Nicolino Barra prete e operaio a Roma

Il 22 gennaio di quest' anno è morto dopo tre anni di malattia Don Nicolino Barra, caro amico e prete operaio romano. Il suo cammino si era incrociato con il nostro tanti anni fa, nel periodo in cui, con altri preti compagni di avventura, viveva fra i baraccati del quartiere Prenestino, a Roma. Quando le baracche furono demolite, prese parte all'esodo imposto dal Comune negli alloggi popolari di Ostia, dove è rimasto fino agli ultimi giorni, lavorando come fabbro. Riservato ed aperto allo stesso tempo, proiettato verso il nuovo ed ancorato alla tradizione cristiana, lo abbiamo ritrovato e insieme scoperto nelle pagine della pubblicazione che abbiamo ricevuto in settembre da Lorenzo D'Amico.
In pochi mesi, sollecitato dai tanti amici e spinto dal profondo affetto che da anni lo legava a lui, Lorenzo è riuscito a raccogliere testimonianze su Nicolino alle quali ha unito i suoi primi articolo pubblicati sulla 'Tenda' - della quale era stato il fondatore - e soprattutto il suo testamento.
Le parole di chi lo ha conosciuto da vicino e lungamente frequentato ci hanno lasciato il rimpianto di non avere avuto maggior tempo per scambiare con lui vita e pensieri e ce lo fanno ricordare con nostalgia.
Abbiamo scelto alcune testimonianze da condividere con voi.
Maria Grazia Galimberti

Amico mio dolcissimo
Amico mio dolcissimo, Nicolino Barra, perché hai lasciato la scena di questo mondo nel più assoluto silenzio? Dalla voce di un altro tuo amico vengo a sapere che Dio ti ha chiamato a ricevere la ricompensa delle tue fatiche. Ieri sera, sabato 22-1-2000, festa di San Vincenzo Martire, sono terminate le tue sofferenze.
Il tuo amico di Roma, Lorenzo D'Amico, mi ha dato la notizia che io non volevo ricevere, prima di averti visto o sentito ancora una volta. L'ultima volta che ti vidi fu una sera dei primi giorni di luglio, domenica, 1998. Venivo da Pinerolo con la macchina stracarica di merce: indumenti, libri, scarpe e tanto altro, perché avevo iniziato il trasloco e il trasferimento, con figli e moglie, dal Piemonte alla Calabria.
Ricordo di averti dato quella sera, di fronte a quella chiesuola, sistemata a piano terra d'un palazzo popolare, alcune bottiglie di vino Cirò, vino della mia terra, che avevo comprato a Pinerolo. Tu gradisti con molto piacere la mia offerta. Ma allora te ne feci un'altra, quella di venire a passare alcune settimane di riposo o di vacanza in Calabria, presso la mia abitazione. Quell'estate del '98 passò senza che le promesse e l'interesse mostrato si potessero realizzare. Per l'estate del 1999 mi ero preparato in tempo. Verso la primavera ti telefonai per rinnovarti l'invito a venire.
Tu mi dicesti che eri felice di venire in Calabria, specie se potevi visitare la Certosa e la tomba di San Bruno. Mi dicesti pure che se fossi venuto, ciò sarebbe stato possibile dopo gli accertamenti medici e le relative terapie per il tuo stato di salute. Dicesti ancora che se fossi venuto, saresti dovuto venire accompagnato da un tuo amico, Lorenzo, perché avevi bisogno di compagnia e di assistenza. Io avevo detto di sì: chiunque fosse venuto con te era come te accettato, era parte di te, perciò per me sarebbe stato un gran piacere averti con me in casa mia, per dimostrarti il mio affetto e la mia infinita riconoscenza per te, amico mio. Ma forse io non ero degno di riceverti, non avevo meriti, né onore per averti in casa mia.
Dio non mi concesse questa grazia. Io dovevo rimanere per sempre il beneficato e tu il benefattore!
