Il quattro Ottobre

(continua dal numero precedente) Quando nacque l'A.R.C.A., questa non era altro che la seconda faccia "istituzionale" del progetto che aveva nell'impresa artigiana del Centro Artigiano Viareggio il suo elemento portante. Tanto è vero che lo statuto, steso dal notaio Francesco Rizzo (che ha seguito da allora, con grande pazienza e amicizia, insieme al personale del suo studio, tutto il nostro "tormentone" di "pellegrini dell'assoluto" in cerca di uno status giuridico...!), era impostato come un vestito su misura dei tre soci del C.A.V. ai quali era riservato di diritto il Consiglio direttivo.
Questa "seconda faccia" era la volontà di realizzare un luogo di lavoro aperto, oltre che alla dimensione lavorativa, anche alla dimensione di incontro e di sostegno ad ogni ricerca di lotta e resistenza in ordine alla comune dignità umana.
Così l'atto di nascita dell' A.R.C.A. segnò la possibilità di convenzione con il Ministero della Difesa per la presenza di obiettori di coscienza, lo svolgersi (titolarità dei permessi ecc.) dell' azione teatrale "Le ombre di Hiroshima" con tutto l'impegno antinucleare, ambientalista e pacifista degli anni '80 e lo stesso giornalino "Lotta come Amore" fu posto sotto l'ala protettrice dell' A.R.C.A. quale "editore" necessario per le continue strette di vite dell'inevitabile burocratico.
Ciò non significò soltanto un "giro" di carte, di firme e di marche da bollo, ma molto di più. Infinitamente di più. Un crocevia di iniziative, di incontri, di scontri vivacissimi. E se - d'inverno - il freddo nel capannone era polare, la ricchezza umana di quei nostri primi anni di vita in via Virgilio era al calor bianco!
Vorrei fare a questo punto un passo indietro. Quando maturò l'idea del progetto di lavoro in Darsena, non eravamo solo Sirio, Rolando ed io. Eravamo in quattro. E il quarto uomo non era un prete. Era Francesco Colzi dottore commercialista in Viareggio, che avrebbe collaborato attivamente con noi, non come consulente, ma come vero e proprio membro del gruppo, interessato com'era a tutta una ripresa di iniziativa e di ricchezza di vita insiti nella cultura dell'impresa artigiana creativa e della figura del "maestro artigiano". A lui ci affidavamo non solo per l'inevitabile burocratico..., ma anche per la chiarezza di prospettive e, sostanzialmente, per una idea che avrebbe probabilmente cambiato e reso diverso tutto il cammino de "il capannone". L'idea (soprattutto Sirio era preoccupato di questo) che noi preti avremmo sì lavorato, ma non come "padroni" sia pure di noi stessi: rifluendo cioè man mano in un contesto amministrativo in cui essere in una relazione di "dipendenza" da altri in modo che fosse chiaro che la "gerarchia" nel lavoro nasceva da una chiarezza di ruoli legati al lavoro stesso e non da una sovrapposizione con inevitabili ricadute nella confusione tra "il sacro e il profano". Ci sarebbe stata una presenza che fin da subito avrebbe significato questo.
Francesco, all'inizio dell'estate del '80 fu vittima di un incidente stradale e morì a seguito delle ferite riportate. Proprio quando noi ci eravamo trasferiti in via Virgilio al capannone.
I suoi amici sono stati e sono molto attenti alle nostre cose. Francesco ci ha lasciato in loro una eredità importante sia dal punto di vista umano che professionale. Ma come non continuare a pensare che la storia - la nostra piccola storia, evidentemente! - avrebbe seguito un altro percorso?
Si entra nel cuore degli anni '80. Lo spirito è forte... , ma la carne è debole! E magari fossero sopravvenute nuove fioriture d'amore...!
La stanchezza di tanta vita comincia ad attanagliarci. Le energie si spostano a contrastare invecchiamento e malattie. Alcune di esse, come quelle di Sirio, si rivelano irriducibili.


