Missionari si interrogano

Ho letto con vero interesse e gioia l'intervento di P. Nello Ruffaldi: "Inculturazione: il nuovo volto della missione" su Inforpime (109 p. 3). Sono rimasto piacevolmente sorpreso che uno del Brasile abbia affrontato questo argomento che sembrerebbe un problema solo dell' Asia e dell' Africa, ma è invece, come P. Nello fa vedere, il cuore della missione. Accetto la sua proposta che "dobbiamo prendere posizione comunitariamente" sul problema della inculturazione. E' estremamente necessario che queste idee circolino all'interno dell'Istituto, perché vengano trasmesse a coloro che sono nella formazione: formatori e formandi.
Purtroppo se penso ai miei anni di seminario, anni '50, non ricordo di aver mai affrontato il problema dell'inculturazione (la parola allora non esisteva ancora), e non ricordo nessun professore che facesse distinzione tra evangelizzazione e proselitismo.

PROSELITISMO CONTRO EVANGELIZZAZIONE
Per noi missionari questa distinzione è un problema di vita o di morte, perché il proselitismo è condannato dal vangelo.
Che esiste questa distinzione io l'ho scoperto solo dopo essere venuto in India, leggendo Gandhi; ma ancora non son capace di dare una definizione che distingua le caratteristiche dell'uno e dell'altra. La distinzione in pratica se quello che fa o che ha fatto un missionario in particolare sia proselitismo od evangelizzazione, è ancora più difficile. Se vogliamo iniziare una ricerca su questa distinzione possiamo, almeno come tentativo, dire che evangelizzazione è presentare Gesù Cristo ed il suo messaggio in modo che persone e nazioni diventino seguaci di Cristo.
Proselitismo invece è fare seguaci per me stesso, per le mie idee (ideologia), per il mio partito (chiesa) o per il mio modo di fare (cultura).
La distinzione dipende quindi soprattutto dall'intenzione più che non dal metodo o dal risultato. Ma metodo e risultati possono rivelare l'intenzione. Bisogna anche dire che per me (e per chiunque) è impossibile presentare Gesù ed il suo Vangelo se non come l'ho capito io e come son capace di viverlo (cioè nella mia cultura). Qui sta il dilemma espresso da San Paolo con quella frase: "Siate miei imitatori tanto quanto io lo sono di Cristo". Il pericolo di fare proselitismo mentre si cerca di fare evangelizzazione è sempre presente, perché abbiamo sempre con noi il nostro egocentrismo. P. Nello ha riconosciuto che stava facendo proselitismo quando voleva imporre un certo tipo di religiosità ai suoi indios: li voleva far diventare come se stesso; "questo peccato tra i più gravi che ho commesso": cambiare il loro modo di fare, la loro cultura.

ACCULTURAZIONE
Bisogna però ammettere che quando due uomini s'incontrano, anche senza la presenza del Vangelo o l'intenzione di evangelizzare, avvengono degli aggiustamenti culturali.
Per esempio: dobbiamo stringerci la mano, abbracciarci o far solo l'inchino? Sono tutte espressioni culturali differenti. Chi si adatta all'altro fa una concessione culturale che gli Autori chiamano acculturazione. Secondo gli Autori (vedi Achiel Peelman, L'Inculturazione, Queriniana, 1993) "inculturazione" è un concetto ed un termine prettamente teologico; è solo il Verbo di Dio che si incarna e si incultura.
Il missionario e la Chiesa possono acculturarsi.
Questo non è solo un gioco di parole, ma porta alla conclusione che per inculturare bisogna "lasciar fare". Questo non significa che non dobbiamo far niente, ma che ci troviamo di fronte ad un "mistero" che sta avvenendo, che già è avvenuto, che possiamo anche aiutare, ma dobbiamo soprattutto scoprire e rispettare. Il nostro punto di partenza era la convinzione che noi cristiani, missionari, portiamo qualcosa agli altri, al mondo.
Questo qualcosa è il Cristo, il Vangelo, la salvezza. Per ora lasciamo da parte il termine "salvezza" (per recuperarlo dopo) perché dopo il Concilio Vaticano II sappiamo che la salvezza è data a tutti e che tutti possono salvarsi. Il problema è di definire che cosa intendiamo per salvezza.

