Non so se gli amici-lettori del nostro giornalino si sono mai soffermati a guardare con particolare attenzione le figure di quegli uomini tesi nello sforzo di trattenere una robusta corda che il primo della fila raccoglie accuratamente ai propri piedi: sono i silenziosi compagni che da tanto tempo costituiscono il simbolo di queste nostre umili pagine nelle quali cerchiamo di riversare qualcosa di ciò che attraversa l'anima, la mente, il cuore. Da tanto tempo volevo soffermarmi un momento a fare qualche considerazione partendo da quelle figure che sono state ritagliate nel legno con mano davvero capace ed intuizione creativa da un artigiano-artista vissuto proprio qui in Darsena. Il piccolo spazio dell'intaglio raccoglie in modo molto efficace ed espressivo lo sforzo dei pescatori più poveri che un tempo cercavano di guadagnarsi da vivere lanciando a poche decine metri dalla spiaggia la "sciabica", che poi essere riportata a riva dalla forza delle braccia di chi ogni volta sperava di trovare nella rete un po' di buon pesce da vendere al mercato. Pescatori poveri, che possedevano una barchetta, una rete, tanta forza di braccia e di gambe, tanta speranza che il grande campo del mare avesse sempre qualcosa di buono anche loro. Pescatori di "sciabica", chiamati popolarmente "sciabigotti", termine che poi nell'uso comune ha finito per essere sinonimo "poveracci", sciagurati, gente di poco conto, ultimi del carro... Sono particolarmente affezionato, da sempre, a questi uomini ritratti momento del massimo sforzo per recuperare lo strumento del proprio sostentamento e che non sanno ancora che cosa ci sarà nella rete: l'importante è tirare con decisione, con ritmo, insieme, senza lasciarsi prendere né da sgomento né da incertezze. I loro corpi protesi nell'intensità dello sforzo fisico lasciano trasparire anche ciò che attraversa le loro anime di creature sottoposte alla dura necessità della quotidiana ricerca necessario per vivere. Sono figure che richiamano alla memoria intere generazioni di uomini e donne, di bambini e bambine che si sono consumati nella fatica e nell'incessante logoramento del lavoro manuale in ogni angolo della terra. Sono figure di un tempo passato, ma anche di un drammatico presente fatto di milioni di persone che a tutte le latitudini ogni giorno si tendono nello sforzo richiesto dalla dura necessità della vita e si consumano in un "sacrificio" degno del più grande rispetto e della più totale accoglienza. Gli "sciabigotti" mi sono altrettanto cari per quella realtà "simbolica" che, almeno per me, sento particolarmente vicina al mio vivere d'ogni giorno, ai sentimenti che accompagnano il cammino, alle sensazioni profonde che avverto e che mi fanno sentire molto vicino a loro. Mi sono molto cari anche perché, quasi inevitabilmente, essi richiamano alla mia memoria altri "sciabigotti'' delle pagine evangeliche, che dopo aver tentato per tutta una notte di catturare un po' di pesce ritornano stanchi e delusi verso terra, senza "aver preso niente". Il racconto evangelico di questo episodio è carico di un forte sentimento di partecipazione da parte di Gesù che sembra essere quasi commosso da questa fatica andata a vuoto ed invita gli amici a ritentare ancora una volta. Anch'io mi sento molto dentro questo modo di vivere ritmato dal quotidiano e mi ritrovo ben "interpretato" dall'immagine scarna degli amici sciabigotti della scultura riportata sul giornalino perché in essi mi sembra di vedere molto bene espressa un'immagine della vita molto aderente alla realtà ed alla verità delle cose. Quei corpi protesi nello sforzo, le mani decisamente attaccate alla corda che porta con sé la speranza del pane quotidiano, i piedi saldamente puntati dentro la sabbia, mi parlano di una condizione di vita legata alla normale necessità di un'esistenza che cerca l'essenziale, quasi uno stile "francescano" con cui affrontare ed accogliere il peso d'ogni giorno, una semplicità di vivere dentro la grande, inevitabile complessità dei rapporti e delle vicende. Nello stesso tempo, nella loro spoglia dignità di creature umane legate tra di loro da un comune destino, gli "sciabigotti" sono per me segno di una speranza incessante, di una fiducia che non demorde, di una resistenza che non si lascia fiaccare dalle delusioni di una rete vuota, dopo tanta fatica e tanto sudore: tutto questo non per un rifiuto di guardare in faccia la verità, ma per una segreta, istintiva necessità di tenere lo sguardo fisso oltre la linea dell'orizzonte... L'importante - questo mi pare che essi mi sussurrino - è lanciare la piccola rete che ciascuno porta sulla barchetta della propria umana esistenza; lanciarla con fiducia, con accorta saggezza, con tenace impegno nel vasto mare della vita, anche se ci è dato di sondarne soltanto una piccolissima parte, come chi è costretto a rimanere ancorato alla riva, con la corda della rete fra le mani segnate dal vento e dalla salsedine. Essere insieme in questo sforzo che si ripete ad ogni sorgere del sole, mani che si stringono in uno sforzo comune, nella serena consapevolezza che ogni goccia di sudore, ogni moto autentico del cuore, ogni ricerca di comunione sincera, per quanto piccola possa essere, lascia un'impronta sulla sabbia dell'esistenza e può segnare una crescita di tutte quelle cose che rendono buona la vita. Essi, gli "sciabigotti", rimangono sempre una piccolissima realtà di fronte all'immensità del mare: ma "rimangono" e le loro mani ripetono il gesto della necessaria speranza e della fiducia umile e tenace di cui, forse, soltanto loro conoscono il profondo segreto. Nel brano del vangelo di Giovanni a cui facevo riferimento poche righe sopra e che è posto quasi al termine del suo scritto, c'è un elemento pieno di infinita poesia e di intensa comunione, un "segno" tenue e nello stesso tempo immensamente carico di speranza: quando gli "sciabigotti" che non hanno preso niente toccano terra con uno straordinario carico di pesci trovano un fuoco acceso e del buon pesce alla brace e del pane. Nessuno chiede niente e tutti "sanno" come stanno realmente le cose: non c'è da fare altro che sedersi tranquillamente e fare insieme una buona colazione.
don Beppe
in Lotta come Amore: LcA marzo 1996, Marzo 1996
Luigi Sonnenfeld
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