivo in questa mia instabilità: cucire
insieme esperienze diverse. E che anche la capacità di adattamento al cambiamento, alla fine era
una competenza e niente affatto secondaria.
Di conseguenza, ora mi accade di incontrare gente che mi riporta a vissuti differenti e che mi
"costringe" a ripescare pezzi della mia vita che, altrimenti, sarebbero rimasti sepolti nei vari cassetti
della memoria.
Sono contento di questo, ma non volendo rimanere prigioniero dei ricordi, cerco di affrontare,
anche con questi amici di un tempo, il presente. Sempre più spesso il ragionare dell'oggi affonda in
una dimensione di sfiducia e di denuncia di tutto e di tutti. La crisi economica è evidente e il
lamento dell'incapacità di far fronte alle spese si traduce in richieste di denaro per agguantare una
bolletta o far fronte all'affitto di casa. Ma ciò che avverto in modo sempre più chiaro è l'erosione
galoppante della speranza a fronte dell'uso sempre più generalizzato del denaro come risposta a
360° rispetto al disagio umano nelle sue diverse forme. E siccome ora il denaro scarseggia, il
disagio prolifera e la speranza affonda. Ed è sempre più evidente che la crisi economica è stata
preceduta da un progressivo impoverimento delle capacità umane di dare risposte credibili alle
domande di senso della vita e delle relazioni. Basta pensare ai modi in uso nella società dei consumi
di attenuare le crisi familiari puntando su regali, andando a cena fuori, programmando ferie in
luoghi straordinari e finendo per chiedersi: "ma cosa devo fare di più?". E questo anche nelle crisi
sociali come nella vita stessa degli individui. Fino a produrre - perché il denaro è sempre poco
quando non manca - persone sempre più scontente, depresse, confuse, incazzate, ecc. ecc.
Mi rendo conto, sempre più ogni giorno che passa, che non cerco di ribattere direttamente alla
negatività dilagante, ma inserisco nei brandelli di conversazione alcune storie con cui cerco di
ricollegare i singoli brandelli di esistenza al fluire di un universo che sempre più dilata le sue
dimensioni e ci raccoglie come in un abbraccio. La prima di queste storie riguarda la vita, quella
vita sempre più disprezzata e ridotta al "qui e ora".
La traccia della vita di ciascuno di noi inizia (almeno per ora...) nella pancia della mamma. E anche
qui ciascuno di noi porta con sé un'eredità affatto trascurabile che inciderà nel proseguo della nostra
esistenza. Questa prima fase di formazione della nostra esistenza individuale ci trova
completamente dipendenti, nutriti e riscaldati dalla mamma che rende disponibile sé perché
ciascuno di noi possa crescere fino ad entrare in crisi e rompere l'equilibrio che si era instaurato. Si
rompono le acque e veniamo spinti convulsamente nel canale del parto per poter nascere alla vita
presente. Non più nella dipendenza assoluta da un altro essere, ma lungo una strada dove
sperimentare una ricerca che si protrae in ogni momento della nostra esistenza attuale. Cercando di
rispondere alla domanda di identità ("chi sono io") e a quella di relazione ("chi è l'altro per me")
nell'incrocio sempre precario di un equilibrio tra il "me stesso" e "l'altro" che non si risolverà mai.
Almeno in quel tratto di vita che noi consideriamo unica e che va dalla nascita alla morte. Si
susseguono momenti in cui ci sembra che siano gli altri a prevalere a scapito del nostro stesso
essere, con altri in cui ci arrocchiamo su noi stessi e gli altri svaniscono in una dimensione di vita
tutta ripiegata su di sé.
E non riusciamo mai a chiudere una volta per tutte questa forbice.
Allora perché non pensare che la vita che si esprime sempre nel cambiamento, non riesca a rompere
questo sia pur precario equilibrio proiettandoci dentro un altro canale del parto che non è più la
pancia della mamma, ma la "pancia della terra". L'universo così come lo conosciamo e lo
sperimentiamo ora.
E quello che di noi sopravvivrà (perché non credo che tutto di noi sarà interessato dalla
resurrezione) potrà fondersi con il tutto senza perdere la propria individualità.
Un po' come, usando altre metafore, se la vita - spesso paragonata a un fiume che scorre dentro le
rive segnate dal tempo e dallo spazio -, arrivasse al mare dove ogni goccia rimane se stessa
fondendosi in un'unica vastità.
Solo quello che di noi ha accettato di essere parte, continuerà a mescolarsi per sempre.
Questa è la storia che sto raccontando, intera, a pezzetti, con tutte le varianti che la situazione degli
ascoltatori richiede: La racconto in chiesa, alcune volte, sempre più spesso sulla strada. In incontri
dettati dal caso e per lo più da una condizione di vita che non si difende più e incontra le storie di
persone che non destano attenzione e che spesso nessuno vuole ascoltare perché fuori dal mondo di
chi è preso dalla frenesia del fare, dell'efficienza, degli obiettivi da raggiungere. E quando la
racconto penso a Beppino (don Beppe Socci) e al suo canto al Grande Fiume della vita che riporto
qui sotto (cfr. in Lotta come Amore, dicembre 1994):
"Mi ha fatto una gioia grandissima rivedere dopo diversi anni i torrenti e i fiumi meravigliosi della
Valle d'Aosta, insieme ad amici molto cari, legati dai preziosi fili dell'amicizia e della ricerca di
"sentieri comuni", del ricordo intenso e profondo, limpido e cristallino come I'acqua che scende
cantando dalle alte cime coperte di ghiaccio e di neve: ricordo di amici con i quali abbiamo
condiviso sogni, progetti, attese, delusioni e speranze e che oggi non sono più con noi. Amici che
ormai sono passati "all'altra riva" del Grande Fiume ed il cui ricordo spesso (sempre!) è carico di
nostalgia. Ho rivisto anche una piccola, meravigliosa fontana, incontrata vent' anni fa: è sempre lì
accanto alla chiesetta dedicata a S. Anna e canta ancora la sua sommessa canzone di vita che
scorre, sempre pronta a dissetare e dare ristoro. La pila di larice scavato è diventata più bruna e
piena di screpolature: ma resiste, in attesa paziente e fiduciosa di un passante bisognoso di
frescura. Mi ha fatto una grande impressione rivederla dopo vent'anni: mi ha ricordato che anche
l'acqua della mia fontana è scivolata via e chissà se avrà dissetato e dato ristoro a qualcuno come
ha fatto lei...