Ti ricordi, don Nicolino, quando ci incontrammo nella chiesa di Ponte Milvio nel gennaio 1963? lo ero arrivato a Roma da pochi giorni. Il 28 dicembre 1962 ero partito da Pizzoni, il mio paesello natio, con mio fratello maggiore, in cerca di lavoro o di fortuna, come si dice per chi parte dal Sud. Nei primi giorni di gennaio avevo trovato lavoro, come barbiere, in Via Flaminia Vecchia presso un certo Camillo. Inizialmente abitai con mio fratello in zona "Due Ponti", in periferia; poi mi fu trovato un letto nella stessa via dove lavoravo. La domenica, dopo aver scoperto la chiesa di Ponte Milvio, venivo alla messa vespertina celebrata da te.
Ci incontrammo.
Tu ti interessasti subito di me, sapevi quello che facevo e da dove venivo. Dopo un po' di giorni m'invitasti a servirti la Messa. lo ti dissi che non ero capace, che non l'avevo mai fatto. Ma tu m'incoraggiasti, dicendomi che mi avresti istruito a servire. Dopo averlo fatto, con impaccio e con timore di sbagliare, le prime tre o quattro volte, in seguito mi sentivo sicuro e felice di aver appreso come si serve messa. Una domenica d'un mese primaverile di quello stesso anno, quando stavo per congedarmi da te, tirasti fuori dalla tasca 10.000 (diecimila lire) e me le offristi dicendomi:
"Comprati un po' di carne di cavallo, perché di vedo magro e pallido". Io non credevo ai miei occhi, non avrei mai pensato che un estraneo, un uomo qualsiasi di questo mondo, potesse interessarsi di me, della mia magrezza e avesse a cuore la mia salute.
Quel gesto così vero e così santo fatto da un uomo, da un sacerdote, sconvolse per sempre la mia concezione della vita. Vedevo tanta ingordigia, tanta avarizia e tanto attaccamento ai propri beni che mi pareva assurdo e impossibile che qualcuno si privasse del suo per darlo a me. Questo primo fatto generò in me un affetto e una stima per lui da sentirmi suo figlio nello spirito e vedere in lui un padre nello spirito. Ero felice, pieno di fiducia e di speranze. Avevo i genitori lontani, in Calabria, ma non ne sentivo la mancanza, avevo trovato chi si sarebbe preso cura di me. Continuai a lavorare presso un altro barbiere, Fulvio, dopo aver avuto la fortuna di visitare lunedì 3 giugno 1963 la salma di Papa Giovanni XXIII. Poco dopo, in estate cambiai mestiere: sguattero di cucina, prima presso un ristorante in zona "Due Ponti", poi in Via Flaminia Nuova presso il modenese Franco Faenza. Questo buon uomo s'incuriosì di vedermi andare a messa ogni domenica sera. E un giorno mi chiese se volessi per caso farmi prete. Io risposi che nonostante il mio desiderio di studiare, i miei genitori, poveri contadini, non mi avevano concesso di farlo e perciò mi ero fermato alla 5.a elementare. Ma lui insisté dicendo che se avessi voluto farmi prete mi avrebbe aiutato. A questo punto fui di nuovo stordito da una siffatta offerta e concordammo di andare a trovare don Nicolino Barra a Ponte Milvio.
Quando il mio principale si presentò a lui, in sagrestia, don Nicolino rimase perplesso, mi disse: "Salvatore, ma tu non mi hai mai detto una cosa del genere". Io risposi che non potevo mai pensare che qualcuno potesse aiutarmi a studiare e quindi non avrei potuto mai pensare di farmi prete. Sapevo che per diventar prete occorreva aver studiato tanto. Comunque considerata la favorevole congiuntura nei miei riguardi, Don Nicolino prese le redini in mano e decise di mandarmi in un istituto religioso per conseguire la licenza media. Il caro benefattore Franco Faenza, di Modena, era un po' dispiaciuto, perché voleva che entrassi subito in seminario. Ma don Nicolino sapeva che prima avrei dovuto fare gli studi medi, non in seminario, ma in qualche altro istituto, avendo già 16 anni compiuti. Perciò il l0 dicembre 1963, ad anno scolastico già avviato, entrai a far parte degli alunni dell' istituto San Vincenzo Pallotti di Via Cortina d'Ampezzo, 138 - Roma.
