Questa volta, invece della consueta lettera di Arturo Paoli - "La posta di fratel Arturo" -, pubblichiamo la presentazione dell'ultimo libro Arturo, "Il sacerdote e la donna ", da parte di Maria Grazia Galimberti.
L'intervento è avvenuto nel contesto della proclamazione dei vincitori che ha concluso, nel novembre scorso, la seconda edizione del Premi, Letterario intitolato a don Sirio, promosso dal Circolo Ricreativo Operaio della Darsena e riservato, nel 1966, ad opere inedite sul tema "Significato e valore delle differenze ". Il libro di Arturo è stato riconosciuto come l'opera edita d contributo particolarmente significativo in ordine alla tematica affrontata. E Arturo è invitato nel suo ormai consueto viaggio in Italia, alla fine della prossima primavera, a venire a Viareggio per un incontro atteso nel quale, oltre che ricevere un riconoscimento simbolico, rinnovare l'emozione di un incontro sempre ricco e nuovo prospettive e visioni.
Sono molto contenta di potere parlare di questo libro di Arturo Paoli, breve, dirompente e coraggioso, che mi ha regalato alcune fra le più belle pagine che ho letto, sul tema dell'alterità e sul valore delle differenze: l'uomo, la donna e la possibilità che abbiamo di cambiare attraverso il riconoscimento reciproco.
E sono contenta di presentarlo a due voci, quella di Monsignor Bettazzi e la mia, uno sguardo al maschile ed uno al femminile che spero rendano al meglio la vitalità del testo: la storia dell'incontro fra un uomo e una donna, un incontro avvenuto veramente, non so bene se trenta o trentacinque anni fa, quando Don Paoli lasciò l'Italia, (in pratica esiliato dalla Chiesa) per approdare in America Latina. Lì incontrò una giovane donna che si interessava con passione di un'organizzazione per la pace e di tematiche al femminile.
Il loro è stato un incontro speciale, di quelli che riescono ad aprirsi al dialogo: i due protagonisti accettano di lasciare alle loro spalle la sicurezza di un'identità acquisita per incamminarsi in un viaggio che sarà fecondo nella misura in cui si avvia verso l'ignoto.
Abbiamo tutti sperimentato che non sappiamo più chi siamo, in chi ci trasformeremo quando una relazione importante ha inizio: un dialogo come il loro, poi, ricco di tanta passionalità e conflittualità, porterà Arturo - noi sappiamo di lui, non di lei - ad abbandonare le sue difese, a lasciare la sua terra per rinascere per la seconda volta da donna.
Siamo tutti nati da donna, mi direte, e per parlare della parte maschile, tutti gli uomini nascono da donna: ma pochi lo fanno una seconda volta, facendosi tanto cambiare dall'incontro col femminile da permettere alla pelle vecchia di scivolare giù dalle loro spalle.
Arturo e G. vivono una storia profetica: la vita di schiere di uomini e di donne che li hanno preceduti lungo i millenni sembra acquistare in loro un nuovo significato. Per raccontarcela il Paoli usa un allegoria, quella di due personaggi: Abramo, il padre del popolo ebraico che guida un pugno di uomini verso la terra promessa, lo guardo fisso nel futuro e Sara, sua moglie, che vive nel chiuso della tenda e percepisce l'accadere degli avvenimenti al di là li un velo: dal di fuori, separata, assiste alla crescita di importanza del suo uomo, ode arrivare gli Angeli, gli emissari di Dio, e il popolo recarsi sempre più frequentemente a chiedergli consiglio, a lui, il principe Abramo.
Nella sua lunga, secolare esistenza, Abramo rappresenta il maschile chiuso in se che produrrà, al suo meglio, tensione etica: lo sguardo rivolto al futuro, incapace di vedere e di vivere il presente, genererà sistemi filosofici, codici giuridici, la forma stessa dello Stato, partiti politici, religioni, ma per fare questo deve sopprimere la voce dell'alterità. Il suo sguardo non può posarsi su nessuno, nemmeno su se stesso.
Sara, è il femminile che nei secoli conosce Abramo solo nella intimità della sua tenda, lì ne ha sperimentato la nuda fragilità, ma non osa confrontarsi con lui in pubblico, non osa uscire all'aperto e guardarlo negli occhi ponendosi come altro polo del dialogo. Ha timore della sua potenza: il maschile, d'altra parte, l'ha totalmente assimilata a se perché sia forza del suo destino, negandole in tal modo l'alterità, trasformandola in un luogo dove fondare le proprie radici.
Ma questa Sara cambia le regole del gioco, sbaraglia la storia, dà senso a tutte le donne che l'hanno preceduta, esce coraggiosamente dal chiuso della tenda ed osa guardarlo negli occhi, senza abbassare lo sguardo: la verità del suo amore e della sua passione vanno dritti al cuore e fanno capire ad Arturo che sotto il suo mantello indossava, da sempre, un'armatura che lo imprigionava: è quella delle istituzioni, della Chiesa, dello Stato, del Sapere.
