Vita in carcere: il lavoro che non c'è

Il lavoro in carcere dovrebbe essere innanzi tutto un percorso di recupero delle persone. La pena
inflitta, in generale, dovrebbe tendere a questo fine.
Il carcere di Lucca è il più antico di Italia. Era, come molti altri in origine, un antico convento.
Tradizionalmente in questo carcere i detenuti impagliavano sedie, rilegavano libri, facevano lavori
di falegnameria, sartoria, ecc. Tutto questo è completamente finito. Perché? Semplicemente perché
non ci sono i locali e gli impianti a norma, e quindi non si può più fare niente. Addirittura la sezione
femminile, che è una sezione bellissima a fronte di quelle maschili tuttora aperte, è chiusa perché le
finestre danno sul corridoio e non direttamente nelle celle. Così le donne di Lucca che scontano
pene definitive sono a Massa o a Pisa.
Ci sono leggi garantiste che vengono applicate praticamente alla lettera e finiscono per impedire la
applicazioni di leggi davvero importanti come quelle che riguardano il recupero morale delle
persone.
Quindi ora il lavoro all'interno del carcere di Lucca non c'è. O meglio, è ridotto alle poche
possibilità che la stessa vita carceraria offre. C'è quindi lo "scopino" che fa le pulizie degli ambienti
"a comune", lo "spesino" che raccoglie gli ordini dei detenuti allo spaccio interno, lo "scrivano"...
pochi lavori che vengono proposti in turnazione ai tanti che sovraffollano il carcere.
Il sovraffollamento non è fuorilegge (!). Il regolamento carcerario dice che ogni detenuto dovrebbe
avere 7 mq a disposizione, mentre attualmente un detenuto a Lucca ha tanto spazio quanto l'interno
di una cabina telefonica.
I detenuti possono uscire dal carcere per lavorare fuori con il cosiddetto articolo 21, ma l'iter
burocratico è veramente complesso e in assenza di un lavoro di sensibilizzazione sul territorio le
possibilità di lavoro offerte sono minime. Anche le disposizioni sulle misure alternative cozzano
contro la realtà di tanti detenuti che non hanno un domicilio. E quindi se, come ora, nel Paese
diminuiscono le possibilità di lavoro e di alloggio per tutti, quanto più la crisi si abbatte su coloro
che sono svantaggiati e verso cui c'è diffidenza e pregiudizio.
Recentemente ho reso disponibili dei beni donati alla Parrocchia di cui sono incaricato, una grande
casa e un ampio terreno, per trasferirvi un'opera diocesana, la Casa S. Francesco, che viene sfrattata
dai locali in cui è nata. Così possono trovare alloggio, e quindi detenzione domiciliare, 18 persone e
si apre la strada ad una cooperativa agricola per il lavoro dei campi dati in comodato gratuito.
Si tratta comunque di una possibilità offerta a pochi. Il carcere di Lucca è stimato dal
Provveditorato della Toscana di una capienza variabile tra 90 e 110 detenuti, estensibile in
emergenza a 135. Attualmente ce ne sono costantemente più di 190 con punte di 215.
Questo il problema del lavoro in carcere e del "dopo" carcere.
Ci sono poi i problemi della vita in carcere in generale. Personalmente all'inizio volevo rimanere
cappellano volontario. Poi ho riflettuto sul fatto che solo chi appartiene alla struttura penitenziaria
può essere libero e visitare ogni ambiente carcerario, anche il più chiuso, e ho deciso di essere
cappellano a tutti gli effetti. Quindi posso avere contatto con tutti i detenuti, anche con quelli in
punizione o in isolamento. Rimane il fatto che comunque, in quanto cappellano del carcere, sono lì
per assicurare il diritto del culto per i cattolici. Cosa che ha dell'assurdo e chiama in causa la
persona con la propria coscienza e il senso della libertà.
Io ho rapporti con tutti. Con un certo orgoglio dico che l'anno scorso ho avuto su domanda dei
detenuti 2374 colloqui. Vengono tutti. L'ascolto permette di lavorare prima di tutto sulla presa di
coscienza della loro condizione, della loro storia (che hai fatto?) per poter prendere una strada
diversa (anche la vita carceraria ti spinge a prendere coscienza di quello che hai fatto, ma per
insegnarti a non farti prendere sul fatto un'altra volta....). Prendere in mano le proprie relazioni e
rileggere le "strutture interne" degli affetti, delle speranze che ognuno ha. Non è facile; soprattutto
metterle in relazione con il dato religioso che stimo essere mio compito. C'è un 50%, ma forse
meglio un 55% di detenuti di fede islamica. A loro mi rivolgo e cerco di fare questo lavoro parlando
del Corano, che conosco e mi sono sforzato di conoscere sempre meglio, cercando una lettura non
fondamentalista ma aperta ai valori e alle proposte. Sono contenti, in generale, e ritornano al
colloquio ringraziando. Mi possono anche prendere in giro, ma altri segnali mi inducono a non
credere sia così. Con altri, rumeni ortodossi per esempio, non c'è nessun problema a partecipare un
