Beppe racconta

Torniamo a casa, dopo un mese di ricerca unica e totale di Dio, di Gesù, del Suo Mistero e del Suo infinito Amore per il mondo.
Siamo andati verso l'Oriente e ce ne torniamo col cuore carico di ricchezze e di tesori meravigliosi, mai sognati. Il miracolo si è veramente compiuto, perché Dio ha ottenuto tutto il posto che Gli conveniva: tutta la vita, tutto l'amore, per sempre.
Sono rimasto realmente conquistato, preso, trascinato via dal Suo Mistero ed ormai so bene che ogni passo sarà per Lui, per tutta l'umanità perché ci sia Lui sempre più dentro la vita e la storia degli uomini. Voglio solo che la mia vita Lui la costruisca interamente secondo i Suoi disegni. Come Lui la vuole, dove Lui ha pensato di farla fiorire e morire. Come il seme che si abbandona totalmente al destino che la mano del contadino e il vento dell'aria gli hanno assegnato. Desidero solo essere un seme di grano buono nel grande campo dell'esistenza, perché il mio esistere sia qualcosa che serve a saziare la fame di Verità, di Luce, di Gioia dei miei fratelli.
Da "La Terra di Gesù" in La Prora n. 2 anno 1964

I primi anni di Beppino Socci, prete
Stasera sono stato a portare la benedizione pasquale alle famiglie dei contadini della mia parrocchia di montagna. Sono le famiglie più lontane dalla chiesa parrocchiale, sparse fra i boschi di castagni e di querci. E sono anche le famiglie più povere di questa comunità cristiana fatta per la maggior parte di boscaioli, contadini e manovali. Lungo il sentiero tutto coperto di neve bianca e leggera, in mezzo al grande silenzio del bosco, mi sono arrampicato fino ad una casetta dove vive un uomo solo. I suoi sono andati via qualche mese fa; ma lui è voluto restare lassù, in mezzo ai suoi boschi, in quella casetta costruita con le sue mani, a finire i suoi giorni nella terra che la sua famiglia ha abitato quasi da 600 anni. Gaspero, è l'ultimo: dopo di lui, quella casetta e quei pochi campi in cui con tenace pazienza ha piantato le viti, seminato il grano e il foraggio, resteranno nella più completa solitudine.
Sono arrivato alla casetta di Gaspero tutto sudato e stanco: avevo camminato più di mezz'ora nella neve, ancora intatta, alta quasi 30 cm. Lui mi è venuto incontro sulla porta di casa: era meravigliato e stupito che io mi fossi spinto fino lassù su tutta quella neve. "Ormai - mi ha detto - credevo proprio che quest'anno sarei rimasto senza benedizione". Ma Gaspero la benedizione ce l'ha già da molto tempo; quella che Dio riserva ai suoi poveri. Perché Gaspero è un povero, uno di quei poveri a cui il Vangelo assicura il dono della Beatitudine.
Accanto a lui, vicino al camino acceso, bevendo insieme il buon vino delle sue viti, mi sono sentito felice. Sentivo che la prima Beatitudine, quella che assicura ai poveri il Regno dei cieli, era vera. Gaspero la porta dentro, in fondo all'anima, forse senza saperlo.
In "La Voce dei Poveri" - Viareggio - Marzo 1964


Li chiamavamo "i due Beppi"
Beppino e Beppe Pratesi insieme a Castiglioni, braccianti sulle terre di principi e marchesi.
La vita che stiamo facendo ogni giorno, perduti e nascosti fra i braccianti agricoli dell'azienda dove lavoriamo ci aiuta a scoprire con nuova chiarezza e forza certe realtà del Vangelo, finora rimaste soltanto al livello di "parole". Diventano piano piano carne e sangue della nostra vita. Concretezza quotidiana di un'esistenza umana che, in questo, somiglia alla normalità dell'esistenza della grande maggioranza degli uomini. "Se uno mi ama prenda la sua croce e mi segua": queste parole di Gesù, che ci raggiungono nel vivo del nostro doloroso e faticoso cammino di uomini come un invito ad andare avanti nella speranza, mi venivano in mente mentre salivo per le piagge dei campi carico di grossi fastelli di salci appena appena tagliati.
