Il senso della giovinezza

Domenica 8 maggio si è svolta a Lucca la premiazione dei vincitori del Concorso letterario intitolato al giovane anarchico Pierluca Pontrandolfo, morto prematuramente. Ogni anno l'associazione che porta il suo nome indice un bando sul bel tema "Storie di vita all'opposizione": quest'anno Isabella Pera vi ha concorso con un lavoro che è risultato primo ex -aequo insieme a quello di Marcella Filippa "Avrei capovolto le montagne. Giorgina Levi in Bolivia" ed. Giunti, Firenze.
Il soggetto scelto da Isabella interessa molto da vicino le nostre vite e i temi trattati su questo giornalino, poiché ricostruisce l'esperienza comunitaria che prese vita intorno a Don Sirio negli anni che vanno dal '65 al '71. Si intitola "La comunità di S. Maria a Bicchio di Viareggio" ed è un viaggio alla riscoperta di quanto accadde.
Come sottolinea l'autrice, vi è scarsa documentazione scritta sul periodo in questione, salvo due fogli ciclostilati dal titolo "Terra buona" e "Popolo di Dio" che fungevano da voce viva di raccordo con la parrocchia (erano gli anni in cui il ciclostile aveva una gloriosa funzione nel divulgare le esperienze contro, fervide e spontanee che nascevano un po' ovunque); il giornalino <La voce dei poveri> che riprese le a pubblicazione nel '71; un paio di documenti parrocchiali e diocesani impegnati sul piano del pensiero e la mia tesi da assistente sociale che scrissi fra il '68 e il '69 mentre vivevo in comunità. La tesi si presenta come un'esperienza sociologica sul campo: la raccolta di notizie sulle nostre radici, sui personaggi che con-vivevano, la vita vissuta con foga e la riflessione che vi fa da contrappunto e ricava tracce di percorsi ed ipotesi di lettura. Mi ricordo che allora costituì un punto fermo, importante per tutti noi, una pausa di riflessione che si racconta mentre vive.
L'ho messa a disposizione dell'autrice del saggio per il suo lavoro di ricerca e lei ne ha tratto numerose citazioni, essendo in pratica l'unico filo conduttore scritto a cui riferirsi.
Oltre alle fonti scritte, la ricostruzione storica di Isabella Pera è affidata all'onda dei ricordi di alcuni protagonisti intervistati: sarebbe stato interessante ascoltare l'intrecciarsi di un coro a molte voci, anche solamente locali: dai parrocchiani ai viareggini che andavano e venivano, ai personaggi versiliesi dell'epoca, a chi, giovane allora, è poi diventato personaggio.
Ma pur nella stringatezza documentaria leggere le pagine di questo lavoro ha dato il via all'emergere di frotte di ricordi e sensazioni e mi ha spinto a interrogarmi sul senso della giovinezza. Vorrei rileggere con voi quella storia dall'orlo della mia vita, da dove sono arrivata: 53 anni. Gli anni contano tanto? Sì, certo, quelli passati e quelli presenti formano la storia e danno sapore all'esistenza.
Il privilegio di chi avanza negli anni è l'esperienza, è il poter guardare indietro e non solo ricordare, ma leggere e rileggere gli avvenimenti come in un caleidoscopio, scoprendone sempre nuove angolazioni.

LA NOVITÀ ERA UNA SORTA DI LEITMOTIV
Probabilmente molti di voi ricordano la storia della comunità del Bicchio, ma per chi allora non ci conosceva la sintetizzo:
Don Sirio, smessa non per sua volontà l'esperienza operaia, chiese al Vescovo di poter dare inizio ad una esperienza comunitaria con un amico prete della diocesi, Don Rolando, esperienza che era fin dall'inizio aperta anche a donne, laiche, e a chi avesse voluto aggregarsi.
Il tutto nello stile della povertà vissuta attraverso un lavoro manuale e la semplicità di vita. Il vescovo assegnò loro una parrocchia a sud di Viareggio, in zona agricola e la comunità iniziò a vivere crescendo gradualmente in numero e genere: dai due iniziali agli undici finali, uomini e donne insieme.
Entro questi brevi dati biografici si è svolta un'incredibile esperienza: un incrociarsi di mentalità, generazioni, culture di appartenenza distanti fra loro; un porgersi vicendevole una mano per capire e mente, occhi e cuore nuovi, coi quali guardare alla vita; una creativa con-fusione di ruoli fra uomini e donne, preti e laici dai quali emerse col tempo un nuovo modo di rapportarsi.
Fino al punto che da quel vivo crogiolo prese forma un modello di vita speciale, originale in senso di originario: la vita evangelica? Il regno di Dio vissuto in campagna? Un pezzetto di paradiso perduto? Sempre più di frequente nel nostro linguaggio ricorreva un termine: essere uomini nuovi e donne nuove.
La novità era una sorta di leitmotiv, forse più ancora della povertà e della verginità che avevamo consapevolmente scelto.
Ricordiamoci che si era a fine '65, in anteprima, se così si può dire, rispetto ai sommovimenti che si stavano preparando in campo di costume, di pensiero, di arte, di linguaggio. E la novità che leggevamo con occhi puri nella parola di Dio e praticavamo giorno per giorno, veniva rinvigorita da quei fremiti, quelle intuizioni, ribellioni di fronte all'ingiustizia, voglia di cambiare, speranza nel presente che gia si potevano captare nell'aria. Molti di noi erano giovani, allora, intorno ai 25 anni: ci affacciavamo alla vita e lo facevamo con l'entusiasmo, la baldanza, la foga tipica dei giovani, pur nella diversità dei caratteri.
Mi piacerebbe un giorno indagare su come era vissuta al nostro interno la differenza generazionale. Ma ora taglio con l'accetta perché vorrei seguire l'onda di una riflessione che si affaccia e dico semplicemente che i due "adulti" della situazione, Don Sirio e don Rolando, avevano ambedue, il primo in maniera speciale, la giovinezza di chi precorre i tempi.

