Don Sirio e il primato della coscienza

Primato della coscienza ma in stretto e saldo rapporto con un uomo, una vita: don Sirio.
Il primato della coscienza affrontato in sé e per sé induce in tentazione: quella di elucubrazioni complesse e con approdi difficilmente concordi.
Ipotizzare il primato della coscienza in qualcuno è raccontare qualcuno. Certo un racconto particolarissimo perché presume di esplorare una persona fino al suo intimo più intimo, fino al seme di tutto quanto ha potuto esprimere, rendere visibile, comunicare.
Un'avventura a forte rischio.
Il rischio di un'esplorazione viziata da attrezzatura sbagliata o incompleta La mia amicizia con don Sirio è stata lunga ma con avare frequentazioni. E non credo di aver esaurito nemmeno la totalità dei suoi scritti.
E c'è anche il rischio di un'esplorazione invasiva. Cioè di leggere l'altro sovrapponendo se stessi o, comunque, piegando l'altro alla collocazione a noi più gradita. In questo ritengo di essere favorito. Mi sembra di ricordare (il liceo è lontanissimo!) che per una buona traduzione dei grandi poeti giova essere poeti modesti (Vincenzo Monti risultava esempio insistito). Non so se sia proprio così ma ne approfitto per convincermi che per la corretta lettura di un personaggio sia giusta una persona di contorno.
In ogni modo ecco i miei appunti di viaggio. Dello strano viaggio all'interno di don Sirio.
1. Sirio ha obbedito alla propria coscienza prima che a tutto e a tutti?
a) Non mi risulta che "coscienza appartenga al linguaggio privilegiato ed insistito di Sirio. Che sia - tanto per intenderci - tra le parole che Sirio gratifica generosamente della maiuscola iniziale, come Amore, Fede, Bontà, Verità, Libertà e altre ancora. Mi sembra però che di coscienza Sirio abbia offerto più di una traduzione. Qualche esempio: sentirmi "nella condizione giusta" dare "sincerità, autenticità alla mia vita"; "il filo della propria vita"; sogno della mia vita"; "chiarimento interiore" (da P. Crespi, Preti operai, Ed. Lavori Roma 1985, pp.31,32,35,49,50: citerò P.O). Più compiutamente in uno scritto del 1986: "E' la fedeltà di un raggio di sole che un giorno (è così lontano) mi ha investito c la sua luce, abbacinandomi violentemente. E non so... se poi questo raggio di luce... mi ha seguito con ostinata fedeltà nel mio avventurarmi dentro l'intrico del vita. oppure se è stato questo raggio di luce a muoversi incessantemente e a propormi (forse a costringermi) ad un cammino, imprevedibile per me, ma già tutto pensato e tracciato" (In Preti operai, gennaio 1988, p.86).
b) Aldilà delle parole parlano i fatti.
1943: Sirio diventa prete. Vi approda quasi condottovi da qualcosa che è in lui ma che è pii forte di lui: "E' stata una storia molto lunga quella della mia decisione di diventare sacerdote; per molti anni io ho resistito e contrastato questa vocazione... Ho incontrato dentro di me grossissime difficoltà che sono durate fino a pochi mesi prima dell'ordinazione sacerdotale" (P.O., p.35).
Resistenza inutile che riecheggia quella di certi profeti biblici e richiama l'affermazione di Gandhi "Il solo tiranno che accetto a questo mondo è la 'piccola ferma voce' interiore" (Il mio credo, il mio pensiero, Newton, Roma 1992) Nel 1956 Sirio lascia Bargecchia dove è stato parroco dal 1945 e scende a Viareggio. Improvvisamente ma non improvvisando: negli "anni in cui ero parroco... è maturata la mia preparazione interiore con tutto un cambiamento di cultura e di sensibilità personali" (P.O. p.31). Arriva a Viareggio in vespa, finisce in una pensione e confesserà che, allora, non sapeva "cosa fare e dove andare" ma di avere "una grandissima pace interiore e soprattutto molta sicurezza". "Importante - annota - è andare avanti, portare avanti il progetto che coinvolge il filo della propria vita" (P.O., p.35).