Ho pensato alla grande croce che ogni giorno gli uomini che lavorano devono portare sulle proprie spalle e - tante volte - anche sul cuore. A questa grande croce dei poveri, che essi portano con grande dignità, senza eccessivi lamenti, con impegno e serietà spesso davvero straordinari. La croce del pane guadagnato con la fatica di tante ore di lavoro; della casa, dei figli tirati avanti proprio per la fedeltà a questo peso di tutti i giorni. Ed è una fatica e un peso che essi portano non solo per sé, ma anche per coloro che hanno pensato bene di scrollarsi di dosso questa croce che è di tutti e hanno cercato qualcuno che la portasse anche per loro. E l'hanno subito trovato: "i poveri li avrete sempre con voi". Sono proprio loro, i poveri, che hanno curvato le spalle e hanno preso su di sé, come il Cristo, la croce quotidiana di chi ha preferito i palazzi lussuosi, le vesti sfarzosi, il pane non sudato.
E anche se non lo sanno, essi, sono sempre con Lui, col Cristo, sui Suoi stessi passi, sullo stesso sentiero, perché continuano il Suo stesso destino e, cori Lui, preparano e fanno la salvezza del mondo.
Siamo molto fe1ici che l'Amore di Dio ci abbia concesso la gioia di entrare a far parte di questo popolo: sentiamo che il nostro sacerdozio è stato arricchito, completato, inserito più profondamente nella "storia della salvezza" che di continuo si svolge sulla terra. Questa croce che finalmente abbiamo ritrovato anche come "preti di Gesù Cristo" ci fa scendere nell'intimo del destino umano, arricchisce e rafforza il nostro cristianesimo, la nostra consacrazione all'Amore e al Servizio.
Siamo contenti di aver ritrovato la "nostra" Croce: l'avevamo perduta di vista, ci avevano anche detto che non era conveniente e giusto portarla, volerla riprendere sulle proprie spalle. Ora che invece ci è stato possibile riabbracciarla, abbiamo avuto l'immensa gioia di fare una scoperta che ci ricolma il cuore di felicità: su quella croce abbiamo ritrovato anche Lui, il Signore Gesù, che ci attendeva.
Da "Popolo di Dio", idee e esperienze della Comunità Parrocchiale di S.Maria - Viareggio - anno 2, n° 4 - gennaio 1969

Beppe ''il pescatore": pesce e pane
Il mio lavoro è antico quanto l'uomo e quindi ha conservato - pur nella evoluzione storica dei mezzi tecnici - un suo carattere "primitivo" che gli deriva dal suo rapporto con le forze della natura: il vento, la pioggia, il giorno e la notte, la bonaccia e il "marettone".
Questo fatto lo rende duro e spesso incerto.
Lavoro da circa un mese su un motopeschereccio (il "Libeccio") per la pesca mediterranea: è una grossa barca di 143 tonnellate di stazza, lunga 31 metri e larga 6, con la "coperta" tutta ingombra delle attrezzature necessarie al mestiere. C'è un grosso verricello, per la trazione del cavo d'acciaio della rete; ci sono le tre piccole imbarcazioni indispensabili per la pesca notturna (due "lampare" e una "stazza'') e, in fondo, sul piano di poppa, la grande rete (circa 700 m.) con tutti i suoi ornamenti di sugheri, piombi, corde e anelli di ferro.
Sotto coperta, come a dire nel "ventre" della barca, è sistemato il potente motore (600 HP) e una grande "ghiacciaia" adatta a conservare il pesce.