Arturo è attratto dal suo sguardo ed insieme ne ha paura... è pronto a difendersi, prepara nella mano il coltello dell'obbedienza con cui uccidere Isacco.
<Abramo il sacrificatore!> gli grida lei.
Sì, lui è davvero capace di uccidere Isacco che in questo caso è lei, l'altro, e anche l'Isacco figlio, la parte più intima, più viva e vibrante di se: finche capisce che se uccide il figlio e la donna che può dargli la vita, muore per sempre .
La spada cade dalla sua mano ed egli è pronto a non più difendersi.
<Mi sono fermato> dice Arturo <vedendo te ho visto me stesso>.
Per Arturo era arrivato il tempo di passare dalla situazione di conquista (a te - dice Dio - darò una terra per il tuo popolo) alla situazione di dialogo, entrare dentro la relazione, farsi cambiare dalla relazione.
Si conclude così la prima parte della loro storia, e i due sembrano pronti a incontrarsi sul terreno della fusione totale. Ma qui entra in gioco il destino individuale, con tutto il suo mistero:
Arturo sceglie l'avventura dell'amore che è mutamento, non quella dell'amore che si compie nell'unione del corpo.
Il dialogo si fa ardente nella sua conflittualità, ma continua ancora qualche anno: <Tu mi neghi le chiavi del regno> si ribella lei, quel regno che è l'unione dei corpi e di cui solo l'uomo ha la chiave. Non consumandosi nel corpo, il loro amore deve giocarsi tutto nell'interiorità, esplorando sentieri che altrimenti non sarebbero stati percorsi. Nel tempo, il gioco dell'alterità donata risveglia sempre più profondamente in loro il bisogno di Dio, l'Altro da se.
<L'Amore o è teologia o non è amore> afferma Arturo. La teologia, dunque, non più come dissertazione su Dio: ogni dialogo di amore che si compie in terra è di per se teologia, Dio è presente nella relazione a suggello e garanzia dell'alterità, forse è solo in Lui che un uomo e una donna possono stare l'uno di fronte all'altra, amandosi e cantando ciascuno il proprio canto.
Vorrei chiudere ponendo un interrogativo. Perché Arturo si è fermato sulla soglia, non ha percorso il cammino naturale della coppia, anzi, vi oppone un divieto invalicabile? <Non sarò tuo, appartengo a Dio e alla povertà del mondo> afferma, aprendo così una contraddizione che rimane fra i due come una ferita sanguinante della quale lui si assume la responsabilità, trascinando anche lei nel suo destino.
Il fermarsi sulla soglia ha due ragioni: la prima è quella nobile della scelta, la castità come povertà. Vedete, quando Arturo ha compiuto il movimento di rinascita, in un gioco degli specchi anche lei è venuta alla luce, nella donna si è risvegliato il bisogno di una tenerezza struggente che vuole essere colmata e Arturo capisce che solo offrendole il suo corpo potrà farlo. Il non farlo colpirebbe la radice del suo orgoglio maschile. Ma vuole sperimentare la forma della povertà suprema, quella dell'uomo che non può accontentare la propria donna, cosa che l'ultimo contadino della terra è in grado di fare.
La seconda ragione riposa in un limite coniugato al maschile che Arturo si riconosce e al quale dà un nome: un tabù ben più profondo della necessità di indossare l'armatura, il senso del possesso. <Tu hai maledetto le mie mani che non sapevano accarezzarti senza possederti>, in questa consapevolezza Arturo rinuncia a compiere il gesto, ha fatto tanta fatica per abbandonare Abramo, per prendere le distanze dall'uomo vecchio che combatte strenuamente nella sua lotta in difesa dei poveri, nelle istituzioni!... Lo ferma proprio il sentire nelle sue mani la tentazione del racchiudere e tenere per se, di fare dell'altra motivo ed alimento della propria forza, non un polo del dialogo.
Nella faticosa storia della relazione uomo-donna Arturo non è stato ai margini, ha giocato la sua stessa vita: ha compiuto il cammino di trasformazione necessario a rinascere una seconda volta da donna, quando più tardi si è scontrato con un altro limite e gli ha dato un nome, ma si è fermato sulla soglia. Superarla non era nel suo destino, spetterà ad altri. Oggi, nella saggezza della sua vecchiaia, ci ha voluto raccontare tutto questo, compiendo un gesto che ha radici lontane come se lui avesse posto un seme nel grembo della storia.
E io spero che questo seme germogli nel nuovo millennio che ci attende, dando alla luce un maschile nuovo che lasci scivolare con mossa leggera dalle sue spalle il mantello pesante del possesso e un femminile che specchiandosi nei suoi occhi rinasca nuovamente, con un movimento che, questa volta, li unisca entrambi.
Maria Grazia Galimberti
in Lotta come Amore: LcA marzo 1997, Marzo 1997
Luigi Sonnenfeld
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