Un piccolo viaggio, Bargecchia - Viareggio, per un grande viaggio interiore. Sirio lo ha raccontato più volte.
"Mi trovavo profondamente a disagio, come fuori della mia strada, a fare il prete perfettamente in linea (o quasi) con il mondo ecclesiastico, dentro quegli schemi obbligati, quelle vie segnate e inconfondibili del Diritto canonico, della Pastorale stabilita. ...A un certo punto... è stato inevitabile, si è imposta la necessità... di smontare pezzo per pezzo, la mia costruzione ecclesiastica. Il prete si è andato dissolvendo, il prete ecclesiastico, e nel frattempo è andato costruendosi il prete-uomo o se si vuole, l'uomo prete. E' il tempo della decisione, chiara e netta, senza eroismo e bisogni di eccezionalità, di fare il prete-operaio" (Lotta come Amore, Dic. 1987, p.79: cito Lca) E Sirio diventa operaio. Da segnalare due momenti di grande peso.
Il primo: il superamento del muro della fabbrica occupata. Sirio stesso ne fa la metafora di un decisivo passaggio di confine: "Ho saltato il muro". E racconta associando ciò che è avvenuto nei fatti a ciò che gli accade dentro:
"E' venuta la domenica. Ho chiesto di andare a celebrare la Messa. Ma ancora un rifiuto. Allora ho messo gli arredi sacri in una valigia. Sono tornato sotto il muro con una scala. Sono salito e gli operai mi hanno aiutato a scendere di là. Avevo scavalcato una legge terribile, quella che separa così spaventosamente gli uomini.... Ho scavalcato questo abisso di divisione e mi sono sentito come in terra libera, fra uomini liberi" (Uno di loro, Gribaudi, Torino I 989, p.61: cito Udl.). "Stavo pensando se Dio era più dì là o dì qua dal muro" (ib. ,p.63).
Il secondo: Sirio riceve da parte delle autorità ecclesiastiche l'ordine di chiudere la sua esperienza di operaio appena tre anni dopo averla iniziata.
Sirio obbedisce. Però va ascoltato:
"L'alternativa è stata questa: o fare il prete o fare l'operaio. Fare l'operaio non era conciliabile con il fare il prete. Questo è successo agli inizi degli anni Sessanta e io sono stato posto davanti a un momento drammatico, uno dei momenti più drammatici della mia vita... E' stato molto duro" (P.O., p.45-46). "Non sono più uno di loro (degli operai) .... E questo è terribile. E questo la Chiesa non lo doveva volere... Ora tutto è finito. Per questo quella sera quando mi fu detto dell'abolizione dell'esperienza dei preti operai, mi si scavò nell'anima un vuoto spaventoso, come morire, e da allora mi sono sentito ferito, morto. La mia Chiesa mi ha distrutto. Proprio lei" (Udl., pp.171 e 179).
Sirio obbedisce. Però non desiste. Aggira: fare lo scaricatore del porto a giornata non è fare "l'operaio dentro la condizione operaia" e non lo è faticare battendo il ferro o praticando altri lavori artigianali o agricoli. Forse al di qua del muro credono che ottenere obbedienza significhi sempre piegare a disegni altrui ma Sirio rimane di là dal muro definitivamente e definitivamente rimane "uno di loro".
c) La vita di Sirio non si ferma a queste date ma queste date avranno a che fare con tutte le sue date successive.
Questi, per Sirio, sono anni generativi. O ri-generativi. Anni nei quali Sirio va - mi viene di azzardare - in "regressione": lascia il punto di arrivo per recuperare un punto precedente dal quale ripartire aggiustando la direzione e anche aggiustando se stesso. "Regressione" non soltanto psicologica.
