Non giudicare, punire o rimuovere

"Non scrivete sul mio caso, ma delle cose di cui ho scritto" scrive il giornalista serbo Miraslov Filipovic. "Spero che si arrivi ad un processo di ricerca della verità e al tentativo di riconciliazione attraverso il quale gli abitanti dei territori che hanno composto la Jugoslavia riflettano sulle guerre degli ultimi dieci anni e siano capaci di confessare i loro errori, i loro inganni, i loro misfatti".
"Finché si parlerà del mio "caso", le persone non faranno attenzione alle cose di cui ho scritto. Il mio imprigionamento sarà visto solo come una parte della battaglia per la libertà d'espressione sotto il vecchio regime - e il mio rilascio come una prova del successo di quello nuovo.
Celebreremo la nostra nuova vittoria ancora per molto tempo. Ma facendo così potremmo rimanere silenziosi proprio sui quelle cose che invece dovremmo discutere. E con questo silenzio potremmo dimostrare che il regime passato non era il solo problema dei cittadini della Serbia e della Jugoslavia".
Nel suo articolo, Filipovic dice "non sono un eroe, sono solo un giornalista locale di Kraljevo, nel sud della Serbia".
A me la parola eroe non piace, ma una cosa vorrei aggiungerla: ci vuole un enorme coraggio per un giornalista serbo per parlare ai suoi concittadini delle atrocità commesse da altri Serbi nelle guerra balcaniche. Molto più coraggio che non a scendere in piazza.
I cinque mesi di prigione non sono nulla, in confronto all'isolamento che rischia, fra la sua stessa gente, per chi cerca di aprire il vaso di Pandora.
Qua da noi non è ben chiaro che esiste, questo fenomeno: la rimozione, il rifiuto di vedere. Colpisce tutti i popoli coinvolti nei conflitti, ogni gruppo rifiuta di accettare che anche fra i suoi connazionali ci sono quelli che hanno commesso crimini orrendi. è uno shock psicologico terribile, dover accettare questa realtà. Tutti sono pronti a puntare il dito sui crimini degli altri, e a negare o minimizzare quelli degli appartenenti al proprio gruppo.
A Trieste c'è voluto mezzo secolo perché gli uni smettessero di negare che avevamo un lager nazista con tanto di forno crematorio, gli altri accettassero di parlare delle foibe, gli abissi carsici dove i partigiani titini avevano gettato tanta gente, anche innocente. Le ossa di tante vittime giacevano sia in fondo al mare sia nel ventre del nostro Carso. è guardare in faccia questo trauma non è facile. Queste parole sono dedicate alla gente normale, che non ha commesso alcun crimine né mai lo commetterebbe, ma fa fatica a guardare in faccia la realtà. proprio perché tante storie d'orrore sembrano, appunto, storie dell'orrore, ed ogni brava persona istintivamente se ne ritrae dicendo: "non è possibile, no, non la mia gente". Purtroppo non c'è solo questo, ci sono mille altre sfumature, da chi sapeva e non sapeva, a chi pensa che in fondo la guerra è guerra, fino a chi, ahimè, non ha problemi a dire "se lo sono meritato". C' è anche questo.
Si dibatte molto di tribunali, locali e internazionali, poco si parla di capire. Fa troppo orrore, l'idea di esseri umani che fanno a pezzi altri esseri umani, la reazione istintiva è giudicare, punire - o rimuovere, appunto.
Ma come faremo a liberarci della violenza senza capire dove viene, senza andare alle radici di questi comportamenti sconvolgenti? Mi piacerebbe raccogliere un po' di esperienze di persone che hanno avuto a che fare con vari aspetti di questo pozzo nero dell' anima umana, e ragionarci un po' su insieme.
Se qualcuno ha un contributo da dare, potrebbe per cortesia farsi sentire?

Paola
<paola.lucchesi@mail.inet.it>


in Lotta come Amore: LcA dicembre 2000, Dicembre 2000

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