Chi provvide a pagare la mensilità, la retta del collegio, per i miei studi fu Don Nicolino Barra. Io mi aiutavo come potevo tagliando i capelli a compagni e sacerdoti.
Poi dopo gli studi presso il vocazionario di Rocca Priora e nelle scuole religiose di Frascati e Grottaferrata, rientrai in Calabria e a Vibo Valentia terminai il liceo classico.
A Messina conseguii la laurea in filosofia e negli anni ottanta mi ritrovai ad essere insegnante d'italiano e storia a Pinerolo in provincia di Torino.
Caro Nicolino, come posso dimenticarti, anche dopo 37 anni dal nostro primo incontro? Tu seguisti la vicenda della mia vita come un padre e un pastore che non vuole che le sue pecorelle si smarriscano. Quando ti dissi che non me la sentivo di farmi prete non mi rimproverasti, né ti rammaricasti; mi dicesti con tono pacato e sereno che la volontà di Dio voleva rispettare la mia libertà di scelta e perciò consentiva che facessi altro da quello che avevo detto inizialmente sull'onda dell'entusiasmo. Ma io di te, Nicolino mio, non ho parola da ricordare, ma fatti. Ho dormito con te nel tuo alloggio, insieme ad altri tuoi confratelli, sulla via Prenestina presso la parrocchia S. Agapito, la zona dei baraccati. Ho seguito i tuoi spostamenti a Monteverde, ad Ostia, Nella tua ultima dimora di Ostia mi hai accolto (non mi accogliesti, mi sento ancora accolto anche dopo la tua dipartita) più volte quando io passavo di là per salutarti nel viaggio dalla Calabria al Piemonte. Ho mangiato con te, seduto alla tua povera mensa, come un pellegrino fortunato che trova benevola accoglienza. Puoi capire dopo tanta benevolenza quanto avrei desiderato far qualcosa per te, offrirti qualche opportunità di sollievo e di riposo, specie dopo la tua malattia.
Ma ci rivedremo nel regno dei poveri in spirito e ci daremo un bacio eterno di felicità e di commozione alla presenza festosa di Dio.
Tu sei passato su questa terra facendomi solo del bene e chissà a quanti altri hai fatto quanto facesti a me. Che Iddio ti tenga nelle sue braccia, come tu tenesti quelli che incontrasti sulla tua strada!
Arrivederci in cielo, amico mio dolcissimo. Prega per me, tu non hai bisogno che io preghi per te.
Salvatore Donato

Un prete impegnativo
Amo infinitamente Dio e qui lo ringrazio, perché mi ha dato di poter conoscere don Nicola.
Se lasciassi parlare la mia anima starei un'eternità ad ascoltare le cose che ha ricevuto da quell'uomo.
Forse la prima virtù, che cerco da più tempo e mai (ovviamente) ottengo è la pazienza. Non tanto con gli altri, quanto con la mia vita intera. Nei suo atteggiamento spirituale don Nicola mi sembrava eternamente in cammino, in attesa ma nella speranza fiduciosa e paziente, mai ansiosa.
So che a molti, come a me, mancherà dolorosamente il suo lato umano, concreto. In questi giorni pensavo continuamente al modo in cui teneva la sua agendina: nella mano destra, mentre con la sinistra giocherellava con l'elastico che serviva a tenerla chiusa.
Forse è un ricordo stupido, ma avevo bisogno di scriverlo, perché tutto in don Nicola mi faceva pensare, e mi fa, ora, pregare.
Don Nicola per me era la vetrina di Dio.
Traspariva in lui qualcosa di troppo grande per essere raggiunto, ma troppo alla nostra portata per essere ignorato.