A prua, ci sono le cuccette dei marinai e una piccola sala che serve anche per i pasti (più frugali e austeri che in un convento) e sopra, in alto, a dominare l'orizzonte e la distesa del mare, la cabina di comando.
E' da lì che il capitano organizza e dirige la pesca di ogni notte: pesca chiamata del "pesce azzurro" o del "ciaciolo", perché è diretta ad un tipo di pesce particolarmente sensibile alla luminosità e che quindi bisogna prendere di notte (sono sardine, boghe, acciughe, sauri, sgombri...).
La battaglia inizia perciò appena fa buio: l'occhio luminoso dello scandaglio scruta il fondale, seguito dall'occhio attento del capo-pesca. Vengono calate in mare le due lampare, munite di un grosso generatore elettrico: le potenti lampade riflettono il loro chiarore sul pelo dell' acqua ed è la loro luce che costituisce l'esca per il pesce e lo attira piano piano nella trappola: il pesce, se "lavora bene", comincia a salire verso la superficie e a radunarsi nella zona dove sono ancorate le lampare.
L'attesa dura finché non c'è pesce sufficiente a giustificare la "cala" della rete: la barca gira intorno alla zona illuminata e segue, come una sentinella sempre all'erta, il movimento del "nemico". Può essere a mezzanotte, o poco prima dell'alba (tutto dipende dalla stagione, dal vento o dalla luna...) che si cala la rete: è un largo giro che viene tracciato all'intorno delle lampare, come a stringere in un cerchio di morte i piccoli esseri ingannati dalla luce.
Appena scesa completamente in mare, il grosso cavo d'acciaio che regge la rete comincia a fischiare intorno al verricello che lo riporta a bordo, costringendo la rete a chiudersi e a diventare come una grossa mano che lentamente stringe la sua preda, fino a rinserrarla nell'ultima "sacca" dalla quale verrà issata a bordo e messa a riposare - per breve tempo - nella ghiacciaia.
A operazione finita, c'è un quarto d'ora, venti minuti di riposo: si mangia qualcosa, si riprende fiato un momento, poi si scende "a basso".
E' il secondo tempo della battaglia: come ad una catena di montaggio, il pesce va velocemente incassettato (sono cassette di circa l0 kg.), naturalmente scegliendolo secondo la qualità.
Si lavora nell'umido, in piedi (se non c'è mare mosso è già una fortuna). Se il pesce è abbondante, si lavora fino all'arrivo in banchina e anche dopo.
L'orario di lavoro del pescatore oscilla sempre fra le 12 e le 16 ore ogni volta: quando non fa cattivo tempo e la pesca è buona, questo ritmo di lavoro può durare diversi giorni, senza interruzioni.
Mi diceva uno di loro: "Il pescatore deve mangiare quando non ha fame, dormire quando non ha sonno e lavorare quando non ne avrebbe voglia".
Se il mercato è buono, se il gioco commerciale non gira troppo male, tutta questa fatica è compensata da un guadagno che visto sul piano economico può far l'impressione di essere discreto.
Guardato sul piano dell'uomo, di quanto gli viene chiesto per portare a casa una buona "busta" (in media, 150.000 lire al mese, per questi sette o otto mesi della stagione), il pane del pescatore sa sempre d'amaro.
In "Lotta come Amore" - Viareggio - aprile 1971

La famiglia di Beppe
Ricordava e citava spesso i detti del suo zio Angiolino, uomo di vivace e limpida coscienza.
Sullo zio Luigi ha scritto questo articolo.
Poco tempo fa è morto un mio parente e così com'era giusto ho partecipato al suo funerale. Un uomo semplice, come tanti; un vecchio contadino, bloccato negli ultimi tempi su una carrozzina, che si è spento come una candela sopraffatto dal vento troppo forte della vecchiaia. Era un "ragazzo del '99" ed aveva quindi compiuto il suo cammino.
Una vita come la sua (84 anni) è una lunga pagina di storia che racchiude avvenimenti dei quali portiamo ancora i segni, le speranze, le amarezze e i sogni.