Certo, sono stupende le montagne, i boschi, i prati rigogliosi e fioriti: ma le acque della Valle
hanno avuto sempre per me un richiamo particolare, un fascino tutto speciale, ed anche quest' anno
hanno risvegliato dentro l'anima un sentimento forte ed intenso di questo Grande Fiume della vita
nel quale siamo immersi quotidianamente, in cammino incessante come gocce d'acqua costrette ad
andare, a scorrere, a fluire senza sosta fino alla foce... Ho pensato che questo è davvero il Grande
Fiume sacro, simboleggiato e appena adombrato, come in parabola, da tutti i fiumi della terra,
anche da quelli che gli uomini e le donne di varie culture hanno considerati come "sacri", segni
cioè della presenza del "divino", capaci di lavare non solo i corpi, ma lo spirito stesso delle
creature umane desiderose di liberazione e di trasparenza.
Il Grande Fiume, quello vero, entro le cui acque siamo continuamente immersi (anche senza piena
coscienza) è veramente la Vita, la Storia, il Giorno, la Notte, il Mattino e la Sera, il Vento e il Sole,
la Terra e il Cielo. E soprattutto l'umanità, Fiume Sacro che scorre da millenni, scende a volte
precipitando da altezze da capogiro, rotola dentro gole profonde scavate tra le rocce, si distende
dolcemente nella corona dei prati e dei boschi, cammina senza soste alla ricerca del mare entro cui
perdersi e finalmente riposare. Il Grande Fiume della vita: ho sentito fortemente questo "mistero"
avvolgersi con grande dolcezza, soprattutto nei momenti più belli della memoria di amici preziosi
ormai "arrivati", mentre fuori, a pochissimi metri dalla casa dove eravamo ospitati e circondati di
tenera amicizia, si sentiva il suono incalzante del torrente, musica e canto della Madre Terra.
Mi è rimasto nell' anima un sentimento di intensa pace e nello stesso tempo di desiderio di amorosa
attenzione e presenza a tutto ciò che scorre e si muove nelle acque del Grande Fiume: questa è
probabilmente l'Acqua battesimale nella quale occorre incarnare il "segno" del primo battesimo,
perché è qui dentro, in questo scorrere misterioso della Vita che siamo chiamati a cogliere e
raccogliere la presenza silenziosa di Dio, il richiamo alla fraternità, alla comunione, all'incontro,
alla scoperta di quell'oro davvero prezioso nascosto nelle acque del Grande Fiume. Certo, il tempo
dell'estate di quest'anno, ormai sfociato nelle prime frescure d'autunno dopo il grande solleone, è
stato un tempo carico di sofferenze e angosce amare e laceranti: il Rwanda, la Bosnia, il dramma
degli immigrati sballottati dai flutti della fame, della respinta, del razzismo sempre in agguato, la
peste in India ... E poi i drammi e le angosce delle persone che ciascuno di noi conosce ed ama, il
dolore degli amici più vicini alla nostra vita. Il Grande Fiume porta con sé i semi della nuova
primavera, ma anche i segni della morte e della fine delle cose: le acque della Vita sono cariche di
lacrime, di fatica, di delusioni cocenti, di attese che non trovano compimento, di speranze che si
infrangono fra le pietre dell' indifferenza o dello strapotere del denaro e dei suoi tenaci servitori (o
padroni).
La corrente, a volte, sembra travolgere tutto e tutti, senza possibilità di scampo. Per fortuna, però,
mi è stato concesso (anche solo per un momento) di risentire il canto dolce dell'acqua limpida,
fresca di neve appena sciolta al calore del sole ardente dell'estate e di poter ritrovare in
quell'acqua il senso più profondo del vivere umano, il suo valore, il suo significato, il suo
incessante andare verso qualcosa di più vasto, di più ampio, dì più accogliente. E così, anche la
memoria degli amici ormai porati via dal Grande Fiume si è fatta più dolce ed ha significato per
me un rinnovarsi delle forze interiori, un nuovo coraggio, una volontà a non demordere
dall'impegno che ogni giorno spinge a cercare orizzonti più disponibili alla luce, all'incontro, al
rannodarsi di fili, se pure sottilissimi, di pace, di comunione, di amicizia sincera, di pane condiviso,
di attenzione reciproca, di lotta intensa e tenace, radicata nelle ragioni dell'amore, perché le acque
del Grande Fiume siano sempre meno cariche dei segni della morte e del sangue e sempre più
diventino portatrici di germi vitali, di nuova fecondità, di bellezza, di serena disponibilità
all'accoglienza vicendevole. Perché ci sia data - a tutti - la possibilità di partecipare al canto della
Vita."
in Lotta come Amore: LcA luglio 2014, Luglio 2014
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455