La posta di fratel Arturo

Cari Amici,
Vi sembrerà strano che Arturo che vive da quarant'anni fra la povera gente, dichiari di essere molto interessato alla fine della filosofia, avvenimento che è stato definito da un filosofo, "il senso stesso della nostra epoca" che è quanto dire l'avvenimento più importante del nostro tempo. Anche se posso dedicare una parte del tempo piccola piccola allo studio, e che la maggior parte della mia giornata la passi ascoltando le vicende poco liete dei miei vicini, il tema della fine della filosofia mi interessa come una buona notizia, fra le tante cattive che giungono ai poveri.
Sono solo un dilettante di filosofia, e come ogni dilettante un guastamestiere, e non dovrei azzardarmi a toccare il tema. Ma questa fine della filosofia non è un avvenimento che coinvolga solamente la casta degl'intellettuali e le loro diatribe, è un avvenimento che ha una ripercussione sui poveri, su quelli della mia comunità, a cui la semplice parola filosofia deve ricordare quella noiosa signora che vuol costringerli a sposare in chiesa. Non so quando le benefiche conseguenze della fine della filosofia si faranno sentire nelle "favelas", ma sono sicuro che si faranno sentire. Se è vero che questo avvenimento così lontano dal rumore mondano, è il senso della nostra epoca, e io lo credo, l'epoca tocca anche i poveri, e oserei dire soprattutto i poveri. Come il sole illumina ricchi e poveri almeno finché i berlusconiani non abbiano scoperto la tecnica di monopolizzarlo per i giardini delle loro ville.
Per me la fine della filosofia significa la fine della distanza. Il pensiero "puro" staccato dalla sensibilità si era assicurato uno spazio sempre più lontano da cui dominava tutta la realtà umana e subumana. Il famoso assioma filosofico che "nulla è nell'intelletto che prima non sia nei sensi" ha sempre avuto un senso univoco, direi che era un prendere senza restituire: i sensi facevano il lavoro degli schiavi che non devono ricevere stipendio, o salario. I veri poveri non avevano accesso a quello spazio e, perché non venisse loro la voglia, la loro intelligenza, parte dello spirito o dell' anima che anche loro hanno (anche se in certe epoche alcuni teologi lo mettevano in dubbio) veniva impedita di muovere i primi passi con la guida dell' abbecedario. Riassumendo, per me la fine della filosofia rappresenta la fine della dominazione, anche se questo non significherà l'avvento immediato della fraternità e dell'uguaglianza. Ma intanto già ora significa una uguaglianza topografica: la ragione sfrattata dal mondo delle idee, deve tornare ad abitare nel corpo prima, nella natura poi, e finalmente nell'umanità.
Basti pensare al progresso che ha fatto la scienza da quando gli scienziati si sono sentiti coinvolti nel divenire e nell' apparire dei fenomeni, rinunziando a guardarli dal di fuori e dall'alto. Questo segna irreversibilmente la fine di un metodo applicato nel mondo religioso nelle sue articolazioni spirituali, dottrinali e pastorali. Per parlare chiaro oggi è assolutamente fuori tempo parlare di scelta dei poveri, quando questa scelta è proclamata "fuori" e "lontano". Lo prova il fatto stesso - diventato oggi umoristico - che il progetto "scelta dei poveri" sia come una palla che continua a stare in campo e ad essere rimandata da uno all'altro perché continua ad essere giuoco e non realtà. La Chiesa arriverà a capire che l'inefficacia dei suoi documenti non è imputabile del tutto alla cattiva volontà dei discepoli, ma soprattutto a un fenomeno epocale. Proprio a quella fine della filosofia, che piuttosto che fine si può definire come risurrezione della filosofia.
E' stato negato definitivamente il principio che definisce l'identità dell'uomo come pensiero, perché giudicato dai frutti, ultimo dei quali l'assolutismo tecnologico che introduce la sclerosi progressiva della ragione.
Non è il caso di suonare la campana a morte per la filosofia, piuttosto è il momento di suonare una distesa a gloria per la risurrezione della filosofia che richiede come soggetto pensante l'uomo globale, il vero uomo. L'uomo ente relazionale, in relazione vitale con gli altri, con le cose: solo questi è capace di verità. Il momento in cui Einstein abbandona il metodo tradizionale, che parte dai sommi principi e assume un metodo che è più vicino alla poesia e alla intuizione artistica, - uomo che pensa nel corpo e col corpo - nessuno può pensare alla morte della scienza, perché è l'inizio di un viaggio che va molto lontano.
Non penso assolutamente che un teologo o un vescovo debbano andare a vivere fra i baraccati per raggiungere quella vicinanza essenziale alla loro attività di pensiero e di spirito, ma penso inevitabile che gettino le fondamenta delle loro costruzioni di pensiero, o dei loro progetti pastorali fra i poveri e con loro. E' certamente una grande scoperta quella del filosofo Lévinas, che il filosofare parta dall'apparizione del volto del fratello che ci mette davanti all'alternativa: o assassini, o liberatori. Ma questa scoperta resterebbe completamente senza seguito se non fosse accaduta nell'epoca della morte della filosofia e non rappresentasse la direzione di una rinascita: il primo passo del pensare è etico e non teoretico. Il pensiero dell'uomo è creativo, costruttivo e soprattutto vero, quando parte dalla coscienza della responsabilità che lega ciascuno agli altri, e alle cose. Una responsabilità che assumo non perché ho un buon cuore, perché lo voglio, ma perché costitutivo del mio essere uomo.
Sono riuscito a spiegare perché il fatto epocale della morte della filosofia m'interessi moltissimo? Un metodo che ci porterà più vicini ai poveri, che ci impedirà di parlare di loro se non "con" loro. Non sarà più possibile parlare dal difuori e dall'alto, anche se con amore sincero. Se crediamo che Dio si è fatto carne, carne del povero, potremmo evitare di stare carnalmente accanto Lui e di toccarlo di tanto in tanto perché ci liberi dalla lebbra dell'egoismo e dell'orgoglio?


fratel Arturo


in Lotta come Amore: LcA luglio 1996, Luglio 1996

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