C'è uno strano silenzio nel carcere da qualche giorno, ormai tutti lo hanno saputo, don Beppe non
c'è più, la nostra «roccia» non ce l'ha fatta. Nessuno parla, nessuno vuole spartire il proprio dolore
con gli altri. Gli occhi sono bassi, la voce di più.
Don Peppe, come lo chiamavo io alla siciliana, con la «P», non era solo il cappellano del carcere,
era il compagno di tutti, il collega di ogni operatore, il fratello di ogni detenuto, anche se valdese,
musulmano, testimone di geova o di ogni altra confessione. Quando lo incontravi, per un attimo (..
ma solo per un attimo) restavi interdetto e timoroso, per l'imponenza fisica, per il vocione, bastava
poco però per far aprire il suo sorriso, che illuminava il volto dietro la barba, ed eri già conquistato,
la sua cultura profonda e l'ironia facevano il resto. Peppe è riuscito a instaurare con tutti un rapporto
unico, diverso ed esclusivo, riuscendo a far sentire ogni interlocutore speciale. La capacità di
ascolto, l'immensa umanità, l'incondizionato donarsi al prossimo lo rendevano sinceramente
partecipe delle ansie e delle aspettative di tutti. Era chiaro, diretto, leale così che ognuno dialogasse
con lui fosse altrettanto chiaro, onesto, leale. Se ci penso, mi ha sempre fatto l'impressione di una
grande montagna, la più alta che domina un panorama: sai che è lì, il punto di riferimento, quando
la vedi devi alzare lo sguardo, non può mentire, non puoi barare. Nella nostra amicizia, mi ha
sempre affascinato la sua complessa semplicità. Parlavi con lui come davanti ad un caffè e ti
accorgevi alla fine di aver discusso di filosofia, storia delle religioni, tradizioni popolari, sociologia
e ti alzavi più leggero, e contento, di prima. Aveva il dono celeste di essere se stesso e di mostrare
agli altri come essere veri, anche di fronte a verità scomode e nascoste, da affrontare, sempre. So
che inizieremo a parlarne, più in là, che riusciremo a piangere, INSIEME, come ci ha insegnato, ora
no, è ancora presto, ora l'assenza è troppa, nel paesaggio manca una montagna.
Dott. Francesco Ruello, direttore Carcere di Lucca
SI RIPARTE DAL TOPOLINO...
Da oltre un mese, sono io che entro in carcere due volte per settimana per colloqui con i detenuti e
la celebrazione di una messa. Avevo già un permesso come volontario e accompagnavo Beppe
alcune volte, soprattutto per aiutarlo nel portare "dentro" e distribuire pacchi di vestiario. Ero quindi
già conosciuto dalla direzione, dal personale, da molti detenuti.
Ma ora è tutta un'altra cosa...
Parlando del carcere uso dire che - a somiglianza di ogni cosiddetta "istituzione totale" come ad
esempio le case di riposo - può essere paragonato ad un meccanismo di un orologio, ad un motore
di automobile, ecc. Cioé ad una struttura complessa che deve trovare un sostanziale equilibrio e
scorrevolezza tra tutte le sue parti. Al meglio delle effettive possibilità. E' inutile fare "guerre"
contro quegli "ingranaggi" che non vanno o vanno proprio male. E ce ne sono... Ma è utile cercare
di ricavare il meglio possibile da ogni componente della struttura. Quindi, nonostante tutto il
negativo che si incontra dietro il cancello che ti viene chiuso alle spalle, credo occorra, come in
altre situazioni, una positività di fondo che metta in luce i lati "buoni" delle persone e delle
situazioni, anche quando ci vuole tutta la buona volontà per trovarne.
La speranza non può essere messa "in gabbia"!
in Lotta come Amore: LcA giugno 2013, Giugno 2013
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455