Elegia per don Beppe

L'amicizia di Don Beppe era "il fuoco buono
quello che diventa luce, calore,
punto di reciproco scambio lungo i sentieri dell'esistenza".
Per me, carica di anni e di amarezze,
la Chiesetta del Porto era l'unico luogo
in cui si potesse continuare a sognare.
Cenavamo insieme, quando
potevamo realizzare lo straordinario evento.
Credo così cenasse Gesù coi suoi discepoli.
Beppe condiva di allegrezza il pane, il vino, il pesce.
Tornavamo a casa forti del suo coraggio,
sorretti da quanto ci era stato dato
"a gran cuore", e felici di tanto dono.
Perché, perché enigmatico Iddio, a noi l'hai tolto?
Tu ci hai strappato
un motivo per non arrenderci,
per portare avanti,
nel disfacimento generale,
"la lotta come amore".
Forse ha ragione il poeta
che così decifra l'enigma:
"Anche Dio è infelice".


PREGHIERA
Vedi, Signore,
in quale buio
ci lascia
la crudeltà della morte.
Fa' che con gli occhi dei mistici
per noi tutti
"La tenebra brilli
di splendida luce
nel seno della più densa oscurità".


Ho portato a don Luigi questa mia poesia poco dopo la morte di don Beppe. Avevamo pensato di mantenere la consuetudine di ritrovarci ogni tanto a cena insieme, sicuri che don Beppe sarebbe stato tra noi. Ne è giunto a conferma il proposito li dedicare a lui il prossimo numero del giornalino. Ognuno avrebbe scritto secondo il suo cuore, i suoi ricordi; la sua eredità.
Per mia parte il punto di partenza é stata la poesia: poesia come "canto" (così la intendeva Turoldo) ma il canto per la morte di Beppe si è rivelato un lamento, con un acuto grido lancinante: "Perché, perché / enigmatico Iddio, a noi l'hai tolto?". 2uando Maria Grazia mi aveva dato per telefono la notizia della sua morte, così improvvisa e imprevedibile, le avevo detto: - penso alla poesia 'La quercia caduta" -. Avevo infatti avvertito, di colpo, quanto "era pur grande" e il vuoto da lui lasciato apriva davanti a me un precipizio. Se non scrivevo una poesia, un canto di lamento, quel vuoto mi avrebbe risucchiata.
Con il poeta Turoldo ho dovuto gridare a Dio il mio "perché". Si tratta dello stesso interrogativo che egli aveva lanciato nei suoi "Canti ultimi":
E pure il tuo figlio
Il divino tuo figlio, il figlio
che ti incarna, l'amato
unico figlio uguale
a nessuno anche lui ha gridato
alto sul mondo:
"Perché?"