FEDE E CIVILTÀ
L'idea che noi portiamo qualcosa ha giustificato per secoli l'esigenza che gli altri, coloro che ricevono, cambino, si adattino al nostro modo di capire il Cristo (teologia), di venerarlo (religione), di celebrare la sua morte e resurrezione (liturgia).
Fortunatamente al giorno d'oggi (dopo la fine del colonialismo politico) riconosciamo che gli altri non devono adattarsi al nostro modo di mangiare (carne e vino), alla nostra musica (anche quella religiosa o liturgica), alla nostra filosofia (tomista).
Purtroppo però le comunità cristiane nate negli ultimi secoli rappresentano tutt'oggi, in tutte le nazioni non cristiane, il gruppo più europeizzato per modo di vivere e di pensare. La presunzione era che tocca a loro adattarsi, acculturarsi a noi, perché inconsciamente la nostra cultura, (i nostri modi di fare) era considerata superiore. Fino al 1960 il missionario andava a portare "fede e civiltà" (come ben sintetizzava il titolo di una famosa rivista missionaria).
Poi ci siamo accorti che tocca a noi, ai cristiani acculturarsi. Ci siamo messi su questa strada di adattare noi e la nostra religione alle loro culture, ma senza sapere quanto adattarsi, fin dove adattarsi.

FINO A DOVE?
Ogni missionario può fare un elenco di tentativi di acculturazione.
Limitandoci ai tentativi nel campo liturgico in India, possiamo elencare: l'uso della lingua locale, celebrare seduti per terra, togliersi le scarpe per entrare in chiesa, uso di strumenti musicali e melodie locali, uso di vesti liturgiche differenti dalla pianeta e casula (si usa uno scialle arancione), uso dei bastoncini d'incenso, ecc. ecc... Non è mia intenzione di fare una lista completa, ma solo di mostrare che nel tentativo di fare una messa indiana a tavolino si è finito per privilegiare la tradizione braminica indu, dimenticando quella musulmana, quella dei dalit e quella dei tribali.
Queste culture minoritarie non sono solo differenti ma in contraddizione a quella indu braminica. Il colore arancione è attualmente identificato con l'induismo militante dei fondamentalisti. In una società divisa identificarsi con una parte significa inimicarsi l'altra.
Il processo d'inculturazione è pieno di problemi e di pericoli. Soprattutto se è fatto a tavolino nelle Commissioni liturgiche nazionali e non lasciato libero al singolo missionario sul campo. Allora si finirà per avere una dozzina di messe indiane e non una sola. Allora si finirà per perdere la "identità cristiana". Questo sta già succedendo in architettura: a prima vista non si capisce se un edificio è una chiesa cristiana o un tempio indu. Si dirà che l'architettura non è essenziale.
D'accordo, ma allora il problema è di definire l'essenziale.
Certamente stiamo entrando in un periodo in cui ci sembrerà di perdere l'identità e l'unità.
Il processo è iniziato con la rinuncia al latino come lingua liturgica, che dava veramente un'impressione d'unità. Un cattolico negli anni 50 si "sentiva a casa" in una qualsiasi chiesa cattolica, in qualsiasi paese del mondo. Dove andremo a finire con tutti questi tentativi d'inculturazione? Qual è lo scopo ultimo dell'inculturazione?
Di facilitare la conversione di tutto il mondo al cristianesimo occidentale? Per me il modo migliore per non spaventarsi è di percorrere la strada fino in fondo e di affrontare il problema da un altro punto di vista.