Si trattava - già ascoltato - di "smontare pezzo per pezzo la mia costruzione ecclesiastica". "La chiesa - aggiungeva Sirio - è stato un collegio spietato per demolirmi e poi ricostruirmi in meccanismi prestabiliti" (Lca., febbraio 1986, p.l0). E ancora: "Ero uomo da piedistallo e poggiavo i piedi sull'umano e sul divino. Prete, sacerdote, ecclesiastico, chiesa... Così tanto che sotto tutte queste bardature civili, ecclesiastiche, spirituali, liturgiche ecc. spesso non avvertivo l'uomo semplice, libero, immediato, fatto dì carne e sangue, come tutti" (Lca., dicembre 1987, pp.6-7). "Regressione'', insomma, fino ad essere "uno di loro" come Sirio mette in evidenza nel titolo di un suo libro. Sirio anticipa ciò che, qualche anno dopo, diventerà programma diffuso tra gli ecclesiastici: lo strano programma di uomini che vogliono "farsi uomo" ( sarà anche il titolo di confessioni di un vescovo, mons. Bettazzi, Gribaudi 1977) e vogliono "farsi uomo" evidentemente perché finalmente consapevoli di aver perso o di essere stati spogliati di umanità. Sirio uno di loro. Non uno come loro. Sirio nel suo viaggio a ritroso recupera umanità ma recupera anche la sua umanità, la propria unicità nativa: più si spoglia di ciò che altri o altro lo avevano fatto essere e più riscopre ciò che doveva essere per personale ed irripetibile dotazione. Sirio si restituisce al proprio Dna. Si fa uomo ma uomo di nome Sirio, E' lui e non altri.
Questo io ho sempre avvertito in presa diretta, incontrandolo. Potevo accettarlo o rifiutarlo, sentirmi in sintonia o no con lui, ma mi era impossibile annullare la convinzione che Sirio non era uomo in serie o di serie, che Sirio era "pezzo unico" e, in quanto tale, comunque pregiato.
Ed ho sempre pensato che Sirio traesse proprio da questa sua originalità ed autenticità la ragione di una sua presenza importante. Originalità, appunto, come origine e non necessariamente come novità e stranezza anche se essere come da origine risulta quasi inevitabilmente nuovo e strano in contesti di umanità assuefatta a molte manipolazioni. Nessun "originale" è passato inosservato. Spessissimo è stato relegato (superfluo scomodare i nomi di Gesù di Nazareth e di Francesco d'Assisi?) tra i pazzi...
Autenticità cioè verità di ciò che uno è e lo è in solida e chiara saldatura tra pensieri, parole e comportamenti, senza sdoppiamenti e senza doppiezze. Autenticità, insomma, come uomo garantito, senza inganno, di cui ti puoi fidare.
Sirio uno di loro.
Ma uno di nome Sirio. Inconfondibile.

2. Don Sirio e il primato della coscienza.
Probabilmente lo svolgimento del tema che non voleva e non si poteva pretendere completo, potrebbe fermarsi qui.
Mi concedo un qualche prolungamento. In duplice collocazione: una nel passato ed una nel presente.
Allora.
Allora Sirio "pezzo unico" sollevò reazioni diverse, quasi opposte. Direi: inevitabilmente.
Mi aiuto con un riferimento importante: il brano evangelico che racconta di Gesù nella sinagoga di Nazareth, sua città.
Mi ha sempre colpito l'atteggiamento dei presenti.
"La gente, stupita per le cose meravigliose che diceva, gli dava ragione" (Lc. 4,22).
Però si domandava: '''Non e il figlio del falegname? Sua madre è Maria; i suoi fratelli sono Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda; le sue sorelle abitano qui in mezzo a noi. Ma allora, come mai egli fa e dice tutte queste cose?'. E per questi ragionamenti non si fidavano di lui" (Mt. 13,55-57). Facile traduzione: potrebbe avere ragione ma non ha ragione perché dovrebbe essere come noi e invece è diverso da noi.
Uno strano comportamento che, sia pure in scala diversa, si ripete con cocciuta monotonia.