Se ho detto "vetrina" è per dare il senso della vicinanza dello Spirito, di come fosse a nostra completa disposizione per mezzo del suo amico prete. Voglio bene a don Nicola, perché amo Gesù, e vedo che lui veramente in modo vivo e completo lo seguiva e lo amava. E so che continua ad amarlo e glorificarlo anche ora, mentre finalmente Gli è vicino. Con Don Nicola ho imparato il coraggio delle mie opinioni, ho imparato la forza di rispettare gli altri.
Ai miei genitori devo molto, ma don Nicola ha rappresentato una parte del mondo esterno che mi ha guardato con fiducia e mi ha detto: "Sì, in famiglia sei amata perché sei. loro, ma anche nel mondo puoi essere felice, perché sei di Dio!"
Don Nicola mi ha fatto uscire da me stessa senza tendermi le mani, senza prendere le mie, ma ASPETTANDO. Non voglio dire "lasciando che rimanessi come ero", ma facendomi vedere che aspettava che io trovassi in me la forza di convertirmi ogni istante della mia vita al Dio vivo.
Non dimenticherò neanche il dolore che provavo (e provo ancora) sentendo qualcuno dire che don Nicola era distante, scorbutico. Don Nicola ci amava tutti e voleva il bene di tutti noi.
La sua dolcezza era l'attenzione che dedicava a ciascuno di noi come ad un capolavoro di Dio.
Era esigente, ma solo per insegnarci a non fermarci, a non adagiarci in un sonno che è morte dell' anima.
Ci spronava di continuo, a noi ragazzi del catechismo.
Ma è giusto amare all'infinito, se si vuole amare l'infinito! Mi ricordo che un giorno, tornando dalla messa con mamma, le dissi: "Sono contenta di conoscere don Nicola, anche se è un prete "impegnativo!". Questa è l'impressione che ebbi a 13 anni, e che oggi confermo in pieno.
Ero contenta di aver conosciuto un prete che guidava da Napoletano (non metteva mai le frecce!), pregava come un monaco (le lezioni di catechismo immerse in una dolcissima atmosfera di meditazione) e soprattutto, parlava e ascoltava da amico.
E andavamo a teatro! E' lì che ho imparato ad apprezzare (o criticare malignamente, a seconda dei casi!) gli attori e i personaggi interpretati. Lì mi sono innamorata di Turandot di Puccini perché finisce "che si sposano"!
Sentendolo ridere a crepapelle mi sono entusiasmata per il Barbiere di Siviglia, con lui vicino a noi ragazzi mi sono stupita e commossa vedendo i capolavori di Pirandello.
A molti di noi è rimasta questa passione, che non faremo spegnere.
Don Nicola mi ha insegnato il silenzio.
Questo è tra i doni più belli che Dio mi ha fatto per mezzo suo. Mi ha insegnato a far amare il silenzio ai ragazzi in chiesa, di fronte al Dio presente. Abbiamo amato il silenzio nei ritiri, in mezzo a Dio nella natura; e tra i monaci, con Dio nella preghiera.
Mi ha insegnato ad amare il silenzio nel mio cuore, quando cammino per strada.
Il silenzio dei pochi minuti a casa, tra le pagine da studiare e un amico.
Amate il silenzio, fratelli cari; e insegnatelo ai bambini, perché senza il silenzio, diteglielo, che senza il silenzio Dio non può parlare!
Amo il silenzio perché oggi mi permette di "sentire" Dio, avvertire il suo immenso amore, anche nelle difficoltà. Amo il silenzio perché in silenzio si pensano parole buone.
Amo, il silenzio perché nel silenzio ascolto la voce di don Nicola, come sempre nel silenzio l'ho ascoltata.
Ora è come un' eco, che continuo a sentire solo grazie all'amore di Dio.
E Dio mi guiderà, io ho fede in Lui, anche se a volte l'unica cosa che sento è il silenzio.
...Ma Don Nicola direbbe:
"A "Michè", per quanto hai scritto, non si direbbe che ami il silenzio!" ...forse un po' per sdrammatizzare!
Micaela Soressi


in Lotta come Amore: LcA dicembre 2000, Dicembre 2000

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