Lotta come Amore riprende il suo cammino, dopo una sosta di alcuni mesi. Non c'è stata una ragione particolare all'origine di questo "silenzio". Sono tante e diverse le cose che impegnano la giornata e devo dire che fino a poco tempo fa avevo la sensazione di farcela solo lasciandomi andare e cercando di opporre la minore resistenza possibile all'inevitabile quotidiano. Lo scrivevo già nell'ultimo numero e la situazione non è molto cambiata se non per una ricerca più insistente per uscire da quello che descrivevo come "uno stato confusionale". Perdura tuttora, ma con minore disagio questa "crisi" che la morte di Beppe ha segnato. E questo credo sia dovuto all'aspetto positivo dell'essere in crisi: la rottura di equilibri consolidati con la loro apparente solidità e sicurezza, ma anche con il rischio crescente di ostruire la via al soffio della vita. E quindi insieme alla percezione di fragilità, nudità, insicurezza, si mescolano i flussi di nuove energie che passano attraverso le brecce aperte.
Quanto questo possa corrispondere a verità (non solo per me, ma per tutto un insieme di persone legate da amicizia e da comune sentire con questa piccola barchetta ancorata nel porto di Viareggio) lo potranno percepire nostri amici lettori che troveranno nella seconda parte di questo numero il filo delle letture e dei commenti al termine della fiaccolata in occasione del secondo anniversario della morte di Beppe.
Non è facile comunicare il calore di quella serata, la partecipazione numerosa e spontanea di tanta gente, lo scorrere lungo le strade della città di una scia luminosa, la semplicità del camminare con la serenità e la gioia di essere insieme. E poi l'affollarsi nella chiesa le cui mura non hanno avuto altro significato che quello di raccogliere un insieme di persone che Beppe, ancora una volta, ha raccolto e mescolato insieme mettendo a proprio agio gente così tanto diversa.
Nella chiesa dei Sette Santi in Darsena, la domenica precedente, durante la messa avevo raccontato una "parabola" come lui l'avrebbe definita.
Negli ultimi anni, anche per via di due zie molto anziane che sarebbero morte poco prima di lui, Beppe andava a S. Casciano, su paese natale e ritornando portava indietro a volte delle cassette con pianticelle raccolte lungo la strada. Fiori che gli ricordavano la sua campagna, fiori di campo che ornano i piccoli fossati di scolo, gli argini, le prode rialzate dove l'aratro non arriva a sconvolgere d'autunno il terreno.
E trapiantava queste pianticelle intorno alla chiesetta, lungo le aiuole che contengono una sabbia povera, adatta tutto al più alle piante resistenti all'asciuttore e al salmastro marino. Le riconosco ancora, fare capolino, protette da piante spinose che allontanano il calpestio disattento e irritato di chi è abituato a sentire sotto i piedi asfalto pulito e avverte la terra come sporco attentato alla propria eleganza. Pianticelle abbarbicate si direbbe a dispetto, ma forse capaci di vivere di null'altro che dell'aria, del sole, dell'acqua e del vento. Nella campagna di S. Casciano come nelle darsene di Viareggio.
Un giorno arrivò trionfante con tre pianticelle che si affrettò a trapiantare e ad annacquare subito al calcio di uno degli ulivi piantati da Sirio in quelle aiuole che lui chiamava "gli orti" di casa.
Mi annunciò la nascita (per trapianto!) di tre violacciocche! E schioccava la lingua, lui fiorentino e quindi dalla "ci" aspirata, di fronte a quelle due coppiole di "ci" che diventavano venti in bocca a lui, quasi per una rivincita. Un fiore che gli ricordava l'infanzia e l'esplosione della primavera.
Le tre violacciocche, trapiantate bene in fila (perché Beppe aveva un senso dell' ordine... millimetrico. Mi ricordo che..., ma questo lo serbo per un'altra volta!) superarono bene la fase del passaggio dalla terra alla rena. Fiorirono a primavera, in modo decoroso, ma non brillante. E con fiori tutti bianchi immacolati e io ridevo perché li aspettavo viola per via del nome.
Due piante però morirono. Successivamente intristirono e seccarono. L'ultima crebbe bene e si allargò ad ombrello e arrivò a lambire gli ultimi rami penduli dell'ulivo.
Beppe morì e in primavera, la violacciocca ebbe una fioritura fantastica, un grande cuscino di un bianco splendido che attirò l'attenzione di tante persone.
Data la dimensione della pianta, pensai di trapiantarla in autunno in un luogo che le consentisse di respirare meglio.
Ma, dopo l'abbondante e ricca fioritura la pianta entrò come in letargo e le prime piogge di settembre non la rianimarono, ma indurì, divenne lignea, irrimediabilmente secca. Mi dispiacque perderla.
La primavera successiva, quella dell'anno scorso, ebbi una grande gradita sorpresa. L'aiuola dove la violacciocca viveva, ma non solo, anche le altre due, e quel filo di terra, ai piedi del muretto di cinta del molo sul canale, perfino l'angolo sbrecciato usato per i bisogni, dove ci sarebbe da giurare che non può crescere niente: un fiorire di violacciocche!
Alcune sono già cresciute a buona misura e aspettano solo la primavera prossima per fiorire di bianco questo piccolo spazio di terra.
Questa "parabola" ho raccontato nella chiesa e mi pare un segno piccolo, ma ugualmente eloquente, di un tempo che si apre anche per me. La vita soffia e scuote da una memoria del tempo passato e spinge vigorosamente verso la continua scoperta della novità che nasce dai semi di ciò che è stato seminato.
Luigi
in Lotta come Amore: LcA febbraio 2000, Febbraio 2000
Luigi Sonnenfeld
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