Sirio fece piuttosto presto a far conciliare stupore con fiducia negli operai incontrati. Ma gli operai non erano suoi "compaesani": l'uomo con la tonaca (e Sirio la tonaca la "ostentava" sia al cancello del cantiere come nei comizi e nei cortei operai!) era di un altro "paese" rispetto a loro uomini con la tuta. E in loro suscitava curiosità ma non rifiuto. Anzi crescente attenzione e considerazione.
Sirio la maggiore resistenza la trovò nella sua Nazareth, la chiesa o, più precisamente, la chiesa dei quadri gerarchico-clericali. E' qui che il "pezzo unico" imponeva un confronto con i "pezzi in serie" dello stesso "paese". Confronto che genera una crisi: o ci si lascia interrogare e magari modificare dal "diverso" o si cerca di ricondurre il "diverso" al modello vigente, o si cerca di togliere al "diverso" ogni legittimazione:se non sei conforme sei sbagliato.
Allora era il 1956 e immediati dintorni. Secoli fa.
Da quasi coetaneo di Sirio posso testimoniare che anche il poco allora era un'enormità. Il minimo di non allineamento in una chiesa completamente e rigidamente allineata era sempre un troppo. Specialmente in Italia.
E Sirio adottò la diversità meno sopportabile: quella di andare oltre il muro e proprio dove abitava il marxismo e, quindi, per presunta deduzione, l'ateismo. Comunque la diversità di Sirio non era settoriale ma complessiva come era complessivo il suo recupero umanità e della propria umanità. E meriterebbe approfondire.
Mi limito a dire che Sirio propone alla chiesa meno aristocrazia e minori chiusure ideologiche, e maggiori coinvolgimenti nel sostegno della dignità dei calpestati e nella denuncia delle malefatte dei prepotenti e degli sfruttatori. Tanto per intenderei: dalla liturgia ( "Mi veniva da contare tutte le volte che gli mettevano - al vescovo - e gli toglievano la mitria e che gli porgevano o gli riprendevano il pastorale" scrive dopo aver assistito alla messa rinnovata dal Vaticano II: Udl, p 102) all'antinucleare ( e non ho bisogno di richiamarne le vicende). Allora. Nel 1956 e dintorni. Ma non soltanto allora. Negli anni successivi si sono verificati grandi cambiamenti. Il Vaticano II ha lasciato il segno. Ma si ha l'impressione che Sirio rimanga comunque "diverso" e che i suoi disagi ecclesiastici non finiscano anche se si fanno più sfumati. Sirio continua a proclamare il sue amore per la chiesa con una foga e una insistenza probabilmente esagerate in un rapporto d'amore compreso e corrisposto. E vengono in mente esagerazioni simili in persone ( un nome per tutti: Primo Mazzolari) sistematicamente, appunto, in difficile collocazione ecclesiale.

E la situazione, per Sirio rimarrà sostanzialmente invariata fino al termine. Stralcio da uno scritto del 1985, appena tre anni prima della sua morte. "Riconciliazione (con la chiesa) nel profondo della mia anima, è parola che mi suona terribilmente equivoca e quindi incomprensibile e inaccettabile.
...Riconciliazione presuppone una separazione, una divisione, un ritorno dopo essersi allontanati.
E quindi un rinnegare qualcosa, respingere, condannare ciò da cui è richiesto 'convertirsi'. Ma io non mi sono mai separato dalla Chiesa, non me ne sono mai allontanato. E cosa devo rinnegare, abbandonare, da cosa mi devo convertire?... Dopo trent'anni di vita operaia vissuta nella povertà, nella spartizione di ogni diritto e privilegio, in un perdermi dentro i cancelli di un cantiere, fra gli scaricatori di porto, nell'artigianato offerto e vissuto fra contadini e handicappati, nelle manifestazioni rivendicative delle lotte operaie, contro le centrali nucleari, contro il militarismo, per la pace, la fraternità, la nonviolenza... mi devo convertire, è il momento della riconciliazione. E a cosa mi devo convertire, con chi devo fare la riconciliazione? " (Rocca, 15 marzo 1985).
b) Allora. E oggi?