E concludevo il mio pianto con il titolo del libro famoso di Turoldo "Anche Dio é infelice" e pregavo, pregavo per uscirne.
Furono i testi di due mistici: Angela da Foligno e Dionigi l'Aeropagita ad illuminare quel buio che ci lascia la crudeltà della morte.
La beata Angela "vede nella tenebra" e canta "l'amicizia inesprimibile di Dio". "Le soavi parole sussurrate, son poca cosa di fronte a ciò che nella tenebra appare". Dionigi così prega:
"Trinità sostanziale, che animi la sapienza cristiana, guidaci oltre ogni luce, oltre l'inconoscibile là dove i misteri primi si rivelano nella luminosa tenebra del silenzio. Nel silenzio vengono rilevati i segreti di questa tenebra che brilla di splendida luce nel seno della più densa oscurità".
Il disvelamento della luce che brilla nella tenebra di coloro che raggiungono la fusione con l'Essere Supremo mi ha chiarito e restituito don Beppe, la sua storia, soprattutto la sorgente da cui è poi fluita quella storia. E sono tornata a leggere le pagine altissime del suo Viaggio in Palestina "Nella terra di Gesù" che avevo pubblicato tanti anni fa nella mia ormai antica rivista "La Prora" che comincia appunto con questi versi:
In viaggio verso le Sorgenti
dove è nato il fiume eterno
della Gioia.
Dove la Tomba é Resurrezione,
e il dolore salvezza universale.
Durante questo viaggio don Beppe ha raggiunto la Grazia dei mistici ed ha capito l'essenziale:
"Devo pensare solamente a te, al tuo volto meraviglioso dove per sempre è acceso l'Amore
( ... ) Sì veramente ti ho visto o Amore unico dell'Universo. Ti ho dato tutto, Ti ho regalato la mia vita, perché Tu la getti nel vento, sulle strade del mondo".
"Bisogna che riusciamo a stabilire con Te un rapporto unico e assoluto dove la nostra esistenza trovi la sua esatta vocazione ( .. .) Dio deve diventare la nostra pienezza il nostro tutto affinché poi lo doniamo e lo sperimentiamo nella realtà della carne".
Ecco perché ho capito don Beppe rifacendomi all'esperienza dei mistici. Solo così si compie il Vangelo. E' una lezione unica per noi cristiani che pensiamo di licenziarlo dandoci da fare in organizzazioni assistenziali in partecipazioni più o meno distratte alla liturgia, ai convegni, alla preghiera meccanica e frettolosa.
Bisogna invece cominciare dall'adorazione del Padre "in Spirito e Verità", dalla cima del monte non "dal tempio o in Gerusalemme", regalando la nostra vita, "perché sia gettata nel mondo a far fiorire la Gioia, la Fraternità, la Giustizia nel Cuore dei poveri, degli oppressi dei vinti dal Male".
Così si è aperta la strada infinita di don Beppe e il dipanarsi di questa strada ha toccato chiunque lo abbia incontrato.
Di questo cammino ho ritrovato tracce meravigliose riaprendo i numeri preziosi di "Lotta come amore" che conservo con cura. Quando arrivava il "giornalino" (lo chiamiamo cosi perché vogliamo bene a queste pagine che costituiscono invece un importante Periodico) i primi articoli che leggevo erano i suoi e in fondo li ricordo tutti. Nel numero del dicembre '94, don Beppe racconta del suo soggiorno in Val D'Aosta con compagni a lui legati "dai preziosi fili dell'Amicizia". Io conosco la Casa che li ha ospitati (in cuor mio la chiamo "Casa Amica"). So che gli incontri di preghiera e di meditazione lì dentro ti aprono orizzonti straordinari e altissimi; don Beppe non riferisce le scoperte, i motivi di crescita che vi si attingono: sono state invece le acque, che cantano, divise in due rivi, attorno alla Casa, ad aver avuto per lui un richiamo particolare. Vi ha visto e sognato il Grande Fiume della Vita. "Ho pensato - egli scrive - che questo è davvero il grande Fiume Sacro simboleggiato da tutti i fiumi della Terra... entro le cui acque siamo continuamente immersi. Fiume sacro che scorre da millenni, scende precipitando da altezze da capogiro, rotola dentro gole profonde, si distende dolcemente nei prati. - Grande Fiume della Vita, musica e canto della Madre Terra (... ). Il Grande Fiume porta con sé i semi della nuova primavera, ma anche i segni della morte e della fine delle cose: le acque della Vita sono cariche di lacrime, di fatiche, di delusioni cocenti, di attese che non trovano compimento, di speranze che si infrangono tra le pietre dell'indifferenza o de strapotere del denaro e dei suoi tenaci servite padroni). La corrente, a volte, sembra travolgere tutto e tutti, senza possibilità di scampo. Per fortuna mi è stato concesso di risentire il canto dolce dell'acqua limpida e fresca... Il Grande Fiume ha significato per me un rinnovarsi de forze interiori, un nuovo coraggio, una volontà non demordere... a cercare orizzonti più disponibili alla luce, al riannodarsi dei fili, se pur sottilissimi di pace, di lotta intensa, radicata. ragioni dell'amore e del sangue... Perché ci sia data a tutti la possibilità di partecipare al canto della Vita".