...PER NOI CHE CI AFFACCIAVAMO ALLA VITA
Ma noi... era come bere la vita d'un fiato, o almeno così lo sento adesso. Pensate a sei giovani persone, nate più o meno nel periodo della guerra che sono stati bambini e poi adolescenti negli anni '50: due ragazze e quattro giovani preti, io e Mirella, Luigi, Mario e i "due Beppi", come li chiamavamo scherzosamente. Venivamo da ambienti sociologicamente diversi, ma guardando col senno di poi molte diversità si appiattiscono sullo sfondo di una identità comune: eravamo figli del nostro tempo. Di quegli anni Cinquanta inquadrati, regolati, dove per i giovani ogni cosa doveva essere al proprio posto, ogni domanda aveva una risposta prestabilita e non era pensabile uscire dai modelli imposti. Rispetto ai nostri coetanei avevamo un ostacolo in più che ci separava dal vivere la vita con la pienezza che oggi diamo a questo termine. Per me e Mirella c'era lo status di donne, eh sì, uscire dai ruoli era ben difficile per una ragazza di allora.
E quanto ai quattro giovani uomini il loro sesso non era un vantaggio, perché l'abito talare li tagliava fuori dalla possibilità di inventare la vita.
Eppure, se un'etichetta può essere data al periodo trascorso in quel di Bicchio, credo possa sintetizzarsi in: "pienezza di vita" In queste due parole sono racchiuse ed intrecciate convergenti, tutte legate alla vocazione cristiana e all'incarnazione che costituivano per noi, come dire, la chiave di volta dell'intero sistema. Il desiderio del cuore e della mente era proprio quello di essere dentro con quanto di duro, difficile, fedele, insieme innovativo e vecchio di duemila anni, ma anche fascinoso e simbolico è insito nell'incarnazione. Noi la intendevamo come fedeltà ai più poveri, ma quanto erano strettamente mescolate la vita cristiana e la giovinezza che danzava nei nostri cuori nell'aprirci a un vivere al di fuori degli schemi conosciuti, a un vivere che aveva il gusto ricco dell' avventura in territori sconosciuti!
I territori erano nuovi sicuramente per me e per chi come me veniva da una famiglia borghese (e di quegli anni!... ), si trattava di levare filtri, protezioni, anni di studiate maniere che distinguono e abbandonarsi a una verità interiore che ci permetteva di svelarci.
A cosa ci abbandonavamo così prepotentemente? Alla voce di Dio che avevamo scoperta, ognuno sulla propria via di Damasco e che ci proponeva di seguirlo senza mezzi termini.
Sapere che esisteva era per noi sufficiente ad avviarci senza voltarci indietro, l'inoltrarci in una dimensione dove era possibile incontrarlo divenne la ragione della nostra vita. Cosa chiedere d'altro con questa sicurezza nel cuore? Potevamo lasciarci alle spalle padre e madre, campi e partire.
Nel viaggio intrapreso vi era un altro richiamo forte all'abbandono: l'incontro con gli altri, che fatto di slanci, ma anche di difficoltà di relazioni, ci risucchiava verso quel centro gravitazionale che è l'incarnazione. Il mescolarsi, l'acquisire gusti, sapori, odori diversi. L'essere impastati lentamente insieme.
Dio e il mondo erano un unico polo di attrazione a cui mi sembra si intrecciasse l'abbandono della giovinezza che si affaccia alla vita e vive i propri ideali.
La particolarità della nostra esperienza, per lo meno della mia, è consistita nel dono di vivere, intorno ai vent'anni, un'utopia da toccare con mano, nella quali calarsi assaporandone appieno il gusto.
La vita povera, la scelta di classe, il mondo che sta in basso, la terra da coltivare, il fuoco delle forge nell'officina e quello del grande camino in cucina, tutto conduceva alla corporeità, appunto, all'incarnarsi, l'uscire dalle stelle ed entrare nella vita.


Maria Grazia Galimberti


in Lotta come Amore: LcA luglio 1996, Luglio 1996

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