Che ne è di Sirio dieci anni dopo che è mancato, che ci manca? Insisto su Sirio pezzo unico, originale, autentico. E ne deduco:
Sirio pezzo da collezione. Ma di quale collezione?
Forse è ricercato dai collezionisti da archivio.
C'è sempre qualcuno che sceglie la soluzione più comoda per tutto ciò che risulta scomodo. E archiviare è conservare ma anche chiudere. Archiviare è mettere alle proprie spalle: "la pratica è archiviata".
Ma Sirio è archiviabile? Sirio è da mettere ad ingiallire negli scaffali del... c'era una volta?
Molto attivi i collezionisti delle glorie di famiglia.
Nel loro salotto buono c'è sempre spazio per una foto in più da esporre in bella vista. E sono bravi nel ritoccare i lineamenti del personaggio perché siano i lineamenti inconfondibili della casata.
Sono i collezionisti più abili. Lavorano sulla memoria che è fragile e pieghevole e loro sono forti ed attrezzati per trasformare in candidati alla gloria chi avevano candidato al rogo o all'emarginazione o alle diffide. Non so se qualcuno penserà di "canonizzare" Sirio. Nessuna sorpresa in tempi di canonizzazioni all'ingrosso e per gente che sembrava destinata all'inferno.
Ma "canone" cioè "secondo la regola", "secondo la norma" esalta o annulla il pezzo unico, originale, autentico?
In agguato e pericolosi anche i collezionisti di miti.
Mito non nel senso nobile che gli attribuisce l'antropologia.
Ma come malattia di chi cerca supplenza alla personale inconsistenza creandosi riferimenti gonfiati con il vento, magari a scapito di persone ricche di carne e sangue.
Per Sirio l'ipotesi ha ovvi limiti ma non è impossibile.
E Sirio mitizzato sarebbe Sirio finito proprio all'opposto di dove voleva arrivare. Invece che "uno di loro" si ritroverebbe ad essere "uno sopra di loro".
Personalmente rimango fermo al Sirio del primato della coscienza e coerentemente vedo per lui una sola collezione adeguata: quella dei trapianti.
So di dover chiarire: chi riceve il cuore di un morto assicura sopravvivenza al donatore proprio con il suo vivere. Ecco: al di là di sopravvivenze professate per fede c'è questa sopravvivenza per "trapianto" che non è soltanto di organi ma anche di pensieri, convinzioni, orientamenti, sollecitazioni. E ritengo che Sirio viva in moltissimi "trapiantati"; moltissimi che incontrandolo, leggendolo, sapendo della sua esperienza hanno preso qualcosa di lui e l'hanno messa al posto di qualcosa di sé. E vivono, pensano, agiscono con qualcosa di Sirio e Sirio è vivo con loro.
Sirio che è vivo - e sto chiudendo - soprattutto in chi si è lasciato contagiare dalla sua unicità e non abdica al diritto di essere se stesso, irriducibile ad ogni conformismo e appiattimento. Nemmeno troppo sbrigativamente in nome dell'obbedienza.
Da francescano ripudiato chiedo conforto a Francesco d'Assisi. Che offre saggezza anche in questa direzione. Nel capitolo XVI o della Regola non bollata (1221) Francesco, in qualche modo, desautora il superiore di fronte alla "ispirazione" del suddito: se il frate minore chiede di andare "tra gli infedeli" il suo ministro non può che autenticarne la "vocazione nella vocazione", assecondarne la chiamata personale anche se esce dai quadri della vocazione istituzionalizzata.
Piuttosto facile l'applicazione alla vicenda di Sirio. Il quale non intese contrapporre Viareggio a Bargecchia ma chiese soltanto di concedere alla vocazione canonica di Bargecchia la libertà di sfociare e inventarsi diversa nella vocazione - "ispirazione" di Viareggio.



Martino Morganti


in Lotta come Amore: LcA febbraio 1999, Febbraio 1999

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