La sua prima esperienza fuori del piccolo spazio della sua terra, del suo podere di mezzadro di una grande fattoria di una famiglia principesca fu la "grande guerra".
Lui che la guerra non sapeva neppure cos'era (non aveva Ietto nemmeno un libro di storia) si trovò sbalzato sul fronte del Piave a soli 18 anni. E fece di tutto per venirsene via e ci riuscì col suo istinto contadino che lo richiamava ad un concetto di patria concepita come la casa, il campo, la stalla, gli amici, il paese dov'era nato e cresciuto. Dopo quella bufera di cui forse non capì né il significato né la portata se ne tornò a seminare, a mietere, a vendemmiare, a spremere olio, a tirare avanti la sua famiglia. Da lui, come da tanti altri "senza nome", ho imparato tante cose, fin da quando ero giovane seminarista e credo che tante intuizioni riguardo al Vangelo mi sono arrivate attraverso questo stile autentico di vivere e di lavorare. Penso che sia stato realmente uno che ha "posseduto la terra", perché di certo lui l'ha amata molto di più del principe Corsini di cui era mezzadro, che aveva 40 famiglie di contadini nella sua fattoria, ma per il quale la terra era solo un oggetto, un modo di far soldi, una maniera di continuare ad essere "il padrone". Penso anche che sia stato un "costruttore di pace", per istinto, a fiuto, certamente non per una scelta consapevole, lui che aveva dovuto imparare a dire "signorsì"a soli 18 anni e andarsene sul Piave a difendere i sacri confini della patria. La patria lui l'ha difesa con l'aratro, con i buoi che curava in modo straordinario, con il grano, il vino e l'olio prodotti ogni anno col sudore della fronte, compiendo la grande obbedienza al primo comandamento della Genesi (lui che non sapeva neppure esistesse un libro chiamato così). E senza saperlo è stato fedele anche all'impegno di rendere migliore la vita, la società più giusta, più fraterna. Perché credeva che bisognava cambiare le cose, che non era giusto che ci fosse un padrone che si prendeva la fatica e il sudore dei contadini semplicemente perché era il padrone.
E ha fatto le sue lotte, le sue scelte politiche semplici ma convinte, anche se questo significava rischiare con la propria coscienza e la propria fede.

A quest'uomo istintivamente evangelico la sua Chiesa, quella che lui ha conosciuto e con la quale è vissuto fianco a fianco, non ha mai detto che era nel giusto, che la strada da battere era quella del rifiuto della guerra, del possesso della terra, della lotta non violenta ma decisa al sopruso e allo sfruttamento. Così ha sempre pensato che fra la sua vita e la sua Chiesa non c'era armonia, anzi c'era del contrasto e della separazione. Per questo credo che avesse capito che c'era qualcosa di bello nella scelta di uno della sua famiglia di essere prete-operaio, che celebrava la messa con le mani callose, che conosceva la fatica del pezzo di pane guadagnato col proprio sudore, che aveva scelto di stare dalla parte di chi è oppresso e sfruttato dai servitori del "dio-quattrino".
Anche se diceva sempre, seguendo il suo istinto arguto e sapiente, che forse sarebbe stato meglio rimanere all'ombra di uno dei tanti dolci campanili delle colline toscane, senza tentare evasioni troppo allo scoperto. Ho voluto condividere con gli amici questa semplice storia di famiglia, perché per me ha il sapore del pane appena sfornato, di un bicchiere di vino buono, di una sorsata d'acqua fresca. E' storia di popolo, affaticato e oppresso da mille padroni (compresa la Chiesa) ma che ha portato avanti la sete di giustizia e di pace. E questo popolo ha il diritto di essere ascoltato.
Da Lotta come Amore - marzo 1983


Beppe e la "sua" lotta di sempre: Smilitarizzare l'uomo!
