Sono tornato in Etiopia dopo sette anni. Da quando, terminato il mio lavoro di installazione di una piccola officina di carpenteria in ferro e addestramento di giovani ad Asella, avevo lasciato Addis Abeba precedendo di poco la fuga del dittatore "rosso" Menghistu.
Ricordo - di quei giorni - la tensione per la difficoltà di trovare la benzina necessaria per il viaggio ad Addis (175 km.), i carri armati lungo la strada, le voci di chiusura dell'aeroporto, il riconoscimento dei propri bagagli disseminati sulla pista lontano dall'aereo, la partenza incerta con scalo a Gibuti per rifornirsi di carburante ed evitare cieli ormai invasi dagli ultimi combattimenti aerei.
L'aereo che, all'inizio di agosto, mi porta ad Addis fa scalo al Cairo e si vuota quasi del tutto. Segno di "disinteresse" per un paese bellissimo, ma fuori da ogni circuito del turismo internazionale. Ma anche primo segno che il paese è in stato di guerra. Scoppiato tre mesi prima, cova sotto le ceneri dei tentativi di pacificazione, il rinnovato conflitto tra Etiopia e Eritrea.
Eppure, la mancanza di controlli all'arrivo, mi sorprende. Non più le estenuanti, minute perquisizioni del bagaglio, ma solo una domanda: "Computer, videocamera?", per l'appetito dei dazi doganali.
Più volte, durante gli spostamenti in auto o a piedi, mi sono reso conto di aver memorizzato i segnali della guerra associandoli alla evidenza di picchetti armati, ai check points disseminati lungo le strade, all'estrema attenzione nell'uso della macchina fotografica.
Tutte queste misure mi sembravano incredibilmente allentate e mi portavano a pensare più che ad una vera e propria guerra, a scaramucce di confine, ad assestamenti inevitabili dopo i compromessi sugli assetti territoriali approvati nell' euforia della vittoria dagli allora alleati del Fronte di liberazione eritreo e quello tigrino ora al potere in Etiopia.
Mi sono dovuto ricredere man mano che, a sera, capitava di seguire la TV. Un martellamento incessante di immagini dei bombardamenti eritrei su villaggi etiopici, delle raccolte di cibo e denaro per sostenere i rifugiati, di un esercito dallo spirito vivace e combattivo. La costruzione del "nemico" e l'attenzione a tenere alta la tensione sono i principali obiettivi di questa campagna che - con perfetta aderenza alla modernità - ha per obiettivo quello di portare la guerra in casa, sulla tavola (si fa per dire!) imbandita per farla digerire al popolo.
Mi hanno parlato di oltre 100.000 cittadini eritrei rimpatriati di forza. Tra questi anche il proprietario del garage di Asella che, sia pure con a volte fantasiose "modifiche" che supplivano al difficile reperimento dei pezzi di ricambio, riparava le non molte macchine in circolazione. La moglie in prigione. I figli minorenni, nati in Etiopia, costretti alla separazione dai genitori.
L'Etiopia è - da sette anni - una federazione di stati "regionali". Lingue diverse, gente sospinta qua e là dalla fame, dalla guerra, dalle alleanze politiche ed economiche, dall'odio, dall'amore, dal caso.
"Ognuno a casa propria" recita uno slogan che non è scritto da nessuna parte, ma è inciso dolorosamente nella carne e nelle poverissime storie di tanta gente africana e non.
Ho visto più di 250 persone ammassate in una vecchia stalla mezzo diroccata alla periferia di Shashamane. Famiglie intere ridotte su un pagliericcio, gli attrezzi essenziali appesi alle pareti affumicate, sembravano essersi appena rifugiate in quel luogo. Mi hanno detto che sono lì da sette anni. Dall'avvento della federazione. Vivevano nelle loro capanne a 50 km di distanza, ma parlano un'altra lingua dalla maggioranza della gente del posto. Alcuni di loro portano i segni della lebbra. Sono dovuti andar via con quel poco che potevano caricare sulle spalle.
E' un piccolissimo, pallido segnale di un fenomeno molto vasto e diffuso di cui si conoscono solo le manifestazioni macroscopiche dei grandi campi di rifugiati sotto l'incalzare delle guerre che si affacciano sulle pagine dei nostri quotidiani e delle nostre TV.
I rifugiati sono la maledizione vivente nella storia di una umanità che avvilisce e nega l'accogliente maternità della terra.
L'Africa (e non solo) è un mare, un oceano di terra. Ma a tanti, sempre troppi!, non può concedere neppure solo lo spazio dove fermarsi e abitare.
Un pugnello a testa di qualcosa che somiglia a una minestra di fagioli (ma i fagioli sono una illusione) è l'unico pasto della giornata. "E' così!", ammicca con un mezzo sorriso uno degli "abitanti" della vecchia stalla. Sorridono gli occhi dei bambini raccolti intorno. Una risata che seppellisce l'uomo bianco dai tre pasti al giorno, sgomento e ripiegato su se stesso a difendersi da quella incredibile capacità di sopravvivenza.
Ma davvero: "da dove viene ai poveri quell'energia per tirarsi in piedi la mattina e affrontare una giornata fatta di nulla?". Energia che zampilla in mille risatine alla sorgente, ma che da subito scorre veloce tra le strette pareti della miseria e della costrizione trascinando con sé le pietre della rabbia e i macigni della disperazione. Energia vitale dall'incontenibile capacità distruttiva.
Unica possibilità che fino ad oggi la storia umana conosce per opporsi alle ragioni e allo strapotere dell' ingiustizia.
Luigi
in Lotta come Amore: LcA ottobre 1998, Ottobre 1998
Luigi Sonnenfeld
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