discorso di vita che trova i suoi punti di forza nel credo religioso. Così con i protestanti.
Ritorno sul discorso del lavoro perché quando dei detenuti ottengono il permesso e trovano da
lavorare fuori, sono diversi. Tra l'altro tutto il lavoro in carcere e fuori deve essere secondo i termini
delle leggi, assicurato e garantito nei diritti sindacali. I detenuti al lavoro per esempio riscuotono
anche la cassa integrazione. La retribuzione è comunque inferiore di un terzo rispetto a quella
praticata in generale. Il fatto di poter avere anche quel briciolino di soldi che poche ore di lavoro
permettono una vita diversa ai detenuti che ne godono la possibilità.
A chi entra in carcere, infatti, l'amministrazione penitenziaria da un materasso e un guanciale di
schiuma di lattice, due lenzuoli, una federa, una coperta, un certo numero di piatti e posate in
plastica, carta igienica e una saponetta. Se uno ha da lavarsi gli abiti (non c'è servizio di lavanderia),
se non glielo fanno da casa, bisogna si compri il sapone. Se uno vuol prendere un caffè, fumare una
sigaretta, se lo deve comprare. La lotta più grossa che si deve fare all'interno di un carcere è il
controllo dei prezzi della spesa, e io di tanto in tanto mi rivolgo al Direttore e agli incaricati perché
non ci deve essere approfitto in quel campo lì. Dall'esterno non può entrare dentro nulla che non sia
strettamente controllato e ammesso da un rigido regolamento. Il problema più grosso è la droga: ho
visto delle cose impensabili, le batterie delle radioline riempite di droga, bambine con la pallina di
hashish attaccata alla passatina sui capelli in modo che il padre con una carezza se la porta via...
Tutto questo porta ad una situazione di restrizione per cui chi non ha soldi non fa niente. La
prostituzione nasce di lì. Per avere qualcosa prima fai le pulizie, poi lavi i pantaloni, poi fai qualche
servizietto e finisci per prostituirti a chi ti fa fumare, ti fa il caffè, ecc.
I detenuti non tengono soldi, c'è un conto corrente interno gestito dal personale amministrativo e chi
ha soldi sul conto può fare la spesa. Io, per evitare il fatto umiliante di venire a chiedere soldi al
cappellano, due volte al mese metto 10 euro sul conto di chi ha meno di 3 euro. L'anno scorso ho
speso 20300 euro e rotti per questo. Naturalmente ho bussato alla Caritas, all'8 per 1000, alle
parrocchie... ho messo le mani ovunque potevo tirar fuori soldi, perché io ritengo che sia un dovere
di giustizia. Non è tanto, ma 20 euro al mese a chi non ha nulla, consente quel briciolino di dignità
che ti impedisce di essere totalmente dipendente dagli altri e quindi schiavizzabile da altri.
Sono due anni e mezzo che vivo questa situazione e mi sono reso conto di queste povertà così
esasperate dall'essere dentro una struttura che toglie la libertà.
C'è il problema dei suicidi, anche delle guardie si sono suicidate. Una situazione disumana.
Quello che conta è un minimo di rapporto umano. A Livorno, faccio un esempio, c'è un nuovo
carcere, Le Sughere, e i detenuti che hanno conosciuto la vita del vecchio fatiscente carcere lo
rimpiangono. Nel nuovo carcere sono cresciuti tutti i disagi. I nuovi carceri son fatti con dei moduli
in cemento armato che convergono al centro, tutti dotati di cancelli elettrici con comando a distanza,
telecamere da tutte le parti, una guardiola difesa da vetri infrangibili che impedisce anche il solo
contatto con le guardie. Tra le guardie ci sono persone brave, meno brave, poco brave. Pessime non
ne ho trovate, poco brave sì. Ma anche il conflitto verbale è una forma di rapporto. Quando io devo
parlare con un altoparlante, l'ambiente è sovraffollato e invivibile comunque per la ristrettezza degli
spazi, si rimpiange il vecchio carcere dove almeno un contatto umano con le guardie era inevitabile.
In un mondo di tale povertà, l'unica maniera di essere "ascoltati" è il suicidio o l'autolesionismo.
Non è raro trovare detenuti che spezzano una lametta di rasoio e si incidono la pelle tagliuzzandola
a volte con grave rischio per la vita o per lesioni permanenti.
Solitudini che gridano, tentativi un po' furbeschi di passare qualche giorno in infermeria, tentativi di
suicidio per richiamare l'attenzione finiti tragicamente magari perché chi doveva guardare non ha
guardato... Storie che si ascoltano dai detenuti stessi che ne sono protagonisti.
Ci vorrebbe un lavoro molto più attento... io faccio quello che posso. Per il "trattamento" ci sono 3
educatori, ma di fronte a oltre 200 persone, cosa possono rappresentare?


Beppe Giordano, Pretioperai 2011


in Lotta come Amore: LcA giugno 2013, Giugno 2013

menù del sito


Home | Chi siamo |

ARCHIVIO

Don Sirio Politi

Don Beppe Socci

Contatto

Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455

Link consigliati | Ricerca globale |

INFO: Luigi Sonnenfeld - tel. 0584-46455 -