La "forza" produttiva si affievolisce mentre il "cuore" continua a battere e a farsi carico di problemi, persone, iniziative, storie di lotta e di resistenza umana. E' in questi anni - tra 1'85 e 1'88, la morte di Sirio - che si accentua in modo decisivo, un processo, apparentemente invisibile: l'AR.C.A diventa sempre più ARCA E non è una questione di... puntini.
Quella che doveva essere una seconda faccia, riferita all'impegno "oltre" il lavoro, diventa la prima faccia, anzi la faccia con cui la nostra iniziativa viene conosciuta e riconosciuta dalla gente, dalla città. E nell'Arca, come in quella mitica di Noè, finisce per essere accolto un po' di tutto. Con grande generosità, certamente, ma anche con il pericolo di una "ammucchiata".
In confronto con l'arca di Noè descritta nel racconto biblico con pedante esattezza fin nelle misure dei particolari, la nostra Arca è l'immagine stessa della "deregulation"!
Se il paragone finisse qui, ci potremmo anche pavoneggiare con l'immagine decisamente "casual" che ci deriva dall'autentico trasando in cui siamo abituati a vivere.
Ma, nell'arca di Noè si entra a due per volta perché l'arca è orientata alla vita. Alla sopravvivenza, è vero. Con la fiducia però di poter di nuovo toccare terra e uscire dall'arca. Non è davvero che a noi sia mancata la fiducia, la speranza, l'utopia di un sogno. Ma la gestione di una situazione in cui tanti, troppi problemi sono racchiusi nei cassetti dei sogni rischia di fatto di perdere contatto con la realtà permettendo al sogno di volare sempre più in alto in un avvitamento narcisistico fine a se stesso. Là dove ogni azione di rinnovamento umano rischia di finire: nella cornice dorata della "opera buona" che nessuno contesta e tutti ammirano perché sostanzialmente lascia le cose come stanno e "lava" la cattiva coscienza di chi non muove un dito verso una giustizia più vera.
E' in questa dinamica che abbiamo rischiato di essere coinvolti. E se la porta della nostra Arca si allargava sempre di più, i timidi tentativi di scoprire l'emergere di nuove terre per sbarcare alla vita di tutti coloro che vi si erano rifugiati, venivano generalmente frustrati.
Cresceva così, a poco a poco, - almeno in me - un senso di disagio e di oppressione: il "vecchio" non esisteva più e il "nuovo" ancora non si scorgeva. Si aggrovigliava la gestione interna con carichi di responsabilità pesantemente squilibrati e zone d'ombra di non attenzione alle problematiche quotidiane.
Trovai personalmente una "via di fuga" nel 1986 ad Assella, nel sud dell'Etiopia. Trapiantai letteralmente il mio lavoro di fabbro in una specie di "Città dei ragazzi" che raccoglieva oltre 150 giovani orfani, disadattati, handicappati. Passai di colpo dal "laghetto" di via Virgilio all'oceano dell'emarginazione.
In acque dove Narciso può abbandonarsi al suo sogno e alla contemplazione di sé senza rischiare di essere mai più distratto dai contorni di una qualsiasi terra che rifletta contorni diversi dalla sua insaziabile voglia di sé. Là, quell' anno come nei seguenti, fino al '91, entrò in me una qual sorte di disperazione. Che fosse possibile incidere o anche solo graffiare il corso della storia umana così da mutarne la direzione in modo stabile e duraturo. Ad ogni livello: nell'oceano come nel laghetto.
E mentre si compiva l'abbattimento del muro di Berlino, ero lontano mille miglia nella più completa ignoranza di essere sfiorato da un avvenimento epocale. Non potei quindi gioire delle macerie di un simbolo di violenza iniqua e intollerabile, ma quello era un tempo in cui mi aggiravo tra le macerie di un mondo che stava in piedi solo nella sua lussuosa facciata. E nel laghetto come nell'oceano stavo maturando la convinzione che ciò che può alimentare una speranza non è il sogno di un rinnovato incontro con la terra e la vita mentre si proclama di voler prosciugare le acque con un bicchierino. E' piuttosto tutta l'attenzione magari di una vita posta nel far sì che il bicchierino tolga veramente l'acqua. E non sia irrimediabilmente bucato. Nel laghetto come nell'oceano, la sproporzione dell'obiettivo con i mezzi che uno può mettere in campo è sempre abissale. Ma questo non esime mai dalla necessità di una coerenza e di un confronto con la realtà che non può mai essere accomodata come noi la desideriamo o la sogniamo. Può essere che l'unica cosa che si può fare è inchiodare due tavole a mo' di croce, ma bisogna stare attenti a non mettere mai la croce tra l'abissale sproporzione tra il sogno e la realtà a cercare di tappare lo "strappo". La croce ha la sua giustificazione quando viene posta a suggello della propria vita, quale risorsa "ultima" perché oltre il diluvio risuoni il grido di dolore di una speranza che non vuole morire.
Così rientrai nel "laghetto". Consapevole che l'oceano della miseria non è altro che il risultato di un travaso compiuto dal nostro mondo egemone.
Preso come da sacro furore, cominciai a... rimettere i puntini al loro posto: l'Arca ritornò ad essere l'AR.C.A, anche se Beppe si atteggia sempre più al ruolo di barbuto Noè, e la C.RE.A. cooperativa sociale prese possesso del capannone e iniziò un percorso che l'ha portata ad essere una piccola, ma reale impresa sociale. Un lavoro vero per tante persone.
L'Arca, il Capannone, il "4 ottobre"... non sono più gli stessi anche solo di dieci anni fa. Altre spinte, altre necessità, altri bisogni, altri progetti... Altri nomi, altre persone.
Altri sogni? Certo. Vecchi e nuovi insieme.
Ma - senza alcun dubbio - quella presente è veramente un'altra storia.


Luigi


in Lotta come Amore: LcA marzo 1997, Marzo 1997

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