LE DIVERSE RELIGIONI RIMARRANNO SEMPRE
L'altro punto di vista è di capovolgere la situazione e di supporre che le religioni e i loro riti e le liturgie rimarranno sempre.
Per chi vive in Asia non è realistico pensare che Islam, Induismo, Buddismo e Confucianesimo abbiano a scomparire come avrebbe potuto desiderare qualche missionario d'inizio secolo.
Il problema potrebbe essere posto così: se un indu, un buddista ecc. incontra Cristo e crede in Lui, non potrebbe vivere la sua fede in Cristo all'interno della sua religione? Bisogna naturalmente fare distinzione tra Cristo e cristianesimo definito come religione dell'occidente. Convertirsi a Gesù non deve richiedere un cambiamento di religione. Gesù stesso non ha mai chiesto a nessuno di cambiare religione. Dopo aver guarito i dieci lebbrosi li mandò al tempio a compiere le loro pratiche religiose.
Naturalmente questo punto di partenza finirebbe per creare un numero imprecisato di cristiani anonimi e finirebbe per ignorare l'invito di Gesù ai suoi discepoli di riunirsi in una comunità di testimoni (la chiesa).
Dobbiamo certamente essere coscienti di questo pericolo; ma, io penso, che è un rischio necessario per rinnovare la Chiesa.
La Chiesa ha bisogno di fare un salto di qualità come al primo concilio di Gerusalemme con una decisione pratica, non dogmatica, di uscire dalla cerchia di Israele/Cristianesimo occidentale per identificarsi con le genti.
Per dialogare la Chiesa deve uscire da Roma come ha fatto il Papa che è andato ad Assisi.
I missionari del futuro dovranno identificarsi completamente con la religione del popolo a cui sono mandati, senza perdere la fede in Cristo e l'impegno a testimoniarlo. Dobbiamo uscire completamente dalla mentalità coloniale in cui le missioni sono vissute per cinquecento anni.
Il più grande ostacolo per l'inculturazione è il centralismo della Chiesa Cattolica Romana. Per permettere che l'inculturazione avvenga bisogna "lasciar fare" alle chiese locali così che possano esperimentare ed identificarsi con la cultura locale, assumere le espressioni religiose delle loro tradizioni e, per coloro che hanno tradizioni scritte, fare completamente uso delle loro Scritture.

"LASCIAR FARE"
Ora noi possiamo dire "Oh felix culpa" del colonialismo politico, economico e religioso che ha fondato la Chiesa in tutti i paesi; ma dobbiamo riconoscere che è stata una colpa e non possiamo più continuare a tenere le Chiese locali occidentalizzate, straniere nel loro paese, dobbiamo lasciarle libere di acculturarsi. Noi missionari potremmo fare come il seminatore evangelico che, dopo aver buttato il seme, andò a dormire ed il seme attecchì, germogliò e si sviluppò da solo. Oh meraviglia!!
Perlomeno dobbiamo essere coscienti che è il seme, il Vangelo, che deve inculturarsi, non la Chiesa occidentale che ha già una sua cultura.
E dobbiamo essere coscienti che i "semina Verbi" sono sempre stati presenti; quindi le diverse religioni, così come esistono, sono già al primo stadio d'inculturazione dei "semina Verbi" che non dobbiamo distruggere, che ora a contatto col Cristo storico devono ancora evolversi.
Dobbiamo fare come San Paolo che, ripensando la storia del popolo Ebreo (noi quello Indiano), ci scopre Cristo già presente: "Quella pietra era Cristo" esclama della roccia da cui bevevano durante l'Esodo (I Coro 10:4) e ci scopre anche il battesimo quando dice "tutti furono battezzati".
Così i cristiani indiani o cinesi, ecc. devono rileggere la loro storia o mitologia religiosa, i loro libri sacri, con simpatia ed amore per scoprirvi i semi di Cristo.
Questo lavoro non può essere fatto a Roma per tutti; Roma deve solo "lasciar fare" alle Chiese locali. Veramente! La missione appartiene ora alle Chiese locali.
Taloja, 11/4/95


Carlo Torriani


in Lotta come Amore: LcA luglio 1996, Luglio 1996

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