In questo numero

In questi ultimi mesi, la mia vita quotidiana ha avuto una sterzata molto decisa. La breve durissima
malattia di don Beppe Giordano e la morte, mi hanno consegnato dall'inizio dell'anno a un ritmo
sostenuto di spostamenti tra la chiesetta, la parrocchia di S. Pietro a Vico vicino Lucca e il carcere
di Lucca. Spostamenti brevi in assoluto, ma compiuti a rotazione nell'arco della settimana mi
lasciano scampoli di tempo spesso ingoiati dalla necessità fisica di un po' di riposo in quanto le mie
"batterie" si scaricano assai più velocemente di una volta.
Nessuno mi ha chiesto di occuparmi né della parrocchia, né del carcere. Ma l'amicizia con don
Beppe Giordano (la possibile confusione per i lettori tra don Beppe Socci della Chiesetta del Porto,
con cui ho vissuto fino alla sua morte nel 1998, e don Beppe Giordano di cui sto parlando ora, non
so come risolverla...) che risale ai tempi lontani del seminario, ma che sì è rinsaldata dopo che sono
rimasto solo alla Chiesetta per la morte di don Beppe Socci, mi aveva portato a sostenerlo nella sua
attività da lui portata avanti a gran cuore, senza lesinare sforzi di nessun genere. Quindi, ero assai
conosciuto nella parrocchia di S. Pietro a Vico e abituato (io e la comunità parrocchiale) a sostituirlo
e a celebrare con lui alcune delle feste più significative. Ugualmente nel carcere di S. Giorgio a
Lucca di cui era cappellano: ero ormai introdotto con relativo permesso di ingresso e lo assistevo da
tempo nei colloqui e nell'aiuto ai detenuti.
Così ora sono anche "nei piedi" di don Beppe Giordano.
Avendovi dato conto delle mie vicende ultime, capite perché questo numero l'abbia messo insieme
con quello che è stato detto di lui al funerale di don Beppe Giordano. Con alcune riflessioni mie sul
carcere e sulla esperienza di comunità parrocchiale.
Un altro filo di riflessioni mi viene dal periodo duro e difficile di crisi del coseddetto "stato sociale"
vissuto con particolare angoscia legata alle vicende della cooperativa sociale in cui ho lavorato per
15 anni prima di andare in pensione, i lavoratori e lavoratrici, ma soprattutto le persone che
usufruiscono dei servizi ancora in essere e le loro famiglie. Essendo ancora molto legato a questa
realtà, ho partecipato attivamente ai "presidi", alle manifestazioni, ai dibattiti che ci hanno portato
in piazza, per le strade, nei luoghi più diversi in difesa di servizi essenziali, di posti di lavoro, di
progetti concreti tesi almeno al mantenimento delle autonomie residue. In questo contesto è
maturata l'idea di intitolare una residenza per disabili, realizzata a Viareggio tra il 1994 e il 1999 a
don Beppe (Socci). Gesto dovuto, visto che già la residenza veniva chiamata popolarmente "la casa
dei ragazzi di don Beppe". Ma per me che ho promosso l'idea, voleva dire rifarsi a una storia, quella
che lo ha visto come uno dei protagonisti, di una città dove la solidarietà non era istituzionalizzata,
ma il senso di iniziative generose che nascevano e si collegavano tra loro cucendo insieme
sperimentazione sul campo, riflessione e ricerca di fondi. Promuovendo una cultura che oggi
sembra perduta a prima vista, ma che è possibile far rivivere e rinforzare là dove essa è rimasta
viva. Ritrovando le parole per dirla.

in Lotta come Amore: LcA giugno 2013, Giugno 2013

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