(...iniziando a smilitarizzare la Chiesa compromessa con i cappellani militari in una struttura che è scuola di morte)
Con questo titolo assai significativo e provocante si è svolto ad Assisi dal 27 al 31 dicembre '83 un convegno giovanile sul tema della pace.
Sono state delle giornate di studio e di riflessione molto appassionata, di scambio di esperienze concrete e di progetti umili ma tenaci per giungere alla realizzazione in termini storici, quotidiani del grande sogno che Dio ci ha lasciato attraverso la parola del profeta Isaia: "Cambieranno le loro spade in falci, le loro lance in vomeri e non impareranno più a fare la guerra". Un popolo fatto di un migliaio di giovani venuti da ogni parte d'Italia a confrontare le proprie esperienze e a trovare insieme le ragioni culturali, religiose, materiali e spirituali per un cammino autentico di pace.
Fra i molti argomenti affrontati in questi giorni dedicati a studiare la via della pace ce n'era uno riguardante lo spinoso problema della "presenza della Chiesa tra i militari" con riferimento preciso alla "figura" del cappellano militare.
Il gruppo di studio al quale anch'io ho partecipato era guidato da un cappellano militare della scuola del genio della Cecchignola (Roma): la sua esposizione è stata estremamente lineare, per niente incrinata dal minimo dubbio, fondata sulla sicurezza della validità pastorale di questo modo di presenza della Chiesa dentro la struttura dell'esercito e della vita dei soldati nelle caserme. Praticamente tutto il suo ragionamento si riassumeva in questa chiarissima conclusione: "La Chiesa tra i militari si fa militare con i militari, entrando nella struttura e nell'ambiente, vivendo giorno per giorno in essi, per coglierne sino in fondo il significato. Solo in questo modo si pone in grado di portare un annuncio efficace, veramente calato nella realtà alla quale si rivolge".
I partecipanti a questo gruppo di studio non hanno assolutamente condiviso né l'impostazione né i contenuti dell'esposizione del cappellano militare ed hanno praticamente ribaltato e rimesso in discussione il modo e il senso della presenza della Chiesa nella realtà militare. La maturità e la serietà dei giovani che partecipavano alla discussione si è dimostrata veramente straordinaria, motivo di speranza per la crescita di una Chiesa nuova, diversa, veramente testimone del vangelo di Gesù Cristo.
Ricucendo i vari interventi è venuto fuori una specie di manifesto antimilitarista che esprime molto bene la sostanza del "vangelo di pace" annunciato e vissuto da Gesù e del quale tutta la Chiesa deve essere fedele testimone nella storia. Storicamente i cristiani sono andati ad ammazzare con coscienza tranquilla.
Ci sentiamo responsabili di non aver annunciato l'unica cosa che abbiamo il dovere di dire : "tu non uccidere!". L'Evangelo deve essere elemento di distruzione delle strutture ingiuste, affinché possa nascere qualcosa di nuovo. L'annuncio di Cristo è qualcosa di più che entrare nella struttura. Cosa diciamo ai soldati? "Dio è con noi" oppure "Non uccidere"?
Il messaggio cristiano è un messaggio di pace e di amore. La Chiesa deve combattere tutte le forme di violenza compresa quella militare. Il modo di agire della Chiesa deve essere il modo di Cristo, che è la semplicità e la povertà. Cristo ha scelto ed ha proposto di morire piuttosto che uccidere. Il cappellano militare stando nell'esercito, che è una struttura di violenza e di morte potenziale, rende la Chiesa complice di questa macchina che per difesa deve uccidere il nemico.
La Chiesa dovrebbe impegnarsi molto di più a sostenere l'obiezione di coscienza, le varie forme di servizio civile; e ritirare i preti dalla struttura militare, costruendo una cultura di difesa popolare non violenta, che è una difesa civile, alternativa a quella militare.
E' necessario recuperare come comunità ecclesiale il senso collettivo della responsabilità nei confronti della violenza strutturale espressa storicamente negli eserciti. Il "non uccidere" non è un semplice "consiglio evangelico", ma comandamento divino scritto su tavole di pietra e che impegna ogni credente.