In un altro articolo uscito nel numero di maggio del '93, "Pensieri di sabbia sul mare della vita" don Beppe deposita lo spaziare della mente lì sulla rena, tra i tanti detriti portati dall'acqua così come "una preziosa conchiglia venuta a posarsi da lontano".
Eppure quei pensieri, nell'abbraccio tra cielo, terra, contenevano la visione davvero straordinaria dell'Incarnazione di Cristo nella pienezza, nella Sua forza, nella Sua lotta, nella Sua durissima capacità di resistenza e nel Suo amore capace di croce.
Altro momento di chiarezza e autenticità di vita gli viene sostando davanti al centenario castagno di Camaldoli (Giugno '97). Aveva partecipato ad un Seminario di preti operai sui problemi dell'attualità economica. I relatori molto abilmente avevano analizzato parole oggi "storiche" come: capitale, profitto, finanza, economia, lavoro, occupazione, ricchezza, un insieme di problemi dove scompaiono, come sotto l'urto di una cascata dalla violenza inaudita, parole "antiche" come Giustizia, Amore, Fratellanza, Etica, Povertà, Mistica.
Chi è stato però il relatore più risolutivo e convincente? La vecchia pianta pluricentenaria che don Beppe incontra nella splendida foresta attorno al monastero, camminando nel silenzio a passo lento.
Il castagno offre al suo interno un grande spazio accogliente e una targhetta infissa sul tronco spiega: " Tutta la parte interna ha solo funzione meccanica di sostegno. La parte viva e funzionale è solo quella periferica del fusto".
Dopo giornate intense di discussione l'antica pianta ha dato la lezione fondamentale: Non temete - scrive don Beppe - lo svuotamento di tutto ciò che è superfluo, il "vuoto" solo ha capacità di accoglienza e sa ancora cantare un inno alla vita.
Tutta questa intensità spirituale, questo ascolto e accoglienza della Parola, questo abbandono, questo amore per Cristo Gesù, resterebbero un beato retaggio, una luce fredda, se il Mistero di Dio, don Beppe non lo avesse calato, introdotto, vissuto, nel mistero della condizione umana, facendo la scelta di essere prete operaio.
Per i più, i preti operai sono una diversità, una anomalia, non ben definibile. Chi sono questi uomini che realizzano la fedeltà a Dio nella condizione della "gente che lavora"? Cosa è questa esperienza di portare dentro il "sacro recinto" della comunità cristiana la voce della gente comune?
Don Beppe lo spiega ancora con il riferimento a una creatura, forse anch' essa anomala, della natura: il cuculo di Salsomaggiore:
Tra il 25 aprile e il l" maggio, a Salsomaggiore, presso i frati conventuali, i preti operai si radunano. Si fissano i punti chiave della loro storia, si cerca l'energia e il coraggio per andare avanti. Chi è che, per don Beppe, avverte la straordinarietà di questo "amore per le mani nude, questa condivisione stupenda colla fatica del piccolo, dell'ultimo"? E' il cuculo, con il suo canto che comincia alle prime brume dell' alba e poi si dispiega, ritmato e insistente, per tutto il giorno. Nel suo tam - tam appassionato, lui ha capito l'annuncio della gioia che potrebbe essere per tutti i popoli se fosse condivisa nei 'fatti' la vita del mondo degli operai, cioè di quanti la fatica quotidiana schiaccia e deprime, se la loro vita fosse abitata dall'amicizia di Dio e non schiacciata dalla maledizione dei potenti.
E' per questo che la mia Elegia è un canto così desolato. Dove troveremo più uno sguardo di luce, come il suo, che, scendendo dall'amore vertiginoso per l'Assoluto, porta la Buona Novella della Salvezza nel mondo dei piccoli, condividendone la fatica e le umiliazioni da parte dei 'grandi' e dei 'superbi' ? E in fondo, non siamo tutti dei 'piccoli' dei faticanti con le mani callose, se ci liberiamo dagli orpelli della cultura, dell'essere qualcuno, dell'avere?
Addio, don Beppe, ci mancherà la tua battuta pronta, la tua allegrezza, la tua capacità di afferrare le cose essenziali porgendocele con immagini semplici, ma pregnanti, quali quelle dell'antico Castagno, della Conchiglietta posata sulla sabbia tra i detriti, del Torrente che scroscia giù dalla montagna, del Pane buono che esce profumato dal forno di paese.
Addio, don Beppe, compagno e amico sui sentieri tortuosi e faticosi della nostra vita. Come dice il salmista, "è nella tua luce che continueremo a vedere la Luce".



Grazia Maggi


in Lotta come Amore: LcA aprile 1998, Aprile 1998

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