Un interrogativo finale dei giovani: "perché voi sacerdoti non potete usare le armi (codice di diritto canonico) e noi semplici cristiani, sì? Perché io posso e devo uccidere (in guerra) e tu no?
Da Lotta come Amore - gennaio 1984


Un teatro per la pace: il grande sogno.
E' trascorso ormai un anno da quando ci siamo messi in giro a "predicare la pace" con lo spettacolo teatrale "Le ombre di Hiroshima" che don Sirio ha scritto e che insieme ad un piccolo gruppo di amici siamo riusciti a mettere in piedi. Amici molto diversi fra loro, ma tutti desiderosi di dare un po' del proprio tempo e delle proprie energie a questo grande sogno della pace. Perché proprio di sogno si tratta: di una visione della vita raccolta prima nel profondo del cuore, alle radici stesse dell' esistenza, e poi resa pubblica, gridata, raccontata a forza di gesti e di parole. Una visione che parte dall'esperienza tragica e terribile della prima bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki e poi si allarga fino al nostro tempo così carico di pericoli concretizzati nell'enorme potenziale nucleare che i "grandi" hanno progressivamente accumulato sulle nostre teste, nascosto - quasi fosse un tesoro prezioso - nelle profondità della terra e del mare.
Un annuncio, questo del nostro teatro per la pace, che non vuoI far leva sulla paura, perché la paura è sempre e comunque una cattiva madre, anche se a volte può produrre qualche frutto positivo. Un annuncio invece che vorrebbe scavare dentro le coscienze, prendere il "cuore" dove ogni uomo e ogni donna potrebbero ritrovare il senso della vita e rendersi conto dell'assurdo che è nascosto nella logica purtroppo cresciuta e crescente dell'equilibrio del terrore, del riarmo ad ogni costo (magari fino all'olocausto di milioni e milioni di esseri umani).
A me è sembrato di andare in giro nei teatri, nelle chiese, in qualche piazza, a compiere un'opera che assomiglia tanto alla visione che pare S. Agostino abbia avuto a proposito di tutt'altra questione: un bambino che con una conchiglia cercava di svuotare il mare!
Forse anche noi col nostro girare qua e là in veste di modestissimi "attori" con le nostre attrezzature da saltimbanchi, assomigliamo a quel bambino della visione. Vorremmo tentare di svuotare il gran mare della violenza organizzata, l'oceano degli arsenali militari, degli eserciti sempre pronti alla lotta, delle centrali del potere politico ed economico che sono sempre dietro ogni militarismo, della sottile e ben attrezzata cultura della guerra che ogni popolo ha pagato a prezzo di fiumi di sangue. Forse quello che abbiamo fatto e che continuiamo testardamente a fare è solo un ingenuo e infantile tentativo di portar via da quest'oceano amaro della storia umana qualche goccia, con l'assurda speranza che si realizzi il grande avvenimento sognato da Isaia: "Forgeranno le loro spade in falci, le loro lance in aratri e nessuno imparerà più il mestiere della guerra".
Così il nostro sogno ingenuo e infantile si ricollega misteriosamente al sogno stesso di Dio. Quel sogno che storicamente si è fatto visibile nella vita di Gesù di Nazareth, del quale vorremmo essere umili, ma fedeli testimoni. Sulla linea della sua lotta, dei suoi sogni, delle sue speranze forse si può collocare anche questo nostro "girare per le città d'Israele" nel tentativo di provocare una presa di coscienza che conduca a delle risposte precise contro la logica della guerra e per una cultura e una vita di pace.
...Con la nostra umile conchiglia fra le mani, noi continuiamo nel folle tentativo di svuotare il mare...
da Lotta come Amore - giugno 1984




in Lotta come Amore: LcA aprile 1998, Aprile 1998

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